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ACTA PHILOSOPHICA PONTIFICIA UNIVERSITÀ DELLA SANTA CROCE RIVISTA • INTERNAZIONALE • DI • FILOSOFIA ARMANDO EDITORE

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ACTAPHILOSOPHICAPONTIFICIA UNIVERSITÀ DELLA SANTA CROCE

RIVISTA • INTERNAZIONALE • DI • FILOSOFIA

ARMANDO EDITORE

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Consiglio di Redazione Francesco Russo (Direttore), Stephen L. Brock, MarcoD’Avenia, Francisco Fernández Labastida (Segretario)

Consiglio Scientifico Luis Romera (Presidente), Sergio Belardinelli, GabrielChalmeta, Lluís Clavell, Martin Rhonheimer, Angel RodríguezLuño, Francesco Russo, Juan José Sanguineti

Amministrazione Armando Armando s.r.l. viale Trastevere 236 - I-00153 RomaUff. Abb. tel. 06.5806420 – fax 06.5818564Internet: http://www.armando.it E-Mail: [email protected]

Redazione Pontificia Università della Santa Crocevia dei Farnesi, 82 – I-00186 Roma tel. 06.68164500 – fax 06.68164600E-Mail: [email protected]: www.usc.urbe.it/acta

Direttore Responsabile Francesco Russo

Le collaborazioni, scambi, libri in saggio vanno indirizzati alla Redazione

Autorizzazione del Tribunale Civile di Roma, n. Reg. 625/91, del 12.11.1991Iscrizione al Registro Nazionale della Stampa, n. 3873, del 29.11.1992

Le opinioni espresse negli articoli pubblicati in questa rivista rispecchiano unicamenteil pensiero degli autori.

Imprimatur dal Vicariato di Roma, 9 gennaio 2004

ISSN 1121-2179

Rivista associata all’Unione Stampa Periodica Italiana

Acta PhilosophicaRivista Internazionale di Filosofia

Volume 13 • Fascicolo 1 • Gennaio/Giugno 2004

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Semestrale, vol. 13 (2004), fasc. 1Gennaio/Giugno

sommario

QUADERNO: FAMIGLIA E FILOSOFIA

Marco D’AveniaPresentazione: prospettive per una filosofia della famiglia

Jesús Ballesteros La familia en la postmodernidad

Nancy ShermanEmpathy and the Family

Andrea M. Maccarini Unità e multiformità della famiglia in Occidente: sensi e percorsi dopo lamodernità

Studi

Mariano IturbeKarmayoga - Jñānayoga in Rāmānuja or Active Life - Contemplative Lifein Aquinas. A Meeting Point between Indian and Christian Thought

Note e commenti

Luis RomeraEl itinerario hacia Dios: dimensiones existenciales, hermenéuticas y meta-físicas

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Juan Fernando SellésAcerca del saber hacer. Estudio del hábito del arte siguiendo a Tomás deAquino

Giuseppe Tanzella-NittiL’ontologia di Tommaso d’Aquino e le scienze naturali

Cronache di filosofia

Il “Fondo Fabro” (A. ACERBI)

Convegni e Società filosofiche

Vita accademica

Bibliografia tematica

La famiglia e l’amore coniugale (G. CHALMETA)

Recensioni

Michel HENRY, Paroles du Christ (P. Sabuy)Armando RIGOBELLO, L’estraneità interiore (F. Russo)John M. RIST, Real Ethics: Reconsidering the Foundations of Morality (J.P.Dougherty)María de las Mercedes ROVIRA REICH, Ortega desde el humanismo clásico(J.A. Mercado)

Schede bibliografiche

Marco IVALDO, Introduzione a Jacobi (S. Patriarca)A.P. MARTINICH - D. SOSA (a cura di), A Companion to Analytic Philosophy(M. Pérez de Laborda)Maria Antonietta PRANTEDA, Il legno storto. I significati del male in Kant(G. Faro)Carlo SCALABRIN, Bibliografia filosofica italiana 1999 (T. Valentini)

Pubblicazioni ricevute

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Quaderno: Famiglia e Filosofia

Presentazione: prospettive per una filosofia della famiglia

MARCO D’AVENIA*

Una serie di mutamenti sociali, storici e culturali sollecitano il filosofo a intra-prendere una rigorosa riflessione sul tema classico della famiglia. Si tratta di farei conti con una ridefinizione degli spazi sociali e relazionali, che hanno provoca-to lo sconvolgimento e la frammentazione di quei ruoli che in questo ambito eranostati originariamente delimitati da Aristotele. La famiglia è oggi una relazionearticolata (o meglio una costellazione di relazioni) inserita entro altre relazionicomplesse; quest’interazione, interna ed esterna alla famiglia, ha cambiato inmaniera significativa i ruoli precedentemente riconosciuti ai propri attori e di con-seguenza i loro rapporti reciproci. È mutata la considerazione sociale e antropo-logica della donna, si è complicato il rapporto con il mercato, si sono spostati iconfini tra ciò che è dentro e ciò che è fuori della famiglia; in sostanza, è cam-biato il modo di essere in famiglia e il modo di essere fuori di essa; dinanzi alrischio di perdere i valori di cui la famiglia è stata storicamente portatrice, alcuniarrivano a pensare che sia opportuno “congelare” la struttura della comunità fami-liare tradizionale.

D’altra parte, questa mentalità da ritirata strategica, seppure temporanea,rischia di far perdere l’incidenza sociale della istituzione familiare; ma l’alterna-tiva non è sempre priva di ostacoli: certe volte i ruoli imposti dalla società ai suoicomponenti sembrerebbero costringere a rinunciare alla famiglia per poter vivereuna vita normale, non schizofrenica (molta letteratura e cinematografia contem-poranea ritrae entrambe le alternative e anche il dilemma della lacerazione dell’io,quando si vuole coniugare il dentro e il fuori).

La modernità aveva già dovuto attuare a più riprese un ripensamento dellarelazione familiare, cercando di mantenere lo schema tradizionale, pur nel muta-

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ACTA PHILOSOPHICA, vol. 13 (2004), fasc. 1 - PAGG. 5-9

* Pontificia Università della Santa Croce, Piazza Sant’Apollinare 49, 00186 Roma, e-mail:[email protected]

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re delle situazioni sociali, politiche ed economiche. Al culmine della riflessionefilosofica moderna, l’Hegel dell’Enciclopedia riusciva a salvare nel suo sistemal’essenza della relazione familiare rendendola condizione e parte integrante dellacostituzione dello Stato, e a questo Stato la ancorava saldamente; col risultato perla famiglia di perdere il proprio fondamento, una volta entrata in crisi la formapolitica statale di riferimento. Di conseguenza, la famiglia parrebbe ridursi oggi aun contenuto relazionale vuoto che ospita al suo interno le forme più diverse diprossimità relazionale e affettiva, in qualche modo legate all’esercizio della ses-sualità, della riproduzione, di certi livelli e forme di educazione e di solidarietà.Alla cosiddetta “famiglia tradizionale” o “nucleare”, basata sulla complementa-rietà sessuale, fondata sul matrimonio e orientata alla educazione dei figli e per-ciò legata alla successione delle generazioni, non viene riconosciuta nessuna dif-ferenza qualitativa rispetto ad altre forme di relazione interpersonale.

A complemento di questa realtà sociale, lo sviluppo rapidissimo delle tecnichedi fecondazione artificiale e di ingegneria genetica (ambito peraltro ancora tuttoda mettere a fuoco) rende ancora più pressante la domanda su un’istituzione cheè luogo di generazione fondato sulla complementarietà biologica: non è infatti piùfisicamente necessario ricorrere alla sessualità umana per potere avere dei figli econ ciò verrebbero meno una serie di legami connessi a questa “necessità”. Colvantaggio di potersi aprire a forme relazionali nuove, spontanee e più “leggere”,indipendentemente dalle contingenze di genere, di età e magari di specie: insom-ma una relazione nella quale prevalga la libertà caratteristica dell’umano e sianoeliminate le contingenze e imperfezioni del biologico, considerato come una sferasolo contingentemente legata all’umano.

La prospettiva con cui oggi si affronta il tema della famiglia segue spesso unafalsariga precisa, che si può per sommi capi ricondurre alla combinazione di duetesi, una filosofica e l’altra empirica. Si sostiene da un lato che “non esiste nes-suna società naturale” (e questo vale anche per la famiglia); si cerca allo stessotempo di mostrare come di fatto la famiglia sia luogo che genera sottomissione,se non addirittura sfruttamento e perversità. Il tutto, magari, secondo ben precisee pilotate strategie. La combinazione della prima tesi filosofica con il secondorilievo, di carattere empirico-fattuale, coincide con la riproposizione dell’anticatesi secondo la quale, quando si pretende di spacciare come natura la cultura tra-dizionale, si producono conseguenze nocive per la libertà e l’autonomia della per-sona. Qualcosa che ripugna al sentire etico e che comunque non ci si può per-mettere in una società che promuove le differenze e l’autonomia delle scelte deisingoli.

Tuttavia, in questa combinazione si nascondono diversi errori, di carattere logi-co e filosofico, che tra l’altro mutano la comprensione degli stessi valori in gioco:autonomia, rispetto della diversità, promozione della persona, con la conseguenteserie di incongruenze, per esempio a livello giuridico, presenti nei nostri codici ecarte costituzionali proprio in tema di famiglia. Quali sono, assai brevemente, que-sti errori? Innanzitutto, la prima tesi è fortemente ambigua: infatti non esiste di

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QUADERNO: FAMIGLIA E FILOSOFIA

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fatto nessuna società che sia puramente naturale, se intendiamo con questo termi-ne un’“entità sociale” che sussista totalmente avulsa da mutamenti storici e socia-li: né Aristotele né Hegel pensavano la famiglia in questo modo: il fatto che nellaPolitica tale istituzione implicasse l’inferiorità della donna, la pratica della schia-vitù e una concezione assai rudimentale delle relazioni economiche e sociali, o cheessa fosse strettamente funzionale all’amministrazione prussiana nel diciannovesi-mo secolo, non vuol dire affatto che per questo tutto l’insieme di relazioni, legamie rapporti affettivi che vanno sotto il titolo di famiglia debba essere consideratoipso facto radicalmente sbagliato: la realtà della famiglia è sempre natura, declina-ta nel tempo e nello spazio della cultura. In questo senso, esistono istituzioni natu-rali e istituzioni non-naturali, e sono tutte quante culturali.

Ciò che invece può correttamente discendere da una concezione non antiteticadel rapporto natura-cultura è che essa è in grado di sopportare il mutamento cul-turale degli agenti nella relazione familiare e della relazione stessa, senza imme-diatamente cadere né nel relativismo culturale che porta ogni relazione interper-sonale ad equivalersi, né dovendo per questo abdicare alla concezione rous-seauiana di una cultura forzatamente perversa che innerva necessaria “la famigliatradizionale” (l’opposizione natura/cultura, con la valutazione negativa della cul-tura, e l’analisi pessimistica della famiglia tradizionale sono peraltro due tesi trale quali non c’è relazione di necessità logica, bensì fattuale e spesso retorica con-nessione ideologica). Nello spazio che qui si delinea, si apre un’altra via, diversadal relativismo e dall’anacronismo, ed è quella che di fatto molte famiglie speri-mentano in maniera positiva anche nella società complessa che si apre al terzomillennio. Ora, se il fatto di famiglie che funzionano è innegabile almeno quantoil suo contrario patologico, non è il mero dato sociologico che qui è risolutivo: lafamiglia infatti non è soltanto un mero dato di fatto sociale, una volta configura-to in un modo e oggi in un altro, prima costrittiva, ora aperta e liberante nel suoarticolarsi al limite all’opposto della sua natura. Qui relativismo e anacronismo,come forme di culturalismo, si annullano a vicenda e mostrano la loro debolezzadi fondo: la tesi per cui è famiglia la costellazione di relazioni afferenti la prossi-mità affettiva, sessuale, educativa del soggetto, che di fatto c’è. E nulla più, inpositivo e in negativo.

A fronte di questa tesi, c’è una famiglia che si definisce nel suo percorso sto-rico come qualcosa che deve essere perché la persona umana viva una vita buonae aperta agli altri, in relazione ai rapporti sessuali e di carattere parentale-affilia-tivo. In questo senso, molte statistiche negative, certe volte contraddittorie, pos-sono comunque essere lette in maniera meno pessimistica, se messe a fuoco daquesto punto di vista. Certamente, si dirà, oggi è più difficile e sociologicamentemeno diffusa la capacità di instaurare legami stabili e duraturi. In negativo, per-ché probabilmente troppo pesante per il soggetto individualistico, ma forse ancheperché è latente, in positivo, la consapevolezza di una capacità di esercizio eleva-to della libertà e della responsabilità, che configura essenzialmente l’essere del-l’uomo. Questa combinazione di libertà e responsabilità, che fiorisce entro la

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Marco D’Avenia

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famiglia e si perfeziona nei corretti rapporti tra i suoi componenti e gli altri tipi disocietà (professionali, economiche, politiche, amicali, sportive, di vicinato evolontariato, di appartenenza religiosa, etc.), è indispensabile per garantire unavera autonomia (che per l’uomo è sempre anche dipendenza riconosciuta), neiconfronti di forme di sfruttamento e prevaricazione. Proprio perché la famigliafunziona, riusciamo a riconoscere e a combattere queste spinte distruttrici.

Entro questa prospettiva, le ottiche dalle quali si può guardare alla famigliasono molteplici e diverse, e vale la pena di portare alla luce in un’analisi interdi-sciplinare gli elementi di positività che spesso vengono dati per scontati o che sidimenticano nella preoccupazione di fronte a casi che, per quanto numerosi, nonrappresentano (almeno di fatto) la normalità della relazione, e ancor meno la suanormatività.

In questo piccolo quaderno monografico si tenta appunto un esperimento divisione positiva della famiglia nella società complessa. Ciò ovviamente non vuoldire che si ritenga esaurito il tema, tutt’altro: si contribuisce, però, a metterlo afuoco, sperando di ritornare sull’argomento anche in futuro con altri articoli. Si ècercato di realizzare un approccio relativamente non usuale alla realtà familiare,non necessariamente “apologetico”, bensì propositivo. La famiglia è una risorsa,ed è semplicemente infondato il pregiudizio che essa non abbia più nulla da diree da dare alle persone e alle società.

Il quaderno comprende tre interventi. Dopo una caratterizzazione filosofico-giuridica, ad opera di Jesús Ballesteros, delle realtà che oggi rivendicano il rico-noscimento di famiglia sulle ceneri presunte della famiglia tradizionale, si passaall’analisi Nancy Sherman, che suggerisce una originale interpretazione dei modiin cui le relazioni interne alla famiglia promuovono la crescita e lo sviluppo dellapersona. Il sociologo Andrea Maccarini, infine, riflette sugli elementi che pro-pongono oggi più che mai la famiglia come relazione umana significativa, indi-spensabile in certi ambiti della vita di ognuno.

Altri capitoli, altre analisi si potrebbero aggiungere e non è sicuramente com-pito di queste pagine chiudere il discorso: basta dare un’occhiata alla Bibliografiatematica di questo numero di «Acta Philosophica», curata da Gabriel Chalmeta,che è dedicata allo stesso tema del quaderno monografico: il lettore la troverà alposto consueto, come quarta sezione della rivista. Ci riproponiamo, comunque, diritornare su questo argomento con altri articoli in alcuni dei fascicoli successivi.

In conclusione, alcuni punti, a parte quelli discussi negli articoli summenzio-nati, ci sembrano di particolare importanza per una riflessione della famigliacome risorsa, perché su di essi vediamo poco a poco convergere da più parti l’at-tenzione degli studiosi: il ruolo della famiglia nella formazione adeguata e armo-nica dell’identità personale, e non soltanto nella fase iniziale della vita o nell’uni-ca direzione che va dai genitori ai figli; l’indispensabilità della famiglia fondatasulla stabilità e organicità del legame coniugale per lo sviluppo delle componen-ti affettive delle persone, nonché come fonte e preparazione per l’acquisizione dicorrette competenze relazionali e solidali, realmente significative e non mera-

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QUADERNO: FAMIGLIA E FILOSOFIA

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mente strumentali, da spendere fuori dei confini della famiglia stessa; infine, magiusto per mettere un punto finale a questa introduzione, l’importanza di definirei caratteri che costituiscono l’ambiente di riconoscimento disinteressato che defi-nisce la famiglia, e che la propone come luogo di sospensione del giudizio sullapersona, di comprensione, pacificazione e perdono, mentre al contempo la man-tiene come luogo di correzione, educazione e collaborazione intergenerazionale.Questi punti da soli ci sembrano sufficienti per riproporre il valore della famigliafondata sul legame coniugale, con la speranza che queste righe invoglino allaconcettualizzazione di modalità positive secondo le quali tale famiglia possa esse-re pensata come radice di crescita e sviluppo autentico della persona umana inquanto soggetto in relazione.

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Marco D’Avenia

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LUIS ROMERA

INTRODUZIONEALLA DOMANDA METAFISICA

Collana: Studi di filosofia - 27a cura della Facoltà di Filosofia della PontificiaUniversità della Santa Croce

Muovendo dall’esperienza dell’essere comepresupposto di ogni agire e di ogni pensareindividuale, il percorso speculativo seguitodall’autore conduce al confronto ineludibile

con la domanda radicale sull’ente, ovvero sull’ente nel suo essere, daun lato come esigenza di comprensione contenuta implicitamente neldinamismo intellettuale, e dall’altro come richiesta di un orizzonte incui integrare e articolare ermeneuticamente le intellezioni corrispon-denti ai diversi ambiti delle attività umane. La dimensione teoretica ela dimensione esistenziale si richiamano così reciprocamente e con-fluiscono nell’indagine ontologica, introducendo la ricerca nei temidella metafisica che implicano una modalità del pensiero oltre la logi-ca deduttiva e lineare, assumendo sovente una struttura circolare.

pp. 251 € 22,00

studi di filosofia

LUIS ROMERA

INTRODUZIONE ALLADOMANDA METAFISICA

ARMANDO EDITORE

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La familia en la postmodernidad

JESÚS BALLESTEROS*

Sommario: 1. Las familias en la postmodernidad decadente. 2. La familia en la postmoderni-dad resistente.

Como he indicado en otro lugar hay dos formas de entender la postmoderni-dad: la que considera acabada la época de la razón como búsqueda del sentido, yla que busca tal sentido, superando los reduccionismos modernos1. A tales formasde postmodernidad responden dos tipos de familia.

1. Las familias en la postmodernidad decadente

La postmodernidad decadente propone una equivalencia de las formas defamilia, por lo que habla en plural de “familias”. Podemos tomar como represen-tante de esta tendencia, entre otros muchos, a Anthony Giddens. El punto de par-tida lo constituye la llamada «democracia de las emociones»2, en la que desapa-rece todo vínculo entre sexualidad y reproducción (p. 70 ss.) así como la distin-ción entre hetero y homosexualidad (p. 77), razón por la que prefiere hablar depareja en vez de matrimonio (p. 72), considerando que ésta es el centro de lanueva vida familiar. De acuerdo con la radical separación entre sexualidad yreproducción, Giddens3 destaca la importancia para la intimidad, la democracia yla emancipación, de lo que él llama la “sexualidad plástica”, esto es la sexualidad

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ACTA PHILOSOPHICA, vol. 13 (2004), fasc. 1 - PAGG. 11-21

* Departamento de Filosofía del Derecho y Filosofía Política Facultad de Derecho,Universidad de Valencia, Blasco Ibáñ~ez 30, 46010 Valencia (Spagna)

1 J. BALLESTEROS, Postmodernità: decadenza o resistenza, Ares, Milano 2002.2 IDEM, Un mundo desbocado, Santillana, Madrid 2000, p. 76.3 IDEM, Transformaciones de la intimidad, sexualidad, amor, erotismo, Cátedra, Madrid 1995.

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liberada de las necesidades de la reproducción (p. 12). Tal proceso de emancipa-ción, según Giddens, permite una interpretación positiva de Sade respecto a lainocencia del sadomasoquismo consentido (p. 133). Subraya al mismo tiempo lainfluencia extraordinaria que ha tenido el movimiento gay, el cual ha venido aensanchar la democracia a las relaciones familiares, hasta el ámbito de las rela-ciones paternofiliales (pp. 165 y 173) e incluso resulta positivo para el medioambiente, perjudicado por las relaciones sexuales tradicionales (sic p. 153).

El planteamiento sexual y familiar tal como aparece en Giddens no es sino unaenésima repetición de la llamada “cultura de la separación” o cultura dualista,consecuencia de la reducción de la razón a la razón analítica, que procede sepa-rando y dividiendo la realidad, que previamente se encontraba entrelazada o unidacomo alma y cuerpo, ser humano y naturaleza, yo-otro, mujer-varón, sentimien-to-compromiso.

Esta cultura de la separación va íntimamente asociada al individualismo segúnel cual la libertad se confunde con la independencia de los otros, de Dios y de lanaturaleza. Se es más libre cuanto se es más independiente de los otros, aunque node las mercancías. Lo que a su vez enlaza con el principio supremo del orden delmercado: la búsqueda exclusiva del interés propio como origen de la felicidadcolectiva, a través del mecanismo de la mano invisible. La manifestación másexpresiva de esta cultura individualista en el ámbito de las relaciones humanas seconcreta en la total separación entre enamoramiento, como sentimiento de atrac-ción hacia otra persona, y compromiso moral y jurídico de fidelidad a esa persona.

El individualismo tiende a establecer como fundamento de las relaciones afec-tivas humanas exclusivamente el fenómeno del enamoramiento y rechaza deplano la presencia del derecho para establecer derechos y obligaciones recíprocasentre los cónyuges, y muy especialmente lo que signifique compromiso de fideli-dad para el largo plazo o para toda la vida, lo que aparece totalmente como repre-sivo. «Las uniones sexuales vitalicias serán casi con certeza cada vez menoscomunes», escribe Giddens, «el compromiso contractual con un hijo podría asísepararse del matrimonio»4. Por otro lado, si fuéramos pura biología, no tendría-mos porqué entrar dentro de nosotros mismos - ni tampoco podríamos -, sino queatenderíamos sólo a la apariencia corporal. Desde el biologismo la sexualidad esalgo que pertenece al ámbito de lo público, y no tiene porqué no ser exhibida. Esteplanteamiento individualista instanteísta impide que las relaciones puedan supe-rar el nivel narcisista del eros, en sentido platónico. Es decir, el otro es visto sólocomo algo que necesito para mi complemento, y por ello no pasa de puro medio,y no llega a ser considerado como persona, cesando mi relación con él cuandocesa la conciencia de su necesidad para vivir a gusto conmigo mismo.

Pero esta reducción del otro a simple complemento de mis necesidades decarácter puramente posesivo no excluye necesariamente la violencia, como seña-

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QUADERNO: FAMIGLIA E FILOSOFIA

4 A. GIDDENS, La tercera vía. La renovación de la socialdemocracia, Taurus, Madrid 1999, p.113, véase asimismo pp. 46-45.

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ló ya Tomás de Aquino5 al referirse cáusticamente al atractivo que siente el leónpor el ciervo. La condición de ciervo podría ser asumida libremente de acuerdocon el esquema del sadomasoquismo consentido. No resulta sorprendente enton-ces que si las relaciones sexuales se basan en el sadomasoquismo consentido enalgún momento la violencia se desencadene por parte del “compañero sentimen-tal”, que cree que lo fundamental es la propiedad de la otra, y lo accesorio su con-sentimiento.

El énfasis en el término biológico “pareja” así como en la democracia de las emo-ciones imposibilita comprender que para que la atracción por el otro se convierta enverdadero amor, hace falta la introducción de la duración, a fin de que el otro seavisto como persona, no sólo como un qué, sino como un quien. Para esta visión delotro como persona hace falta que el mantenimiento de la promesa tenga un carácterincondicional, asumiendo las dificultades cotidianas, como señala G. Marcel, en suDiario Metafísico6, analizando las relaciones entre divorcio y suicidio.

A esta fidelidad en el tiempo al otro como persona se opone frontalmente elbiologismo dominante en el ámbito cultural actual. Se trata de un biologismo enel que coinciden posiciones ideológicas opuestas. Así, la exaltación de la juven-tud en sentido biológico (la giovinezza), propia del fascismo; la asimilación de loque dura con lo duro, presente en la tentación de Mefistófeles: «Párate, instante,eres tan bello»7; la exclamación de A. Gide, al que se debe el vocablo, instanteis-mo: «Oh sensación, más bella aún que el pensamiento», y que explica su afirma-ción: «familias: os odio»8. De modo semejante el libertinismo de Fourier, Engels,Nietzsche, Reich, y de la antipsiquiatría, culmina en el odio a toda institución9.Este instanteismo reaparece en escritos recientes como el titulado significativa-mente The Temporary Society10, en el que se lee: «Debemos ayudar a nuestrosalumnos a desarrollar con rapidez intensas y profundas relaciones humanas y adesligarse de ellas con la misma rapidez».

El instanteismo que se desprende de esta visión de la familia conduce fatal-mente a la marginación de los posibles miembros más débiles de la misma, comolos niños y los ancianos. Los lazos con los niños y con otros parientes solían serigual de importantes o más en el discurrir de la vida social. Hoy la pareja, casadao no, está en el núcleo de la familia. En este contexto Giddens parece reducir elproblema de la preferencia de la familia en la que existe un padre (varón) y unamadre (mujer) a la monoparental en relación con los hijos casi exclusivamente aun problema de carácter económico, ya que las segundas suelen tener menos

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Jesús Ballesteros

5 Suma Teológica, 2, 2, q. 141.6 Guadarrama, Madrid 1963, pp. 114 ss.7 J.W. GOETHE, Fausto, Aguilar, Madrid 1976, p. 67.8 Les nourritures terrestres, Gallimard, Paris 1975.9 Todos estos autores son estudiados por Giddens en el cap. IX de su libro Transformaciones

de la intimidad, pp. 145 ss.10 DE BENNIS y SLATER, analizado críticamente por J.A. MARINA en su libro Crónicas de la

ultramodernidad, Anagrama, Barcelona 2000.

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recursos11. «Los niños eran la raison d´être del matrimonio. Las familias nume-rosas eran deseadas o aceptadas como lo normal, mientras que ahora vivimos enla era del “niño tasado”, en la que los niños no constituyen ya un beneficio eco-nómico, sino en su lugar un gran coste económico»12.

La negación de la duración, propia de la postmodernidad decadente, conducea su vez a la negación de la familia amplia, en la que se daba la equidad genera-cional, que supone la solidaridad diacrónica, de los padres hacia los hijos, y des-pués de los hijos hacia los padres13. El divorcio constituye un obstáculo extraor-dinario en la educación de los hijos, ya que la educación requiere tener confianzaen algo que dure, y si el amor de los padres no permanece, los hijos pueden creerque nada es permanente, y que todo pasa, por lo que podrían decidir “pasar detodo”. La función de la familia como factor de socialización, de transmisión decultura y de control social, que evite la desviación, difícilmente se cumple si seproduce el divorcio, ya que los niños pierden el modelo de conducta que suspadres habitualmente les proporcionan, y caen con frecuencia en la anomia eincluso en la delincuencia.

En efecto, el perjuicio que el divorcio causa no afecta sólo a los cónyuges y asus hijos sino también al conjunto de la sociedad, ya que el orden social parecebasado en la confianza en el pacta sunt servanda, fruto de la fides, de la lealtad ala palabra dada. Y si la fidelidad, el compromiso a la palabra dada no es exigibleen el ámbito de la relaciones interpersonales, menos todavía lo será en el resto derelaciones, que son humanamente de menor importancia, en cuanto afectan altener y no al ser, tienen un contenido más patrimonial que personal. Aunque esbien sabido que el economicismo, la sobrevaloración de lo económico dentro delo humano, va íntimamente asociado al individualismo.

El individualismo por su parte está produciendo una reducción de la familia ala familia nuclear o conyugal, que conduce hacia la marginación de los ancianos,lo que resulta una marginación nueva en la historia ya que los ancianos han esta-do en todas las culturas en el centro del reconocimiento social. Tal marginaciónse debe una vez más al individualismo, que confunde la libertad con la indepen-dencia provocando la indiferencia hacia los que no pueden cuidarse a sí mismos,así como al biologismo, que al negar el espíritu, exalta la juventud biológica ydesprecia a los que ya la han superado. La marginación se produce pese a losesfuerzos de atención por parte de las instituciones públicas, debido a que en ellasse corren graves riesgos de trato despersonalizado, mientras que la familia cons-tituye el ámbito más adecuado para las actividades de cuidado del que no puedecuidarse a sí mismo14.

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QUADERNO: FAMIGLIA E FILOSOFIA

11 The Third Way and its critics, Polity Press, London 1999, p. 47.12 A. GIDDENS, La tercera vía, cit., p. 110.13 Sobre ello, véase J. PEREZ ADAN, La salud social, Trotta, Madrid 1999.14 Sobre ello, J. BALLESTEROS, La marginación como desequilibrio entre lo público y lo priva-

do, en Jornadas sobre pensamiento comunitario, Venezuela, Mérida 1984, t. IV, pp. 189 ss.y Marginación carencial y marginación anómica, en Postmodernità, cit., pp. 31 ss.

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En la reducción de tamaño de la familia, hay que valorar de modo bien distin-to la desaparición de la servidumbre (los fámulos), que nos acerca al núcleo de lafamilia, formado por matrimonio e hijos, reconocido entre tantos otros científicoscontemporáneos por el estructuralista Claude Lévi-Strauss15, y la citada pérdidade la solidaridad, que conduce hacia la familia monoparental, y lo que es peorhacia la familia de un sólo miembro. Así como señala Ignacio Sotelo, el 53% delas unidades familiares en Berlín constan ya de una sola persona y el siglo XXIpresenta en Europa todos los riesgos de convertirse en el siglo de los solos. Parahacer frente a ello, con el factor de deshumanización que comporta, es necesarioque se forme en la conciencia colectiva un movimiento de opinión favorable a lapromoción de la familia como ámbito de solidaridad que tenga en cuenta ladimensión diacrónica. La solidaridad intergeneracional requiere la superación delnihilismo, según el cual el futuro no puede comenzar. La familia amplia, es elremedio contra las desigualdades y marginaciones16.

El otro aspecto deshumanizante de la familia en la postmodernidad decadenteva unido al personismo, esto es la jerarquización de los seres humanos en perso-nas o sujetos de derecho y no personas o no sujetos de derecho, en virtud de quesean en acto capaces de pensar (personismo dualista), o de sufrir/gozar (personis-mo utilitarista)17. El personismo, al atribuir la plenitud de derechos a los adultos,y considerar como realidades inferiores a los niños y a los ancianos, es la causade la aceptación incondicionada de las técnicas de reproducción asistida. En efec-to, estas técnicas parten de la existencia de un pretendido derecho a tener hijos,que legitima de un modo sutil la violencia sobre los más débiles. Es cierto queexisten modos diversos de regulación de estas técnicas, en función de los cualesse produce una defensa mayor o menor del embrión. En Europa los proyectos másrespetuosos son el alemán, el irlandés, y el italiano, a punto de aprobarse en elSenado, que prohíben la fecundación de más óvulos que los que vayan a serimplantados y desde modo prohíben la congelación de embriones. Por el contra-rio, en la legislación británica, tal práctica está autorizada, lo que implica la nega-ción del derecho mas elemental del embrión al ambiente, a ser engendrado en lastrompas de falopio18, y a alojarse en el útero materno, y a la larga generalmenteimplica también la pérdida del derecho a la vida.

El personismo conduce también a la pretendida prioridad del derecho al trans-plante del adulto sobre el derecho a la vida del embrión y por tanto el derecho ala utilización de embriones para la creación de tejidos. Desde esta perspectiva,

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Jesús Ballesteros

15 Cfr. AA. VV., La familia, Península, Barcelona 1974, p. 16.16 P.P. DONATI, La famiglia come relazione sociale, Angeli, Milano 1989.17 Sobre el personismo remito a mi artículo Dignidad humana y biojurídica, «RIFD» 2002, pp.

177-208 e Identità personale e tecniche di riproduzione assistita, en F. D´AGOSTINO (a curadi), Il corpo deformato, Giuffrè, Milano 2002, pp. 249-261.

18 N. LÓPEZ MORATALLA, FIV y deficiencias en la relación intergametos y en la relación inicialmadre-hijo, en J. BALLESTEROS (ed.), La humanidad in vitro, Comares, Granada 2002, pp.129-56.

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que jerarquiza a los seres humanos, se pasa a la aceptación de la mal llamada clo-nación terapéutica, que sería mejor designar como clonación experimental y des-tructiva atendiendo al uso, manipulación y destrucción que se pretende hacer delos embriones clonados. Culmina así la negación de los derechos del niño en unareproducción completamente asexuada, al sustituirse la unión de los gametos porla transferencia nuclear19. La posición favorable a la clonación experimental res-ponde en definitiva a la mentalidad liberal-socialista, conocida bajo el paradigmalib-lab. Tal paradigma fue derrotado por la resolución del Parlamento Europeo del5.9 del 2000, gracias a un pacto entre el PP europeo y los verdes. Esta mismaexclusión de todas las formas de clonación aplicadas a los seres humanos es loque parece prevalecer en el art. 3, apartado 2 del proyecto de la Declaración deDerechos Fundamentales de la UE. Resumiendo, la dinámica de las técnicas dereproducción asistida convierte a los padres en propietarios de sus hijos, hijos queson primero congelados y posteriormente pueden ser utilizados por la ciencia, encaso de no interesar ya su uso a los padres.

2. La familia en la postmodernidad resistente

El pensamiento humanista cree que existe un modo paradigmático de forma-ción del ser humano, que es la familia en la que existe un padre (varón) y unamadre (mujer) razón por la cual habla habitualmente de la familia en singular. Así,por ej., lo pone de relieve el Manifiesto comunitarista (A communitarian Positionpaper on the family) redactado en 1992 por las profesoras Jean B. Elsthain, MaryAnn Glendon, y los profesores Robert Bellah, Amitai Etzioni, Albert O.Hirschmann, David Riesmann, Lester O. Thurow, entre otros 50 académicos degran prestigio.

El núcleo esencial de dicho manifiesto, cuyos principales mentores fueronGlendon y Etzioni, es la exigencia de la familia en la que existe un padre (varón)y una madre (mujer) para la correcta formación de los hijos, así como la uniónentre sexualidad y reproducción. El manifiesto quiere diferenciarse de cualquierplanteamiento conservador, o tradicionalista, en la medida en que en éste subsis-te una separación radical entre familia y sociedad civil, lo que va unido a la sepa-ración de roles entre mujer y varón. La mujer tiene sólo derechos y obligacionesen relación con la familia, y el varón sólo en relación con la sociedad civil. Porello se insiste en que la “cultura del familiarismo” no pretende ningún tipo deregreso a la sociedad del pasado, sino dar primacía a la igualdad de derechos yresponsabilidades de madres y padres en relación con el bienestar y la formaciónde los hijos, que ha tendido a declinar en la sociedad contemporánea, debido al

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QUADERNO: FAMIGLIA E FILOSOFIA

19 Sobre la clonación con fines no reproductivos véase el capítulo cuarto del libro de V.BELLVER, ¿Clonar. Ética y derecho ante la clonación humana, Comares, Granada 2000, pp.123ss.

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individualismo. Ser una madre o un padre no es cuestión de opción de estilos devida, sino de vocación.

En efecto, la prioridad debe ser el cuidado de los niños. De modo tal que “lapolítica laboral se debe organizar en torno a las necesidades familiares” y las leyesdel divorcio deben tener en cuenta no sólo los derechos de los cónyuges, sino tam-bién los de los hijos y la sociedad. La cultura del divorcio aparece aquí no comoemancipación sino como cultura de la separación que impide la adecuada forma-ción de los hijos.

El humanismo postmoderno resistente enfatiza la unión entre sexualidad yreproducción destacando que el matrimonio debe contemplar como proyecto laapertura a la filiación. Así por ej. Etzioni20 ve como gravísima la caída de la nata-lidad y considera, siguiendo a A. Mazur y G.P. Smith21, que la regulación de lasdiferentes formas de matrimonio y familia debe esperar al dictamen del “tribunalde la ciencia” que opine acerca de cómo afectan a lo que debe considerarse másdecisivo, la formación de la personalidad del niño, especialmente en los primerosaños. Este tribunal estaría constituido por un panel de expertos del máximo nivel,preferentemente científicos que no hubieran tomado posición sobre los problemasque cabría examinar. No se trata necesariamente de prohibir las formas de fami-lia incompatibles con los derechos de los niños, pero sí de tener conciencia deello. Por otro lado señala la importancia de la complementariedad mujer-varón ental cuidado.

Etzioni22 constata a su vez el hecho de que, en el paso de los sesenta a losnoventa, el porcentaje de familias (parejas casadas con un hijo por lo menos) des-cendió del 42 al 26%. No obstante en la década de los 90, el 70% de los niñosvivían aun con su padre y su madre. Y destaca que el modo más adecuado de for-mar la personalidad del niño es la familia en la que tanto el padre como la madretengan los mismos derechos y las mismas responsabilidades, lo que el llama unmatrimonio de pares, de iguales. Este matrimonio de pares constituiría el modelocomunitarista de familia. Con ello se quiere superar la visión tradicional de lafamilia y el matrimonio, en la que las cargas domésticas pesaban exclusivamentesobre la mujer, mientras que el varón debía ocuparse sólo de los temas patrimo-niales.

Esta prioridad de la familia en la que existe un padre (varón) y una madre(mujer) se encuentra también en el feminismo de la complementariedad. Se tratade lograr «familias con padre al mismo tiempo que culturas con madre»23. Esteprograma responde al espíritu que representan autoras como la mencionada

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Jesús Ballesteros

20 The third way to good society , Demos, London 2000, p. 38, notas 44 y 43. 21 G.P. SMITH, Judicial decision making in the age of biotechnology, «Notre Dame Journal of

Law, Ethics, and Public Polity», 93 (1999), y A. MAZUR, The science court; reminiscenceand retrospective, «Risk», 4, 161 (1993).

22 La nueva regla de oro, Paidós, Barcelona 1999, pp. 92 ss. y pp. 214 ss.23 B. CASTILLA, La complementariedad varón-mujer, Eunsa, Pamplona 1993.

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Glendon, y Lucienne Sallé o Jo Croissant, redactoras de un Manifiesto para elnuevo feminismo 2000. Mientras que las primeras reivindicaciones feministas secentraron en la presencia de la mujer en la sociedad, en sus distintos ámbitos, polí-tica, economía, cultura, las reivindicaciones actuales se centran en crear la con-ciencia de la responsabilidad de los padres en el hogar. Esta presencia del padreen el hogar es tan decisiva para el futuro de la humanidad como la presencia de lamujer en la sociedad. Se trata de evitar la doble jornada de la mujer dentro y fueradel hogar y de incorporar al padre a las tareas educativas de los hijos.

La consideración de tal tipo de familia como la más adecuada para la educa-ción de los hijos ha sido destacada también por el Consejo Pontificio de Culturaen su documento de 4.6.del 99, en el que se afirma «que la experiencia demues-tra que el conjunto de las civilizaciones y la cohesión de los pueblos depende porencima de todo de la cualidad humana de las familias, especialmente de la pre-sencia complementaria del padre y de la madre con sus respectivos papeles en laeducación de los hijos» (punto 14).

La prioridad del niño en la familia se encuentra también en la Declaracióneuropea de los derechos del Niño de 8.7.92, cuyo artículo 8.11 establece: «todoniño tiene derecho a gozar de unos padres o en su defecto a gozar de personas oinstituciones que les sustituyan. El padre y la madre tienen una responsabilidadconjunta en cuanto a su desarrollo y educación. Corresponde a los padres dar a losniños una vida digna y los medios para satisfacer sus necesidades».

La Unión Europea ha aprobado una serie de directivas que reflejan este espí-ritu de preocupación prioritaria por el cuidado y la educación del niño (hasta los18 años) así como de responsabilidad conjunta de mujeres y varones en tales tare-as. Esta normativa parece responder a la visión humanista de matrimonio depares. En estos textos se produce una superación del individualismo, ya que losderechos del niño aparecen basados en sus necesidades, y por tanto se trata de pro-teger fundamentalmente al que no puede protegerse a sí mismo24. Se trata sinduda del aspecto quizá más positivo de la legislación comunitaria sobre la fami-lia, que contrasta con la permisividad del aborto y de las técnicas de reproducciónasistida. De hecho falta con todo una verdadera política familiar en Europa, lo queen gran medida está condicionado porque la familia implica, como decíamosantes, la duración y el largo plazo y la responsabilidad con las generaciones futu-ras, mientras que la política está determinada por el corto plazo y los niños novotan. En cualquier caso, en la legislación europea se sigue hablando de familia,así en el proyecto de Carta de derechos fundamentales en su artículo 9, y no defamilias, lo cual significa una mayor cercanía al aspecto resistente de la postmo-dernidad.

Por todo lo que venimos diciendo, la legislación debe favorecer que el hijotenga un madre (mujer) y un padre (varón). Ello es especialmente relevante en el

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QUADERNO: FAMIGLIA E FILOSOFIA

24J. BALLESTEROS, El individualismo como obstáculo a la universalidad de los derechos, enAA.VV., Homenaje al prof. Javier Hervada, Eunsa, Pamplona 1999, tomo II, pp. 15 ss.

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caso de la adopción, institución que debe ser apoyada al máximo por el derecho,tomando las medidas adecuadas para su efectividad. La exigencia de paternidad ymaternidad conjunta no puede darse lógicamente en las situaciones en las que seproduce el fallecimiento de uno de los cónyuges, o la madre es soltera. La adop-ción debe ser fomentada como derecho del niño en caso de fallecimiento o des-atención de los padres naturales, poniendo de relieve que lo esencial en el des-arrollo del niño es el ambiente familiar en el que se forma, ya que el conocimien-to actual del genoma manifiesta no sólo que no existe ninguna predeterminacióngenética del comportamiento ético, sino incluso la limitada predeterminación delcomportamiento físico. La realidad de la adopción posibilita el derecho al padrey a la madre mientras que en las técnicas de reproducción asistida de carácterheterólogo se niega tal derecho, al recurrirse a donantes anónimos de gametos.

El modo de salvar conjuntamente los derechos de las mujeres y los niños, a losque hace referencia el artículo 25/2 de la Declaración Universal de derechos de1948 («la maternidad y la infancia tienen derecho a cuidados y asistencia espe-ciales») es la toma de conciencia por parte de los varones de sus responsabilida-des en la defensa de condiciones de vida dignas para todos. Mientras que el femi-nismo liberal se caracterizó por la defensa de iguales derechos para mujeres yvarón, el feminismo de la complementariedad se caracteriza por la existencia deiguales deberes. Se trata de que los varones asumamos lo que se considerabanhasta ahora valores de mujeres, muy especialmente esta dimensión del cuidadopor la naturaleza, y por todo aquello que contribuye a humanizar las relacionessociales. Excluida la gestación y la lactancia, que son privativas de la mujer, elresto de actividades relacionados con el cuidado del niño/a pueden ser realizadasindiferentemente por la mujer o el varón25.

Esta responsabilidad del padre obliga a una rectificación de los aspectosmenos positivos del Derecho Romano, como la manus del varón sobre la mujer,que implicaba un poder del varón sobre la mujer, basado en el usus o la coemp-tio, que parece reaparecer en los casos de violencia doméstica, ya que se repite elsentido patrimonial de la relación del varón sobre la mujer, de acuerdo con la viejacopla: “la maté porque era mía”. En la relación con los hijos, hay que sustituir alius vitae necisque, que ahora parece concederse también a la mujer a través delpretendido derecho al aborto por el deber de cuidado, la pietas, que elCristianismo introdujo en el derecho Romano Justinianeo. Es lo que oportuna-mente recuerda el apartado 32 de la Plataforma de Acción de Beijing al afirmarque: «el cuidado de los hijos, los enfermos y las personas de edad son una res-ponsabilidad que recae desproporcionadamente sobre la mujer, debido a la faltade igualdad y a la distribución desequilibrada del trabajo remunerado y no remu-nerado entre la mujer y el varón».

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Jesús Ballesteros

25 Sobre ello, remito al reciente libro J. BALLESTEROS - A. APARISI (eds.), Por un feminismo dela complementariedad. Nuevas perspectivas para la familia y el trabajo, Eunsa, Pamplona2002.

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La familia es el ámbito en el que se forma la personalidad humana en el sen-tido de su autoposeerse para poder darse a los otros, pero esta dimensión de la inti-midad, que se relaciona de suyo con el pudor y el autodominio, exige superar lamentalidad dominante de carácter biologista, según la cual el ser humano se redu-ce a un animal, algo más evolucionado, aunque quizá más agresivo. La intimidadcomporta el reconocimiento del espíritu como capacidad de trascendencia: versecomo a uno mismo como persona y ver a los otros como personas, como quién,no como qué. El ser humano es biografía, alguien y no sólo biología, algo. Y esealguien se constituye gracias al pudor, que implica el rechazo a mostrar lo quedebe permanecer velado, y conduce al autodominio que hace posible la intimidad.Procede de la convicción de que somos cuerpo personal, y por tanto la entrega delcuerpo debe ir acompañada de la entrega del corazón para evitar la mentira y elfraude que cada uno diga una cosa. La intimidad es lo contrario del egoísmo y elaislamiento. Como ya vio Chesterton en su Autobiografía: «Nunca me he sentidomás sociable que estando en soledad»26.

La intimidad familiar - como se ha señalado recientemente27 - supone con-templación y la contemplación es la base de la fiesta. “Festejar” es alegrase con-templativamente de la existencia de los seres queridos. Muy filosóficamente enlengua valenciana se llama “festejar” al ser novios. Desgraciadamente, en lasociedad tecnocrática hay muchas horas de descanso y se multiplican las indus-trias de la diversión, pero ¿hay una sola fiesta verdadera? Así pues no es sólo quedeba haber fiestas familiares, sino algo más: la misma vida familiar es una fiesta,si hay una verdadera familia.

La intimidad familiar es a su vez el ámbito en el que el ser humano aprende aconfiar en los otros, en la medida en que es tratado siempre como alguien quemerece un cariño incondicionado, independientemente de cual sea su comporta-miento.

El humanismo postmoderno resistente considera que lo más alarmante de laextensión del divorcio en los últimos tiempos es que parece hacer olvidar que surealidad pertenece a la patología del matrimonio, para pasar a pertenecer a la nor-malidad del mismo. Habría, por el contrario, que distinguir, como hacen PeterStein y John Shand28, entre situaciones de armonía (fellowship), que correspon-den a la estructura ontológica de la familia y constituyen su normalidad cotidia-na, y situaciones de crisis, que corresponden a su patología y tienen carácterexcepcional. En contra de lo que ocurre en los distintos países (así, por ejemplo,en España, basta con un año de separación en el supuesto de que haya consenso,o cinco si se produce de modo unilateral), las legislaciones no deberían facilitar

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QUADERNO: FAMIGLIA E FILOSOFIA

26 G.K. CHESTERTON, Autobiografía (trad. Antonio Marichalar), en Obras Completas, tomo I,Plaza & Janés, Barcelona 1961.

27 R. ALVIRA, El lugar al que se vuelve. Reflexión sobre la familia, Eunsa, Pamplona 1998, pp.5 ss.

28 I valori giuridici della cultura occidentale, Giuffrè, Milano 1981.

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los divorcios, salvo en el supuesto de que se dieran malos tratos y violencia, encuyo caso debería procederse a la anulación del vínculo.

El pensamiento humanista de la postmodernidad resistente parece continuar lalínea de pensamiento de aquellos autores, que dentro de la Modernidad, es decircon posterioridad a la aparición de la cultura individualista de la separación, sehan pronunciado a favor del reconocimiento de la fidelidad en el matrimoniocomo única garantía para la realización del amor duradero entre los cónyuges y laformación integral de los hijos. Al hacer la relación de tales nombres puede versecomo nada tienen que ver con el conservadurismo ni con la subordinación de lamujer al varón. Se pueden citar los testimonios, entre otros muchos, de filósofostan dispares como Kant, Hegel, Kierkegaad o Lévi-Strauss29.

* * *

Abstract: The conception of the family in post-modernity varies according tothe different types of post-modernity itself. Decadent post-modernity, negatingreason and meaning, rejects the demand that fidelity, unity, and even sexual dif-ference be constitutive of the family. Resistant post-modernity, seeking the reco-very of meaning, considers the complementarity of female-male and the recogni-tion of the rights of the child, from the first cell or zygote, as essential to thefamily.

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Jesús Ballesteros

29 Sobre ello, remito al excelente libro de F. D’AGOSTINO, Una filosofia della famiglia, Giuffrè,Milano 1999.

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RODERRICK ESCLANDAFRANCESCO RUSSO(a cura di)

HOMO PATIENSProspettive sulla sofferenza umana

Collana: Studi di filosofia - 26a cura della Facoltà di Filosofia della PontificiaUniversità della Santa Croce

Il volume raccoglie i contributi di medici, fi-losofi e teologi, che nello spirito di un con-

fronto interdisciplinare danno vita ad una attenta riflessione sul doloreumano e sul mistero della sofferenza individuale. In questo percorsovengono in tal modo evidenziati temi di fondo quali l’esercizio diun’etica della compassione e della responsabilità da parte degli ope-ratori sanitari, la riflessione antropologica sulla sofferenza come rive-latrice di umanità nella singolarità della persona e nella sua unità cor-poreo-spirituale, giungendo infine alla prospettiva metafisica e teolo-gica che spinge la sua indagine sino alla radice dell’essere ed ai suoilegami con l’Assoluto.

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Empathy and the Family1

NANCY SHERMAN*

Sommario: 1. Introduction. 2. Catching another’s feelings/ Changing Places in Fancy. 3. Thecontemporary debate on mindreading: Theory-Theory vs. Simulation. 4. Early Forms ofEmpathy. 4.1. Motor Mimicry. 4.2. Mutual attunement. 4.3. Shared Attention/SocialReferencing. 5. Psychoanalysis and imagining others. 6. Conclusion: Back to family andfriendship.

1. Introduction

For many themes having to do with the companionship of friends and family,one can hardly do better than begin with Aristotle’s account of philia. Philia (orfriendship, and by that Aristotle means both chosen or natural relationships), is amutual exchange of good will and affection against a background of shared inter-ests and time spent together2. Aristotle insists that the mutuality of the relation-ship is captured not just in its reciprocal exchanges, but in the fact that the

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ACTA PHILOSOPHICA, vol. 13 (2004), fasc. 1 - PAGG. 23-44

* Georgetown University, 224 New North, Washington D.C. 20057

1 A slightly shorter version of this paper appears as «Changing Places in Fancy», L’Amitié, ed.Jean-Christophe Merle and Bernard Schumacher (forthcoming). For an ealier treatment ofsome of the themes in both papers, including a review of some of the developmental litera-ture in sec. 5, see SHERMAN (1998). I want to thank Alisa Carse and Mark Lance for discus-sion of some of the topics of this paper. Also thanks to audiences at University College,Dublin and students in my graduate seminar at Georgetown, Spring 2001.

2 Nicomachean Ethics (NE) VIII. 2. The notion of reciprocal exchange is captured in the pre-fix anti, as in antiphilesis (exchange of affection), antiprohairesis (mutual choice); see11157b30, 59a30, 64a4, EE 1236b3, 1237a32. The idea of doing things together is capturedin the prefix, sun, as in suzên (to live together), sunêmereuin (to spend one’s days together);see NE 1157b8, b15, b19-24, 58a9, a15, a23, 1166a23; Eudemian Ethics (EE) 1235a2. Formore extensive discussions of Aristotelian philia, see SHERMAN (1997) ch. 5 and (1989) ch. 4.

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exchanges are acknowledged by both parties to each other3 so that that commonknowledge can deepen the bonds of attachment and trust. Moreover, sharing inter-ests is not simply a matter of having a common love. It involves actively workingtogether, planning together, coordinating one’s actions in a way that promotes thatcommon love.

But despite these insights, what is not a point of emphasis in Aristotle’saccount is perhaps the most fundamental craving of intimacy: to be in synchronywith another4. We crave others’ company, crave the life, to use Aristotle’s ownwords, of “spending days together” because we want others to track our heartsand minds. Thus, as friends or family it is not simply that we want to do thingstogether, coordinate our wills, as it were, in pursuit of a good life. Nor is itenough, especially friendship, to be supported in our separate choices, or even tolove or be loved in return. In addition, we want to know that another can feel ourjoy or anguish, and that he or she can grasp what we are thinking. We want toknow that without too much struggle a friend can “track us, “be”on the samepage”. In short, we want to know that we are understood. The fact of real con-sensus is not so much at issue. It is empathy we are after-that a friend can see fromour point of view and feel from our point of view, even if those would not be herown responses to similar situations. In the world of empathy, sincere pretense issometimes crucial.

A full-blown conception of empathy as a primary form of social connectiondoes not really emerge philosophically until the 18th Century in the writings ofDavid Hume and Adam Smith. There the topic is taken up under the heading of“sympathy”, and often conflated with issues of what we now think of as sympa-thy proper (e.g., practical concern, compassion, and the like). The term “empathy”itself comes into modern usage only in the 19th Century as a technical coinagewithin psychological literature (Titchener 1909; Lipps 1903, 1905). Empathy(from the Greek empatheia) becomes a translation for Einfühlung - literally to feelone’s way into another.

In contemporary discussions, empathy is often picked out by one of two com-mon markers5. The first is role-taking — to feel one’s way into a situation, theother is the experience of congruent feeling or vicarious arousal. Both these phe-nomena are key, but empathy, I shall argue, is expressed in a considerably wider

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QUADERNO: FAMIGLIA E FILOSOFIA

3 mê lanthanontas -friends “do not fail to notice” the exchange of good will and good feeling.NE 1156a4.

4 A form of the term empatheia appears in the Insomnia, but with different meaning than itcomes to take on in the later literature. The Eudemian Ethics, in contrast, does briefly touchon the theme, as I explore in SHERMAN (1989) p. 135ff. There Aristotle speaks of friendshipas forging a “singleness of mind” mia psuchê 1240b2, 1240b9-10 and claims that friendsshare grief in the sense that they feel “the same pain” (ou monon sullupeisthia, alla kai tênautên lupên). Still, the idea does not take on the prominence it will come to have in the writ-ings of Hume and Smith.

5 See EISENBERG and STRAYER (1987); HOFFMAN (1982,1984).

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range of behavior. The point becomes especially evident when we turn to devel-opmental and psychoanalytic literature.

In this paper, then, I explore that broader conception of empathy. I begin withthe 18th Century views of Hume and Smith on sympathy. In significant ways,both authors set the stage for contemporary work in philosophy of mind anddevelopmental psychology on the nature of empathy. I then take up a vigorousdebate within the philosophy of mind in the past decade about how best to modelour folk psychology of “mindreading”. The debate is relevant for our inquirysince the challenger view in the debate, a simulationist heuristic, explains simu-lation via a notion of empathic identification. While the debate sharpens intu-itions about how empathy and imaginative transport may be involved in know-ing other minds, still the evidence is not compelling that the proposed simulationmodel undergirds all or most of our mindreading activities. Through a selectivereview of developmental literature, I suggest that empathetic phenomena consti-tute a heterogeneous lot, and that different forms of empathy figure in ourcapacity to share each others’ mental worlds. Overzealous attempts at stream-lined, philosophical models distort the phenomena. At the end of the paper I turnto clinical psychoanalysis where the notion of tracking another mind becomescentral. I suggest psychoanalysis offers insight into empathetic capacities nottaken up in the philosophical literature. I conclude with some thoughts about theattunements and misattunements that can arise within close relationships, such asthe family. Underlying my remarks, Adam Smith emerges as something of anunsung hero.

2. Catching another’s feelings/ Changing Places in Fancy

One way of thinking about empathy is as a kind of contagion. Sometimes wejust seem to catch another’s feelings or at least congruent feelings. The examplesare commonplace. I start off the day in a glum mood, but after being in the com-pany of my daughter who is particularly chipper and upbeat, my mood picks up,and I’m feeling bright and sunny. I “fall under the sway” of another as it were. Iget “caught up” in her cheer6. Frequently documented is the spread of depressiveaffect within a family. A young baby may be especially vulnerable to “catching”a mother’s postpartum depressed affect, just as an older child may internalize aparent’s depression. Or consider a different kind of example. Willie, a third-grad-er, may talk to a friend on the phone and betray the accent and affect of his phonepartner. His parents, listening to only his side of the conversation, immediatelyidentify who is talking to by his unconscious mimicry. What goes on in thesecases? We might explain the latter in terms of peer pressure or a desire to belong,or perhaps even a kind of emulation or idealization. But other affect transmis-

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Nancy Sherman

6 See STOCKER (1996), pp. 60-61.

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sions, like becoming upbeat in the presence of a chirpy friend, often seem nodeeper than contagion: emotions can spread the way infectious laughter does.

The notion of contagion is central to Hume’s account of sympathy. His con-ception is roughly this: We have no immediate experience of others’ feelings.Instead, we must rely on inferences we make from more direct impressions ofeffect in behavior or action to ideas of cause in emotions. Through sympathy theideas of those causes come to have such vivacity as to be converted back into theimpressions they represent7. In this way, a person comes to share anothers’ feel-ings in the sense of really experiencing the original. One catches another’s emo-tion; and the mechanism of sympathy is meant to explain the contagion. The fol-lowing passage describes the process:

«When I see the effects of passion in the voice and gesture of any person, my mindimmediately passes from these effects to their causes, and forms such a lively ideaof the passion, as is presently converted into the passion itself. In like manner,when I perceive the causes of any emotion, my mind is convey’d to the effects,and is actuated with a like emotion. Were I present at any of the more terrible oper-ations of surgery, ‘tis certain, that even before it begun, the preparation of theinstruments, the laying of the bandages in order, the heating of the irons, with allthe signs of anxiety and concern in the patients and assistants, wou’d have a greateffect upon my mind, and excite the strongest sentiments of pity and terror. Nopassion of another discovers itself immediately to the mind. We are only sensibleof its causes or effects. From these we infer the passion: And consequently thesegive rise to our sympathy»8.

The passage reveals an important ambiguity in Hume’s notion of sympathy.For while the actors in the scene (the patients and assistants) feel anxiety and con-cern, the observer resonates not with these specific emotions, but rather with pityand terror. These are, of course, the paradigmatic tragic emotions, and as Aristotlehints in the Poetics and Rhetoric, each requires a different observer stance9. Tofeel terror is as if to be there; it is to shudder and shake in empathetic identifica-tion. In Hume’s passage, we can easily think of terror as fairly congruent with thepatient’s own fear or anxiety: it demands the participant’s point of view, and amode of experiencing things as the participant would. It demands an empatheticpoint of view. To feel pity, on the other hand, is typically to take up, as we wouldnow put it, a sympathetic not empathetic standpoint. It is to retain an externalpoint of view. Humean sympathy does double duty here for both perspectives10.

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7 A Treatise on Human Nature (T.), p. 319.8 T., p. 576.9 Poetics 13; also Rhetoric II.5 and 8. In Rhetoric II.8: «The terrible (or fearful) is different

from the pitiful. For we no longer feel pity when the danger is near ourselves», 1386a24.10 See WOLLHEIM’S (1984) insightful discussion of centered and acentered imagining for a

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Moreover, Hume acknowledges that while there is “great resemblance amongall human creatures” which allows us to “enter into the sentiments of others”,even so, the Humean mechanism of sympathy works best in those cases whenthere are strong contiguity and resemblance relationships11. In such cases thereseems to be an easy kind of contagion, an easy reverberation from one heartstringto another. In other cases, when a sufferer is remote from us, in time, temperamentor country, a more robust effort of imagination is required in order to share feel-ings12. But Hume doesn’t limn in further detail what is involved in those flightsof fancy. The elaboration is left to Adam Smith. Smith suggests that even in casesof sympathizing with those near and dear, imagination will be central.

Thus, sometimes the expression of empathy seems less the result of contagionthan of an imaginative transport that involves deliberate role taking. The exam-ples populate our life. I think about how a neighbor, a private voice teacher, feelshaving lost his tenor voice due to a botched surgery on his vocal chords. I find mymind wandering into his house, into his basement studio. I hear a young studentsinging selections from musicals (is it Oklahoma or Carousel?), see my neighborseated at the piano, wondering how he will instruct the boy now that his voice iscompromised. Will he try to sing, what sounds will come out, will he rely on thepiano to replace his own vocal instrument? Is he thinking about another profes-sion, or does he think he can rely on recordindgs to teach and demonstrate? Toanswer my questions, I try to occupy his physical and mental space. I changeplaces in fancy, as Adam Smith vividly puts it.

For Smith, the starting point, again, is one of access into other minds: “Wehave no immediate experience of what other men feel”. Imagination is the modeof entry. Sympathy, «our fellow feeling with any passion whatever»13, resultsfrom acts of imagination. It is not itself the mode of access, as it is for Hume.

«Though our brother is upon the rack, as long as we ourselves are at our ease, oursenses will never inform us of what he suffers. They never did, and never can,carry us beyond our own person, and it is by the imagination only that we can formany conception of what are his sensations»14.

Smithian empathetic imagination embodies several elements. First, “to changeplaces in fancy with the sufferer” implies that we take up the role of the sufferer.We transfer or project ourselves to another’s circumstances, put ourselves inanother’s shoes. Second, Smith further suggests that role taking typically involvesanalogical reasoning: from how I would react in those circumstances, I infer how

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related distinction. For a discussion of Hume’s related notion of «comparison», see BAIER

(1994), pp. 145-50; also T. 29004, pp. 376-377, 383, 594.11 T., p. 318.12 T., pp. 371, 385-386.13 TMS, p. 5.14 TMS, p. 4.

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you would. This is the force of his repeated phrases, «bringing the case home tooneself “and” bringing back the case “to one’s own bosom»15. Bringing the casehome to oneself typically involves my associations and memories triggered by therole taking. I draw on my own psychological repertoire to understand you as Istand in your shoes. Third, those associations and memories may be experiential-ly alive. As I see my son’s face light up with surprise when he receives the award,I remember when I won the poetry award. I remember not just that it happened -that I won the prize over Bette though we all thought Bette had a lock on it, butwhat it felt like to be handed the award, what the curtains looked like that drapedthe stage, what the presenter said, how her voice sounded, who was standingwhere, what expression Bette wore on her face, how I felt when I read her face,what I thought she felt when she read mine. Past and present collapse; the past isbefore me now, as palpable as it was then. I recreate the scene, relive the momentwith all its «plenitude»16. Fourth, in changing places in fancy, I may also experi-ence some degree of vicarious arousal. Primed by my own associations and mem-ories, when I turn my focus back to the observed subject, I become more recep-tive to her experiences and empathetically alive to her feelings. We “beat time”with the emotions of another, as Smith says17. This notion of vicarious arousal isexplicit at the end of the following passage:

«By the imagination we place ourselves in his situation, we conceive ourselvesenduring all the same torments, we enter as it were into his body, and become insome measure the same person with him and thence form some ideas of his sen-sations, and even feel something which, though weaker in degree, is not altogetherunlike them. His agonies, when they are thus brought home to ourselves, when wehave thus adopted and made them our own, begin at last to affect us, and we thentremble and shudder at the thought of what he feels»18.

But the passage also suggests that changing places in fancy may go beyond amere transfer of role. As Smith says, we “become in some measure the same per-son” with another. Sometimes, we transfer and transform19. We become the otherin their shoes. Still, Smith is equivocal about this more robust form of imagina-tion. For he doesn’t want to relinquish entirely the advantage of the spectator whoretains her own psychology as she enters another’s circumstances. So he explains,in the case of empathetically understanding a wailing infant, a mother identifieswith her infant yet draws on her own beliefs and wisdom to fill out the picture ofher baby’s real suffering: “in her idea of what it suffers, she joins, to its real help-

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15 TMS, p. 141.16 WOLLHEIM’S term (1984), p. 79.17 TMS, pp. 140,146, 167.18 TMS, p. 4.19 The language is Robert Gordon’s. “Transformation” is requisite for his notion of radical sim-

ulation, as we shall see shortly.

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lessness, her own consciousness of that helplessness”. Similarly, those whoserational faculties remain reasonably intact look on at those who have sufferedsevere mental deficits and imagine their unhappiness (visualize, here, grown chil-dren caring for parents who suffer from dementia), though the sufferers them-selves are often oblivious to their own setbacks20. In stepping into others’ roleswhile holding onto our own psychological repertoires, we thus retain a standpointof judgment, whether sympathetic, antipathetic, or in some cases, simply enlight-ened. The Smithian model of empathetic imagination, thus, suggests the possibil-ity of this sort of role taking (that maintains the perspective of our own bosom) aswell as more robust transformations. In the discussion that follows, we shall seethat radical simulation exploits the notion of empathetic identification as robusttransformation.

3. The contemporary debate on mindreading: Theory-Theory vs.Simulation

In the philosophy of mind literature two rival have emerged to explain our“theory of mind” skills in understanding and predicting others’ behavior and ourown21. On the orthodox view (called the «theory-theory») our folk psychologicaltheory of mind is essentially theoretical and involves the application of informa-tion: we predict and explain others’ behavior by appeal to beliefs and desires andlaws which connect them22. According to the simulationist challenge, we don’ttheorize, implicitly or explicitly, in understanding others; rather we use ourselvesto simulate them. Simulation becomes a form of role taking and empathetic iden-tification. (On a radical simulation model, proposed by Robert Gordon, simula-tion bypasses entirely analogical inference from self and is a matter of robusttransformation23). The difference between the theory-theory and simulation viewscan be captured initially by the following simple example. Suppose I see myneighbor going out for a run in the park, and muse about what she’ll do if her jogis interrupted by a stranger who stops her for idle chit chat on the trail? It is abright, sunny spring afternoon - a glorious day to run in the park although almost

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20 TMS, pp. 7-8.21 For important anthologies that cover the debate, see CARRUTHERS and SMITH (1996), DAVIES

and STONE (1995a, 1995b).22 Some leading proponents here are Fodor, Nichols and Stich, Wellman.23 Leading proponents of the simulation model are Gordon, Goldman, and Heal. Goldman’s

simulationist view allows an introspective awareness of one’s own states and an inferencefrom self to other as a kind of argument from analogy. Gordon proposes a more radical (orpurer) simulation model which aims to eliminate introspection and analogical inference fromself. In a certain way, Goldman’s view is a hybrid between a simulation model and a theo-ry-theory view in that it involves role-taking which draws on an information base. But tosharpen the contrast between the theory-theory view and simulation, I often appeal to radi-cal simulation, despite its limitations.

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everyone running in the park these days is on alert because of a recent murder onthe trail in broad daylight.

On the theory-theory view, I draw on knowledge (implicitly or explicitly) Ihave of the kind of beliefs and desires people would typically have in those cir-cumstances, and relying on background laws that connect beliefs and desires withcertain feelings and actions move from those beliefs and desires to an inferenceabout what the person will feel or do. So, I reason that if the runner were stoppedby a seedy-looking stranger, she would believe she was in danger and desiring tosave her life, would try to flee, probably feeling extremely tense and frightenedall the while. According to this account we have an internalized belief-desire the-ory of our minds. As in the application of other theories that we use to explain theworld (e.g., a folk meteorology to predict whether it will rain tomorrow), here toowe have a body of information in a relevant domain which we can appeal to forprediction24.

On the radical simulation view, in contrast, I don’t theorize, tacitly or explic-itly or draw on information from my own case. Instead, I use my mind to under-stand other minds. I pretend to be in the situation of the woman runner with herperceptions, beliefs, and desires. As Robert Gordon puts it, I “recenter” myself onher: I transfer roles but also transform me, in the sense of holding aside the rele-vant parts of my psychological repertoire in order to take on hers. And using herbeliefs, desires, and perceptions as input, I let myself react. As it is put in some ofthe literature, the processing takes place off line: I use an existing mechanism butdetach it from its usual function and use it to support another function. So insteadof processing, as I usually do, my actual perceptions, beliefs, and desires, Iprocess pretend ones, and come to pretend intentions disconnected from my ownmotivation to act. My emotional reactions, though, may not be off line. For in theabove case I may feel a slight shudder or actual tensing in my body as I imaginethe runner fleeing past the sight of the recent murder. The emotions are actual,though the result of simulation. In actual practice we are probably hybridists —sometimes simulating, other times theorizing, though until recently, many of theproponents from the different campus have claimed priority for their views.Moreover, it is not always clear which mechanisms we are relying on, and when.

Even so, an attractive feature of the radical simulation theory is that it allowsa kind of theoretical naiveté. To understand others or predict behavior we don’tneed to have an explicit or tacit body of information that we draw on. We simplybring to bear the skills we would use if in the situation ourselves25.

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24 See NICHOLS, STICH, et al.25 HARRIS (1992) 124, quoted in NICHOLS, STICH et al. (1996), p. 43. NICHOLS, STICH, et al.

(1996), pp. 49-53. Suggest that a more telling test focuses on the way mistaken predictionsarise. They conduct such a test (regarding the phenomenon of illusion of control) and con-clude that the two ways available to simulationists to explain failures of prediction - eitherthrough the simulationists’ reasoning differing from the targets’ reasoning or from wrongpretend inputs - cannot in fact explain failure in these cases. Simulationists must go outside

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The simulation model makes a number of assumptions26. The first is that indi-viduals process information in fairly similar ways so that it makes sense for anagent to use her own mind as a kind of “analogue” device for generating infor-mation about others. Broadly speaking, there is a structural isomorphism. Second,our reasoning process in pretend mode parallels our reasoning process when theinputs, or perceptions, beliefs and desires, etc. are not feigned, but actual. Put dif-ferently, the processing is real, though off line. And thirdly, if there is a structur-al isomorphism across persons and parallel reasoning in actual and pretendmodes, then the accuracy of the simulation depends upon the accuracy of priorinformation about the target object’s condition.

The assumptions seem fairly straightforward. Our formal structures of reason-ing and motivation do seem similar enough to be able to use ourselves as struc-tural models for others. Second, we regularly engage in conditional planningabout our own lives in a way that parallels what the simulationist envisions we dowith others27. Suppose I haven’t yet been asked to take on a university committeeassignment, but my sources say it is likely to come. I think about how I am like-ly to respond were I asked by pretending that I have been asked. From there, Ibegin to imagine the implications of taking on one more assignment. I plot outjust what commitments I have on my plate at the moment, and whether I haveroom or appetite for one more. It seems safe to say that though the invitation isfeigned, I reason and perhaps also emotionally respond much as I would if theinvitation had been actual. True, sometimes we surprise ourselves by coming upwith different choices in actual reasoning than we would have expected given ourhypothetical experiments. We might explain this by noting that when scenariosare real, constraints and pressures kick in that aren’t fully appreciated by imagi-nation. But this may be more the result of differences in input than differences inthe structure of reasoning.

This brings us to the third assumption. Sometimes it is no trivial mater to getthe inputs right, even in the case of our own future selves. And certainly it seemssafe to say, with Hume, that our skill rapidly degenerates the more alien the cul-ture and foreign the beliefs and experiences of those we aim to understand. Insuch cases it becomes non-trivial to feign accurately the inputs. How do I knowwhat another sees, feels, hears without adjustment of my own psychology as wellas a fair bit of information gathering and research? A therapist comes to suchinformation slowly over time, as the narrative of a patient’s life unfolds in anongoing series of clinical hours. And he is constantly on the alert to his own con-taminating projections, thoughts, and associations. A method actor does his home-

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their model and explain the failures in terms of the simulators lacking information relevantto the tacit theory the targets are using. Theory-theorists, but not simulationists, can legiti-mately help themselves to such an explanation.

26 For this, see GOLDMAN (1993), p. 89; PERNER (1996), p. 91.27 See GOLDMAN (1993).

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work before stepping into role. Some, famously, Dustin Hoffman, do moreresearch than others. But how do we simulate others effectively without that sortof investment?

Regrettably, not all persons we want to understand are at the other side of someresearcher or storyteller’s lens. The more basic point is that when we most needan act of imagination, our imagination often shows its limits. Simulation is onlyas good as the inputs. Processing the content is the trivial part. Feeding in the rightcontent is the challenge.

But if stretching our imagination is the problem for some cases of mindread-ing, in other cases, we hardly need to turn to our imaginations. Indeed, in caseswhere we need little input switch from our own, we may even question whetherradically simulating another is the most plausible way to explain what we gothrough in understanding others’ thoughts and motives. So in the jogging exam-ple I gave earlier, if I am a woman jogger familiar in a first hand way with thehazards of running in the park, and know my neighbor is fairly similar to me whenit comes to taking precautions about bodily safety, then I may simply predict whatshe’ll do by analogy from my own case. I simply introspect, by retrieving mem-ories of similar reactions and thoughts in those sorts of circumstances in the past,and then attribute them to her. In cases where I cannot retrieve memories of exact-ly the same kinds of circumstances, associations from similar cases may get meto another’s responses. So if Megan learns that her friend Amy’s child has justbeen diagnosed with leukemia, Megan may imagine how Amy feels by remem-bering her own feelings when her father was diagnosed with a terminal illnessseveral years earlier28. More generally, at moments when we find ourselves slip-ping into apathy, we may deliberately move back to our own bosoms, as Smithwould say, and look inward for something that helps us resonate with others.These sorts of examples suggest that even if radical simulation is an importantheuristic for understanding others’ minds, it is not the only one we use. In somecases of tracking other minds, we draw on our own knowledge and experiences inorder to be “in synch” with others. Smith’s acceptance of a variety of ways wechange places in fancy is instructive here.

4. Early Forms of Empathy

The literature on early development within the family equally suggests thatprimitive forms of empathy take a variety of shapes, and that these mediate ourcapacity for shared worlds in distinct sorts of ways. Below I briefly review someof the findings to make vivid how pervasive, diverse, and basic empathetic phe-neomena are. If we think about creating a shared world through family or friend-

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28 NICHOLS, STICH, et al. (1996) classify this as an “information-based” account of role takingthat differs from simulation in that the inputs come from the subject’s own knowledge base.

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ship, or even through the mindreading models considered above, we begin, froma developmental perspective, at least, far too late. Mechanisms for creating ashared world manifest themselves far earlier, and ubiquitously.

4.1. Motor Mimicry

As we have seen, Hume capitalizes on the idea that empathetic phenomena aresometimes a matter of catching others’ feelings. Related to this kind of contagionare various examples of motor mimicries. Classic motor mimicries in adults areleaning and body sway. Smith was an early observer of the phenomenon: «Themob, when they are gazing at a dancer on the slack rope, naturally writhe andtwist and balance their own bodies as they see him do»29. The adult phenomenonhas been observed repeatedly in the lab30, but more significant, are recent studieswith neonates. Researchers (Melzoff and Moore, 1983) have shown that three-dayold neonates can mimic mouth opening and tongue extension, and that the sameaged neonates tend to mimic, with their own strong and hearty cry, the crying ofsimilar aged neonates (Sagi and Hoffman 1976, reported in Hoffman, 1982). Theyseem to respond to a cue of distress by experiencing the distress themselves.Similarly, the contagious properties of smiling have been well documented ininfancy, beginning with the pioneering work of René Spitz. Other forms of audi-tory mimicry have been observed in neonates: Rosenthal (1982, discussed inBavelas et al., 1987) showed that mothers and their three-day old infants co-vocalized significantly above chance. In other words, there was prosodic mirror-ing: when one vocalized, the other chimed in31. Further studies show infant’smimetic changes in intonation track adult frequencies32. The strong implication ofthese studies, and others whose results are consistent with these, is that we arepre-wired to mimic in kinaesthetically homologous ways. Certain mimicriesoccur only days after birth, suggesting that the behavior is not learned but that ashumans we have inbuilt mechanisms for primitive forms of empathy.

The mimetic synchrony studies, such as the covocalization one above, suggestfurther interactional capacities beyond those of motor mimicry. Motor mimicriesare typically one directional. Mimetic synchronies, in contrast, are reciprocalactions initiated by either person and that may be shared (Bavelas et al., 1987).They set up patterns that may last for a while, and that consequently help to solid-ify the rhythm of a relationship.

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29 TMS, p. 48.30 For a good review of the literature, see BAVELAS, et al. (1987).31 For a brief review of prosodic mirroring, see OMDAHL’S (1995).32 In this paragraph, I draw heavily on BAVELAS’S discussion (1987) of early motor mimicries.

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4.2. Mutual attunement

The developmentalist, Daniel Stern, has suggested a related phenomenon ofmutual affect attunement that characterizes early attachment relations of infant toparent or caregiver. While his focus is less on the mimicry of behavior than onsharing of congruent affects, the indicators of affect attunement are externaldimensions of behavior that can be matched without being imitated, like for like.Even so, the outer dimensions of these attunements are deeply embedded in com-mon interactions, many cross-modal that often go unnoticed. Still, the followingare relatively unencumbered examples of the phenomenon: A nine-month-old boyis sitting facing his mother. He has a rattle in his hand and is shaking it up anddown with a display of interest and mild amusement. As mother watches, shebegins to nod her head up and down, keeping a tight beat with her son’s armmotions.

A nine-month-old boy bangs his head on a soft toy, at first in some anger butgradually with pleasure exuberance, and humor. He sets up a steady rhythm.Mother falls into his rhythm and says, “kaaaaa-bam, kaaaaa-bam,” the “bam”falling on the stroke and the “kaaaaa” riding with the prepatory upswing and thesuspenseful holding of his arm aloft before it falls33.

Stern suggests that in these examples, the dimensions of temporal beat andintensity contour can be isolated as matching criteria: In the first case a temporalbeat, or pulsation in time, is matched: the nodding of the mother’s head and theinfant’s gesture in shaking the rattle conform to the same beat. In the second case,an intensity is matched «The mother’s vocal effort and the infant’s physical effortboth showed an acceleration in intensity, followed suddenly by an even quickerintensity deceleration phase»34.

The phenomenon of attunement, though often covert within interactions, is acommon enough part of the experience of parenting. Parents routinely set up syn-chronies with their infants, reciprocal and repetitive loops which cross modalitiesbut which, as Stern suggests, match on some behavioral dimension. Once the loopis in play, the synchrony often goes on, with the child sharing in and perpetuatingthe interplay. On Stern’s view, these reciprocal attunements prepare the child forthe world of shared feelings. Infants whose efforts are not matched, whose par-ents under-shoot or over-shoot the pitch contour, rate, rhythm, and so on of abehavior, seem to notice the lack of synchrony. Thus, in trials where mothersdeliberately misjudge their babies’ level of excitement or rhythm, and jiggle backor gesture at a mismatched pace, the babies quickly stop playing and tend to lookaround somewhat quizzically and somewhat upset. The suggestion is that by threemonths of age, infants react to these dissynchronies «with social withdrawal,alternating with attempts to re-engage the impassive partner» (149). These obser-

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33 STERN (1985), pp. 140-141.34 STERN (1985), p. 146.

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vations are important for demonstrating early patterns of interaffectivity andmutuality. At a very early age, infants become partners in coordinated and recip-rocal patterns. Through the mutual attunement process, they prepare themselvesto share affects and to take up the point of view of another. They learn to set up aprocess of communication, which specific content aside, serves to establish basicforms of interaction and connection35. The fittedness of the synchrony oftenseems to matter. In some circumstances, closeness of match and interpersonalcommunion is an expectation, and infants are frustrated when it is absent. Motormimicry results suggest that there may be biological programming which predis-poses children in this direction.

4.3. Shared Attention/Social Referencing

Other studies reveal additional protoempathetic phenomena present during theend of the first year of life. To begin with, there is the widely observed phenom-enon of shared attention36. Infants toward the end of the first year look at a per-son’s eyes and then follow the gaze to its target. They reproduce an adult’s focusof attention, checking back and forth (through gaze alternation) to make sure thatthey and the other person are looking at the same thing37. This is the beginning ofsharing another’s world. As Baron - Cohen explains it, shared attention mecha-nisms function to build triadic representations among self, another and an object.Even blind children have shared attention mechanisms, mediated by modalitiesother than vision. So studies indicate that a blind child will put another’s hand onan object and even use the language of “see” and “look” to direct attention to anobject they want to share38.

A second and related phenomenon is that of social referencing, observed ininfants of the same age39. Here, children read the face of a trusted caregiver inorder to get information as to whether a novel, shared target object should be wel-comed or avoided40. Again, a triadic relation is in play, here the triangulationmoving from the child’s eyes to the target object to the caregiver’s face. Note, the

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35 See BAVELAS, BLACK, LEMERY, and MULLETT (1987) who would disagree with Stern.Synchronies on their view are not communions of internal feelings or affect, but more for-mal and neutral communication chanenls.

36 BUTTERWORTH (1991).37 See BARON - COHEN (1995), p. 48.38 See BARON - COHEN’S (1995) summary of the evidence, esp 66f.39 The phenomenon is easily observable and widely discussed. HARRIS (1989) summarizes the

research well. See also, CAMPOS and STENBERG (1981), and KLINNERT et al (1986).40 See related studies by S.I. GREENSPAN (1989) which indicate that a child comes to identify

and regulate her own affects as a result of affectively expressive responses by a parent. Thus,children of poker-faced parents, on this view, show deficits in what we might call emotion-al intelligence and emotion regulation. See IZARD (1971) and EKMAN (1972) on readingfacial expression of emotion.

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mechanism does not seem to be simply contagion. Children may catch fear fromtheir parents, but on this model, at least, they do it rather deliberately, by seekingguidance from an important and constant figure in their lives. They then reademotional expression in faces, and though in some instances, mimic the expres-sion, feeling what their own faces express may be, in fact, less a matter of “catch-ing” than the operation of an efferent feedback mechanism41.

A third phenomenon figures in this cluster of intentional stances. At the end ofthe first year and beginning of the second, the child not merely reproduces anoth-er’s attitude, but begins to act on it or influence it. That is, the child now seeks toredirect another’s attention or attitude by bringing to another an object of inter-est. So a child I observed weekly as a part of a year long observation excitedlypointed (at 10 months) to a Halloween decoration on a door in an attempt to turnmy attention toward it. “Protodeclarative” pointing is a way of saying, “look,”“see,” “share this object with me, share my excitement”.

Significantly, children with autism seem to have impaired shared attentionmechanisms of the above sorts. They suffer from «mindblindness», as SimonBaron-Cohen dubs it. They can detect eye direction, but do not try to detect thevisual attention of others by using pointing gestures; they may bring an objectover to someone or lead someone to an object but only when they want it, not out«of a desire to share interest with another person for its own sake»42. They alsomanifest evidence of a failure to establish joint auditory attention43. So autisticchildren will often speak too loudly or too softly, suggesting that they are notresponsive to the need, which normal children show, of modulating voice andintonation to engage a listener. They lack fundamental mechanisms for couplingwith others and creating a world of shared interests. Autistic children also dopoorly in attributing to others beliefs different from their own44. In an experimentinvolving Sally and a marble that was hidden in her absence, most of the autisticchildren tested believed that Sally would look for the marble where they them-selves (who have seen it being hidden) will look for it45. Thus, in addition to hav-ing difficulty sharing others’ perceptions, autistic children have difficulty sharingother people’s different beliefs. They tend also to show deficits in pretend play46.a fact simulationists appeal to in support of their view that mindreading is medi-ated by imaginative ability. Though the evidence here seems too slim for that con-clusion, studies of autism, in general, shed significant light on the normal psy-chological mechanisms required for establishing shared worlds.

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41 STRACK, et al. (1988).42 BARON - COHEN (1995), p. 69.43 BARON - COHEN (1995), p. 69.44 For the original «Maxi» experiments on this theme, see WIMMER and PERNER (1983). Also

see Gopnik and Wellman’s discussion in DAVIES and STONE (1992/1995a, p. 238).45 BARON - COHEN, p. 71.46 BARON - COHEN, p. 77. For a discussion of the normal development of imagination and pre-

tend play in children, see MAYES and COHEN (1992), (1996).

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The data summarized above thus suggest that motor mimicry, shared attentionmechanisms, and cross-modality attunements are protoempathetic mechanismscrucial for establishing synchronies and shared common objects. They are the firststeps in taking shared voyages. But they are steps we continue to retake as weexercise our capacities to track others and enter their worlds. Moreover, we missthe variety of these early competencies if we read them too linearly as direct pro-genitors of one mindreading model or another. Simulationists, in particular, havetended to turn to this literature as evidence for their own theory47. Yet motor andvocal mimicries seem more a kind of imitation or contagion than a simulation onthe cognitive science model. Shared attentional mechanisms might seem toinvolve a minimal kind of role-taking, in the sense of taking up another’s gaze.But on closer inspection, what is involved is more gaze tracking, than simulationor imaginative transport. Finally mutual attunement may be mediated by simula-tion and imitation, but the point of establishing those patterns is to cement pat-terns of attachment and interaction.

5. Psychoanalysis and imagining others

The early developmental context within the family, thus, extends our under-standing of how we begin to enter others’ mental worlds. But not surprisingly, theclinical context of psychoanalysis also extends our understanding of empathy. Forthe analyst’s task is to track the way a mind moves, to be in attunement or syn-chrony, to have a heightened sensitivity to another’s affect and mood, thoughtsand musings. In a certain sense, the clinical hour is an hour for the most radicalsort of empathetic identification.

And yet on the orthodox view of psychoanalysis, empathy, at least when itincludes explicit signs of vicarious arousal or sympathetic support, is viewed asmisplaced48. It is a distraction to patient and an indulgence on the part of the ana-lyst of a vulnerability that ought to be controlled. The view is captured in Freud’sfamous remarks to practitioners:

«I cannot advise my colleagues too urgently to model themselves during psycho-analytic treatment on the surgeon, who puts aside all his feelings, even his humansympathy, and concentrates his mental forces on the single aim of performing theoperation as skillfully as possible... The justification for requiring this emotionalcoldness in the analyst is that it creates the most advantageous conditions for bothparties: for the doctor a desirable protection for his own emotional life and for thepatient the largest amount of help that he can give him to-day»49.

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Nancy Sherman

47 See NICHOLS and STICH, et al. (1996).48 The idea is roundly rejected by Heinz Kohut. For important discussions of empathy, see

(1959), (1971), (1984).49 FREUD (1912), p. 115.

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The passage conjures up the image of the psychoanalyst as stoic sage-detached, dispassionate, not showing feeling. Perhaps some inevitable twinges offeeling, like the “preludes to feelings” (propatheiai) Seneca talks of -essentially,autonomic nervous system reactions, will leak through50. But the overriding pos-ture the psychoanalyst aims for is emotional control. As Freud puts it, the psy-choanalyst assumes a stance of neutrality and abstinence. He controls againstempathetic arousals that might lead to overidentification with a patient and possi-ble boundary violations: (hence the notion of abstinence as resisting sexual temp-tation). And he controls against satisfying the patient’s wish for sympathetic sup-port, in so far as gratification might undercut the pain of psychic conflict neces-sary to motivate hard analytic work.

These ideas about neutrality have been significantly revised in contemporaryanalytic practice, as we shall see momentarily. But in an interesting way, Freud’snotion of neutrality, and the metaphor often used to capture it- of the psychoana-lyst as blank screen, can be seen as aiming for the kind of non-contaminatedempathetic identification that the radical simulation heuristic models. Freud’s ideais this. The psychoanalyst tries to understand a patient’s wishes, fears, and defens-es without imposition of his own reactions, projections, judgments, and defenses.He tries to “hover evenly” over the various departments of the psyche (superego,ego, and id) and their contributory roles in a conflict, without overidentifying,through his own psychic habits, with any one. Thus, he tries to live out the life ofthe narratives being told and untold hour after hour, in a transformative, not mere-ly projective sense. To follow the radical simulation model, we might say he goesoff line, using his imagination to become another, with the caveat that imagina-tion is decoupled in this case both from actual urges to act and expressed empa-thetic feelings. Thus, the blank screen exploits, in a curious way, the radical sim-ulationist idea that one is not to import into the imaginative project one’s own psy-chological repertoire It is only the patient’s inputs that get processed.

This may capture the hope and spirit of early psychoanalysis. And too manymoments of psychoanalysis as it is actually practiced today. But contemporary psy-choanalysts increasingly acknowledge a more Smithian view - that we often bringthe case back to our own bosom. That is, despite the most trained clinical control,psychoanalysts, to some degree or other, inevitably draw on their own associationsand reactions (generally speaking, countertransferences and enactments) to under-stand a patient51. Practically speaking, radical simulation is simply not fully achiev-able, nor normatively optimal. Moreover, to react to a patient, i.e., to engage incountertransference, is not necessarily, as Freud once thought, a contamination ofthe therapeutic process52. A psychoanalyst’s own carefully monitored responses toa patient can provide crucial insight into a patient’s psychological life. Here, it is not

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50 SENECA, On Anger (1995), pp. 42-45.51 On these pheneomena, see SANDLER (1976), JACOBS (1986), RENIK (1995), CHUSED (1991).52 See FREUD (1915 [1914]), p. 164.

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so much that the clinician deliberately brings the case home to oneself, á la Smith.Rather, “home” is simply, at times, where the listener’s reverie goes53. The thera-peutic trick is to know when that wandering might be relevant for the analysis.Consider a vignette from the psychoanalyst James McLaughlin54: He notices in onesession with Mrs. P that he is playing with his bifocals. This adventitious piece ofbehavior leads him to make an association that matches what the patient is current-ly feeling: Mrs. P is a rambler, who often feels bumbling and adrift. Fidgeting withhis bifocals becomes a Proustian madelaine. It reminds the psychoanalyst of howbumbling and adrift he used to feel as a myopic youngster before getting his firstpair of glasses. The reexperience of “the old pain of groping and failing” helps himto identify with his patient and break the stalemate in the treatment. The overtnessof playing with his glasses tips him off to those congruent feelings. The introspec-tive retreat is productive rather than distorting. A more readical simulation, withoutretreat to the home base, may not have moved the analysis along.

The analyst can use herself as an instrument for understanding the patient inyet other ways. In the presence of a particular patient an analyst may feel seduced,embarrassed, angry, threatened, excited, bored and so on. Through careful self-vigilance, the analyst may come to believe that these feelings have less to do withresidue from her own internal conflicts or past history than with current manipu-lations on the part of the patient55. Still, like associations from one’s own past,these arousals and reactions can serve as important ways of understanding thepatient. By recording actual reactions, a psychoanalyst can come to experiencefirst hand what it is like to be on the receiving end of this patient’s emotional atti-tudes and actions, what it is like to be the others in his world, feeling his effect.Granted, all this might take place in an attempt at a purer simulationist styleempathetic identification, where the goal is to be recentered on the patient aspatient, without interference (or information) from one’s own reactions-either pastor current. But the point is, to some degree or other, however controlled an ana-lyst may be, some of her own reactions inevitably surface and serve to reveal theother in a way that a purer empathetic identification, even if successful, cannotcapture. Radical simulation of others, attractive as it is in the abstract, may not bethe way the most concerned listerner understands another.

6. Conclusion: Back to family and friendship

It is time to tie up loose ends. What do the various forms of empathy and imag-inative transport we have considered have to do with intimate relationshis within

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53 For an interesting discussion of reverie in this context, see OGDEN (1997).54 MCLAUGHLIN (1991).55 At work here is the notion of projective identification; see OGDEN (1979) and SANDLER

(1993).

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friendship and family? In a sense, the connections are all too obvious. Like youngchildren, we crave finely attuned relations with others. We notice exactly whenconversations miss, when a voice goes flat, when our eyes catch another’s avert-ed eyes, when others fail to match our zest, enthusiasm, rhythm and tempo. Weknow when others aren’t tracking us, when we are misunderstood, when we arein conversation, yet talking to ourselves. And these misattunements hurt us themost within intimate relationships. For it is there that we most crave and expectsynchrony.

Still, the expectation for synchrony can often lead us astray. As parents we canoveridentify with our children’s emotional peaks and troughs and serve them illby mirroring back just what they give out. And the same holds true in adult rela-tionships. Attunement needs to be finessed with modeling and wisdom, directionand guidance in a way that takes seriously empathetic identification but alsoleaves room for growth, whether we are children or adults. Equally misattune-ments can be misread as deliberate snubs rather than as style or temperamentaldifferences not consciously meant to indicate distance or displeasure56. In theworld of psychoanalysis, where attunement and timing of interventions are theproducts of a well-honed art, many misattunements will be avoided. But not all,and those that aren’t become grist for the psychoanalytic mill-indeed in someschools of psychoanalysis, (such as Kohutian self-psychology), a primary focus57.According to Kohutian theory, newly sustained narcissistic injuries caused by ananalyst’s parental-like failures of attunement within the clinical hour become animportant medium of the analysis.

But casting misattunements as narcissistic injuries raises the important ques-tion of how much we ought to indulge our cravings for synchrony. Surely somedemands for attunement are overly needy, too hungry for support and solidarity,too sensitive to another’s responsiveness or lack of it. Even the most intimate soulmate can’t be expected to track us on every twist and turn of our journey. Somebits we must go alone, however much we might like company. That is, after all,what it is to separate and hatch as a separate self. Yet misattunements typicallyarise not when we have decided to go our own way, but when we think we aregoing together, and yet are not. It is a failure in acknowledging common ground,as Aristotle might put it. And yet true “friends do not fail to notice”. Moreover,the failure is often conveyed at the level of subtle protoempathetic responses-afailure to meet another’s eye gaze or follow its object, a failure to match anoth-er’s excitement through vocal inflection or shared tempo of activity, a failure tosmile at one’s smile. It is not just that Heloise might not follow the point ofAbelard’s story or fail to see the ending funny. It is that Heloise, on occasion, isnot with Abelard in a more basic way.

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56 Here Deborah TANNEN’S work (1990) on gender differences in conversational style comes tomind.

57 See KOHUT (1977) on narcissistic injuries and empathetic breaks, e.g., pp. 116, 118.

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This doesn’t answer the question of when the demands for synchrony arereasonable and when not. Presumably there is little one can say outside immer-sion in the particulars of a case. But that intimates demand some kind of syn-chrony and notice its absence seems to be commonplace. Moreover, my pointthroughout has been that mechanisms for synchrony are varied and not ade-quately modeled by overly streamlined, theoretical models. They may involvecontagion, theorizing, imagining that looks into a soul and its motives as wellas imagining that looks outward at behavior and action. They may involvetracking eyes, mimicking sounds and voices and body movements, attuningsubtly to the rhythm of another’s voice through the kick of a leg or the tappingof hand. All are ways we build a shared world. All are ways we come to be insynch with others.

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* * *

Abstract: In this paper I explore the conception of empathy and its implicationsfor the family. I begin with the 18th Century views of Hume and Smith on sympa-thy, which I argue have influenced contemporary debate on empathy in the phi-losophy of mind. However, through a selective review of developmental literature,I suggest that empathetic phenomena constitute a more heterogeneous lot than thecontemporary debate within philosophy tends to suggest. Overzealous attempts atstreamlined, philosophical models distort the phenomena. At the end of the paperI turn to clinical psychoanalysis where the notion of tracking another mindbecomes central. I suggest psychoanalysis offers further insight into empatheticcapacities not taken up in the philosophical literature. I conclude with somethoughts about the attunements and misattunements that can arise within closerelationships, such as the family. Underlying my remarks, Adam Smith emerges assomething of an unsung hero.

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Unità e multiformità della famiglia in Occidente: sensi epercorsi dopo la modernità

ANDREA M. MACCARINI*

Sommario: 1. Il problema: pluralizzazione della famiglia e processo di civilizzazione. 2. I con-dizionamenti strutturali. 3. Dove e come si pluralizza la famiglia. 4. L’umano e il familiaredopo la modernità. De-simbolizzazioni e ri-simbolizzazioni.

1. Il problema: pluralizzazione della famiglia e processo di civilizzazione

Il problema del “pluralizzarsi” delle forme di famiglia nelle società occidenta-li contemporanee ha acquisito, negli ultimi anni, una tale prepotenza simbolica daimporsi all’attenzione degli studiosi e dell’opinione pubblica come “il” problemaper eccellenza. Quando si parla di famiglia, in tutti i campi delle scienze socialied umane, la forza pervasiva del tema “pluralizzazione” emerge inevitabilmente,finendo col monopolizzarne la Problemstellung – quale che sia l’originario puntodi partenza del discorso – e col mettere in ombra anche problemi di proporzioniestremamente rilevanti: le trasformazioni interne del nesso intergenerazionale edella relazione/differenza tra i gender, l’equità tra le generazioni, il benesserefamiliare, la povertà familiare, e altri ancora.

Non è che di tutti questi altri problemi non si parli affatto, ma di solito da cia-scuno di essi il discorso slitta, quasi inevitabilmente, sulla questione della plura-lità delle forme di vita familiare. Ci si sente comunque “costretti” ad affrontarla,onde non trasmettere (e non provare) la sensazione di “non essere andati sino infondo” nell’analisi del problema o di averne evitato il nodo più centrale e imba-razzante. Per esempio: se si parla di famiglia e benessere, viene in conto il fatto

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ACTA PHILOSOPHICA, vol. 13 (2004), fasc. 1 - PAGG. 45-72

* Professore associato di Sociologia nell’Università di Padova e collaboratore del Ceposs(Centro studi sulle politiche sociali e sanitarie) dell’Università di Bologna, e-mail:[email protected]

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che le agenzie che producono e distribuiscono benessere sociale sono costrette –nonostante ogni ostinata dichiarazione contraria – a dare una propria definizionedi famiglia, per i propri obiettivi operativi. E che da questa definizione derivanopoi conseguenze forti sul piano dell’equità sociale e della modalità stessa in cuiviene inteso e praticato il cosiddetto “benessere familiare”. Se si parla di trasfor-mazioni interne della famiglia, ciò che viene sempre sottolineato è il “declino”della “famiglia tradizionale” – così si dice – e l’incremento di separazioni e divor-zi, o di coppie “di fatto” nel senso di coppie che praticano una forma di vita ana-loga a quella familiare, senza però acquisire (per propria scelta) una formalizza-zione giuridica1. E così via.

Allo stesso modo, gli studiosi vengono osservati dai media, dalle istituzionipolitiche e dal vasto pubblico (e, last but not least, si osservano tra loro) più perlo schieramento in cui militano in questo dibattito che per altri tratti, più cogniti-vi e scientifici, della loro professionalità. Per dirla semplicemente: si può apprez-zare un sociologo della famiglia per molte ragioni, ma al dunque ci si domanda seè “favorevole” – qualunque cosa ciò significhi – alle “coppie di fatto” oppure al“matrimonio omosessuale”, e non (o solo in seconda battuta) se è un esperto dellacoppia piuttosto che delle relazioni tra generazioni o del benessere familiare, oaltro. E ciò non soltanto in contesti mediatici o politici, ma anche e sempre piùdentro lo stesso sistema sociale della scienza. Stiamo parlando, insomma, di unospartiacque evidentemente fondamentale, che travolge altri discorsi, fratture edistinzioni.

Perché dunque la questione è così centrale? Si potrebbe rispondere semplice-mente che la famiglia è un’istituzione sociale e un simbolo culturale d’importanzacruciale e che quindi la sua trasformazione strutturale è ovviamente un fatto cheoscura ogni altro problema al riguardo. Questo è naturalmente vero, ma il punto è:perché la questione è così centrale oggi? E che cosa sta succedendo davvero?

Secondo alcuni, ciò rispecchia semplicemente la realtà: il nocciolo del cam-biamento della famiglia come gruppo e istituzione sociale e come simbolo cultu-rale andrebbe precisamente in questa direzione, quella cioè d’indebolire progres-sivamente la famiglia “tradizionale” dando luogo a una molteplicità irriducibile diassetti e di forme di vita che prendono il posto della precedente “unicità” e conciò rendono la “famiglia” stessa un concetto (e una pratica) declinabile soltanto alplurale.

Secondo altri, questo fenomeno è invece sostanzialmente un prodotto del siste-ma dei media e degli stili di vita di élites numericamente ridotte, che si arroganoil diritto di “rappresentare” l’avanguardia della storia e della società. La diffusio-ne di questi stili di vita, ostili al matrimonio e alla famiglia “tradizionale”, sareb-

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QUADERNO: FAMIGLIA E FILOSOFIA

1 Per quanto riguarda la società (e la sociologia) italiana, questi temi sono stati svolti analiti-camente e con dovizia di riferimenti empirici nei vari Rapporti Cisf sulla famiglia in Italiache da anni esaminano aspetti centrali delle problematiche familiari nel nostro Paese. A essirimando anche per trattazioni analitiche di alcune delle varie questioni che ho qui elencato.

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be sostanzialmente un progetto politico-culturale piuttosto che una realtà struttu-rale: anche se finisce poi per diventarla, nella misura in cui il “progetto” sia coro-nato da successo. Si tratterebbe insomma di un esempio della classica “profeziaautoavverantesi”.

Questa premessa delinea la temperie culturale e al tempo stesso i confini e lepolarità simboliche entro cui si muove il presente contributo, come del resto qual-siasi riflessione contemporanea sulla famiglia. Rispetto a questa situazione devoanzitutto precisare quale sia il mio obiettivo e quali le mie presupposizioni.

Anzitutto, ritengo che entrambe le visioni che ho rapidamente tratteggiatosiano scorrette, o almeno largamente insufficienti. È chiaro che la trasformazionedella famiglia nel senso della sua transizione da un modello unico a una pluralitàirriducibile è una tendenza effettivamente forte in buona parte dell’Occidente;come è anche chiaro che vi sono attori collettivi, dotati di specifici interessi eidentità, che vedono in tale transizione un esito da perseguire o viceversa da evi-tare. Ma ciò può essere detto di ogni grande fenomeno sociale. Le visioni sopradescritte dicono qualcosa di più preciso e di più unilaterale.

Chi pensa la famiglia nel primo modo assume un approccio evoluzionistico,che si basa sulla distinzione tradizione/modernità. Da questo punto di vista, ciòche si vede è il frammentarsi della famiglia “tradizionale”, intesa come “model-lo” unitario, in una molteplicità di assetti determinati dalla libera progettualitàindividuale. “Modernizzare” la famiglia vuol dire, quindi, dissolvere evoluzioni-sticamente le sue componenti vincolanti e “liberare” (emancipare) gli individui ela loro volontà di costruire relazioni più adeguate a esprimere l’autenticità umanasoggettiva. Il che implica poi che le relazioni familiari vengono a reggersi (finchéfunziona) sulla pura espressività e che possono essere costruite, de-costruite e ri-costruite (o se si preferisce, che in esse si può entrare e uscire, che se ne possonoattraversare i confini) con un elevato grado di contingenza2. Ora, la potenza sin-tetica delle visioni evoluzionistiche non va trascurata. Nessuno negherebbe oggiche il grado di contingenza delle e nelle relazioni familiari è enormemente aumen-tato. Ma una prospettiva del genere serve a vedere solo un lato del complesso cri-stallo della morfogenesi familiare. Per esempio, non consente osservazioni chia-re su come si ridefiniscono i confini del familiare (rispetto a ciò che familiare nonè), su quali sono i percorsi evolutivi delle forme di vita familiare – che non sem-pre e nemmeno nella maggior parte dei casi portano alla frammentazione e dis-gregazione di cui si diceva – e su come la complessa trama delle lealtà invisibiliproprie della sfera familiare si trasformino e creino intrecci sempre nuovi, mante-nendosi però capaci di stabilità. In altri termini: la morfogenesi della famiglia èmolto più complessa e una visione evoluzionistico-lineare si rivela, qui come inaltri campi3, troppo deterministica e largamente insufficiente; è inoltre orientata

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2 Su questo aspetto il riferimento va all’illuminante sistematizzazione sintetica di P. DONATI,2001, soprattutto pp. 74-76.

3 Paradigmatico è il caso della religione e della relativa teoria della “secolarizzazione”.

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esclusivamente a “tipologie” formali e non al lento evolversi del “tessuto” di leal-tà, legami e riferimenti simbolici in cui la famiglia consiste.

A sua volta, chi pensa che la pluralizzazione della famiglia sia “soltanto” un’il-lusione, una pratica sociale limitata a élites decadenti o un progetto politico-cultu-rale più o meno esecrabile, dimentica che le trasformazioni che tale cultura “plu-ralistica” esprime e l’orizzonte simbolico a cui allude sono elementi ormai fattipropri da buona parte delle popolazioni occidentali, dal punto di vista della legitti-mazione anche se non della pratica personale. E che appare invece sempre più dif-ficile “fondare” e legittimare socialmente la posizione opposta. Ciò non è soltantoil risultato di un “complotto”4, ma di spinte strutturali e culturali profonde.

Il mio discorso tenterà di evitare questa polarizzazione ideologica, per svol-gersi nell’ambito, con il linguaggio e i concetti propri dell’analisi sociologica. Ilmio punto di partenza prescinde dunque, per esempio, da ciò che si può dire dellafamiglia sul piano metafisico, o da “come” la famiglia dovrebbe essere secondouna qualche prospettiva etica. Ciò ha almeno due implicazioni:

(i) Le mie argomentazioni non mirano a individuare una famiglia “secondo l’e-tica” in modo adeguato ai tempi, né a indicare la distanza che la separi da varieforme oggi assunte dalla famiglia “così com’è” nella realtà empirica, né infine acomprendere se e come sia possibile “far coincidere” l’una con l’altra. Espongoinvece un’interpretazione del fenomeno della pluralizzazione dell’essere famigliache colga i processi sociali così come si stanno realizzando e ne illumini i condi-zionamenti (par. 2) e il senso (par. 3). Con ciò non intendo spazzare via la distin-zione tra “normale” e “patologico”, bensì motivarla non rispetto a un “ideale difamiglia” assunto a priori, ma rispetto a esigenze interne, storiche e strutturalidelle stesse relazioni familiari, se si vuole che esse siano ancora capaci di deter-minate “prestazioni”5 per la società, e in specifico di umanizzazione e dunque dicivilizzazione6. Sotto questo profilo, mi prefiggo di spiegare che il modo in cui lasocietà complessa agisce, “pensa” e “definisce” la famiglia è direttamente con-nesso all’emergere di una matrice simbolica che implica una rivoluzione antro-pologica profonda, la quale tocca le radici stesse del senso che viene cultural-mente attribuito all’umano in quanto tale e alla società in quanto umana (par. 4).Il che a sua volta dipende da una morfogenesi complessa di culture, strutture egruppi sociali7. Dal punto di vista di una sociologia dei processi culturali è da unavisione di questo genere che si può far emergere un’idea fondata di quali criteri edi quali distinzioni nel sociale ancora reggano oppure no circa il profilo di ciò che

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4 E comunque ogni innovazione culturale – dal capitalismo moderno al cristianesimo – si dif-fonde e si afferma attraverso attori sociali, individuali e collettivi, che se ne fanno portatori.

5 Uso qui questo termine, precisando che non lo intendo in senso pragmatico-funzionale.Tornerò in seguito su questo punto.

6 È evidente che molto si gioca sulla semantizzazione di questi termini-concetti. Proprio que-sto sarà infatti un punto centrale del mio discorso. Cfr. parr. 1 e 4.

7 Che non potrò qui prendere in esame nemmeno sommariamente. Per il paradigma della mor-fogenesi qui evocato si veda ARCHER 1997.

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si può ragionevolmente chiamare “famiglia” o che da tale concetto si può legitti-mamente escludere8.

(ii) Come ho anticipato, le definizioni, il linguaggio, i concetti che impiegosono quelli propri della tradizione sociologica. Ciò naturalmente non è di per séuna garanzia sufficiente contro l’invasività ideologica. Spesso anche il linguaggiodegli studiosi manifesta anzi un nesso assai vincolante con il linguaggio deglischieramenti in lotta, ed entra dunque a far parte del conflitto simbolico stesso9.

Devo allora esplicitare che parto da una definizione di famiglia come relazio-ne nodale che connette in una relazione di piena reciprocità due tipi di legami:alleanza tra sessi e filiazione tra generanti e generati10. Questa definizione con-tiene un aspetto molto generale, su cui l’accordo tra studiosi è praticamente una-nime: la famiglia è il luogo della piena reciprocità tra persone che stanno tra loroin un rapporto di coppia. Laddove la piena reciprocità manca, non solo di fatto11,ma nel senso che è assente dall’orizzonte simbolico di quella relazione, si escedall’ambito del familiare per entrare in quello di altre relazioni primarie.

Essa esprime però anche una visione più specifica e dirimente. Secondo talevisione, la famiglia è il luogo in cui si articolano due differenze: quella tra i sessie quella tra le generazioni. Ed è qui che questa definizione apparentemente piut-tosto generale, pur avendo senz’altro una vasta portata sociologica e storica inquanto indica la “natura sociale” della famiglia e simultaneamente riflette il modoin cui essa è stata semantizzata da tutte le società umane conosciute, manifestauna valenza teorica anche estremamente specifica e discriminante. Anzitutto, essamantiene la differenza tra i gender, e dunque la capacità generativa (come oriz-zonte simbolico di possibilità) come elemento centrale della definizione di fami-glia. Non basta che la piena reciprocità intercorra genericamente tra “persone”,ma deve passare “tra i sessi” e “tra le generazioni”. Inoltre, la definizione di fami-

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8 Questa strategia è molto prossima a quella svolta nel saggio di Riccardo PRANDINI (2001), dicui si vedano soprattutto le pp. 444-459. Entrerò in seguito (par. 4) in un dialogo più espli-cito con tale contributo.

9 In merito mi limito a due esempi. Si pensi alla contrapposizione famiglia / famiglie, cherimanda all’idea che esista oppure no una e una sola “natura sociale” della famiglia (peresempi opposti cfr.: BARBAGLI e SARACENO 1997, ZANATTA 1997; e per converso DONATI

1998; DONATI, a cura di, 2001). Si pensi inoltre alla distinzione famiglia / genitorialità, chesottolinea rispettivamente l’unità delle relazioni coniugali con quelle di filiazione e per con-tro invece la possibilità (e auspicabilità) di trattarle in modo separato, sia sul piano politicosia su quello dell’intervento sociale. Segnalerò tali connessioni laddove necessario nel corsodella trattazione. Sulle cautele linguistiche da adottare in merito richiama l’attenzione ancheil già citato Prandini (2001, p. 407, cfr. nota 5).

10 Ricavo questa definizione da DONATI 2001. Per la spiegazione e l’esposizione sistematica deisuoi presupposti e ragioni si veda anche DONATI 1998.

11 In qualunque famiglia può capitare che il padre non si occupi dei figli o trascuri la moglie,o viceversa, o ancora che i due coniugi vivano una qualche forma di reciprocità limitata, oaltro. Questo però fa parte della sfera del fattuale e normalmente, quando accade, viene lettocome patologico o comunque problematico.

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glia che ho assunto rimanda a un approccio generale che osserva la famiglia comeuna entità relazionale di genere proprio. Nel discorso sociologico contemporaneotale approccio si contrappone a un approccio che:

(i) tende ad assumere come concetto primitivo quello di “cura” (che si dà esi riceve entro una famiglia e che la costituisce come tale), rendendo indif-ferenti le differenze sessuali tra i partner;

(ii) pensa la famiglia come intreccio contingente di traiettorie di vita indivi-duali. In quest’ultimo caso, ciò che denominiamo “famiglia” è uno “spa-zio sociale” – fatto di pratiche e sentimenti, di cura e sostegno reciproco– i cui confini sono definiti dall’incontro tra scelte individuali convergen-ti, ma che conservano una (tendenzialmente) totale reversibilità.

Nell’approccio che assumo, invece, si tratta di un’entità relazionale. Non diun’entità olistica che condiziona gli individui “dall’alto” o “dall’interno”, ma diun effetto emergente delle loro relazioni12, il quale manifesta una “vita” e unarealtà sua propria, che parte dagli individui ma supera il mero intreccio di traiet-torie e di corsi di vita individuali definiti in modo casuale.

È dunque da quest’ultima prospettiva sociologica che svolgerò le osservazio-ni seguenti. Ancora una volta, la giustificazione di questa scelta non può esserefornita a priori, ma è una selezione teorica che deve dimostrare la sua validità nel-l’ampiezza e nella profondità delle osservazioni che consente.

Naturalmente queste presupposizioni, come ogni scelta epistemologica, defi-niscono che cosa si potrà osservare, ma non costituiscono già la soluzione delproblema. Esse, con i conflitti teorici e socio-culturali che generano e implicano,rappresentano anzi lo sfondo e per così dire il palcoscenico su cui si sta svolgen-do il “dramma storico-sociale” della famiglia occidentale. La società contempo-ranea sta infatti compiendo i suoi esperimenti proprio nel senso di provare a de-costruire questa semantica. Vedremo in che senso queste operazioni si stiano svol-gendo (par. 3) e dove possano condurre (par. 4).

Il primo passo da muovere consiste nel comprendere in modo più preciso ilsenso della pluralizzazione nella società contemporanea. Bisogna capire perché sitratta di un fenomeno “nuovo” per tutti rispetto al passato.

Va rilevato anzitutto che un “modello unico” di famiglia non è mai esistito.Anche nella società che ci ostiniamo a chiamare “tradizionale” (pre-moderna)ceti, etnie, religioni diverse hanno espresso diverse culture della famiglia e diver-si stili di vita al riguardo. Al tempo stesso, l’instabilità e insicurezza delle condi-zioni di vita rendevano altresì la stabilità della famiglia assai minore di quanto sipossa immaginare oggi.

Alcune precisazioni rispetto a questa situazione permettono di chiarificare ilprofilo innovativo del fenomeno che trattiamo. Oggi la pluralità è inedita perché:

(a) le sue forme sono dinamiche e in rapido mutamento, mentre nel passato

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12 Sull’ontologia emergentista cfr. in particolare ARCHER 1997. Per l’architettura generale del-l’approccio relazionale si veda DONATI 1991.

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le culture esprimevano forme e modelli di famiglia relativamente stabilinel tempo, benché differenziati;

(b) è cruciale distinguere fatti e simboli13. L’instabilità di fatto è cosa assaidiversa dal legittimare un’idea del tutto soggettivistica e privatistica,secondo cui esistono – al limite – tanti modelli di famiglia quanti indivi-dui, in base ai loro gusti e preferenze e come espressione della loro volon-tà di pura autorealizzazione (Giddens 1995). La pluralità odierna è inedi-ta in quanto portata alla radice del simbolismo familiare, della coppia edella generatività;

(c) è diverso il nesso tra culture familiari. Un tempo diversi modelli di fami-glia (ad esempio legati, come ho detto, a ceti e religioni diverse) convive-vano in società diverse o talora anche entro la stessa società, ma in mondisub-culturali diversi, internamente integrati e stabili e però (quasi) senzainterscambi reciproci. Ciò è stato possibile finché la configurazione dellospazio-tempo sociale lo ha consentito: per dirla in breve, fino a che trasocietà e tra culture c’è stato lo spazio (in senso geografico e soprattuttosimbolico) sufficiente a mantenere la distanza tra esse14. E oggi questecondizioni vengono a mancare15, per cui gli scambi sono invece intensi econtinui;

(d) per quanto detto al punto precedente, le diverse forme di “famiglia” gesti-scono oggi la loro diversità nel senso di sviluppare ciascuna una giuridi-cità sua propria e di richiedere poi riconoscimento – costituzionalizzazio-ne – nella sfera giuridica e politica “pubblica”16. I vari modelli di famiglia

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13 Come ricorda ancora PRANDINI 2001. Si veda anche la Conclusione, firmata dal curatore, inDONATI, a cura di, 2001. Questa osservazione è, del resto, evidente a ogni studioso che nonassuma una prospettiva del tutto pragmatico-funzionalista. Tornerò sull’argomento nel par.4.

14 Qui viene in conto tra l’altro la gerarchia come modalità per generare distanza e quindi spa-zio sociale. Entro una stessa società è vero che hanno convissuto culture familiari diverse,ma difficilmente senza che la loro contrazione in spazi sociali e simbolici privi di scambireciproci fosse istituzionalizzata e rigenerata attraverso gerarchizzazioni. E si tratta di unacondizione che oggi viene decisamente a mancare.

15 Il che paradossalmente rende assai difficile prendere sul serio le differenze, nel senso di con-siderarle come costitutive e non come mera espressione superficiale di gusti e preferenze. Suquesto tema cfr. SELIGMAN 2002.

16 Secondo una dinamica – detta del “diritto policontesturale” – elucidata in vari contributi daTEUBNER (ad esempio 1999). Si vedano anche i saggi raccolti in MACCARINI, a cura di, 1999,soprattutto quello del curatore e quello firmato dallo stesso Teubner. Si veda inoltre, circa la“soggettivizzazione” del diritto, il volume a cura di MACCARINI e PRANDINI, 2001, in cuisegnalo soprattutto il contributo di N. Luhmann e quello di Bortolini e Prandini. Per unavisione del problema specificamente applicata alla famiglia si veda PRANDINI 2001; si tro-vano considerazioni interessanti anche in ALLERT (1998), che esamina come sul piano empi-rico e del vissuto esistenziale delle famiglie vengano esperite ed elaborate queste granditransizioni. Non approfondisco oltre questo tema, in quanto l’obiettivo di questo scritto nonè quello di affrontare il problema specifico della relazione tra famiglia e diritto.

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richiedono dunque inclusione e in tal modo gestiscono la loro co-esisten-za in una sfera pubblica e in un complesso della cittadinanza che vieneperciò sottoposto a tensioni senza precedenti.

Tutto questo rende il fenomeno della pluralizzazione dei modelli familiari“nuovo” ed estremamente complesso. Come tale esso va compreso. In questobreve contributo mi propongo di metterne in luce alcuni possibili effetti e proba-bili conseguenze da un punto di vista specifico: quello della capacità di umaniz-zazione della persona che una società sia in grado di esprimere, e di ciò che lafamiglia “conta” per tale capacità.

I passi successivi attraverso cui procede l’argomentazione sono i seguenti. Nelpar. 2 sottolineo alcuni dei maggiori condizionamenti a cui la dinamica della plura-lizzazione dei modelli familiari risponde. Nel par. 3 mi concentro sulla forma pecu-liare che tale dinamica sta assumendo, specialmente in Italia e in Europa, mostran-do che essa è anche il risultato di spinte e di energie socio-culturali autonome, oltreche del condizionamento strutturale proveniente da altre sfere della società.

Infine, nel par. 4 discuto brevemente la portata simbolica del mutamento inatto, tentando d’indicare perché e come sia possibile e necessario non confonde-re stili di vita e forme di relazioni primarie diverse. Questa, in ultima analisi, è ladomanda di sfondo che percorre queste pagine e che costituisce lo stimolo pecu-liare di queste riflessioni.

2. I condizionamenti strutturali

Il carattere di novità del fenomeno della “pluralizzazione” dei modelli fami-liari è in parte il risultato di spinte provenienti dall’esterno della sfera propria-mente familiare e che rimandano ad altri sottosistemi della società. Per brevità milimito a esporre alcuni tratti del sistema economico e del sistema politico-ammi-nistrativo, in quanto questo realizza e definisce giuridicamente il complesso dellacittadinanza, che contribuiscono alla morfogenesi familiare.

Nel pensiero critico come nelle teorie sociologiche sul capitalismo avanzatosta diventando di moda definire il sistema economico contemporaneo come una“macchina celibe” che si avvita su sé stessa. Questa definizione si usa di solito perriferirsi al capitalismo finanziario, cioè allo stadio di sviluppo del sottosistemaeconomico della società globalizzante che pone al centro non più la struttura pro-duttiva (e quindi la nota sequenza produzione-distribuzione-consumo), bensì ildenaro e i pagamenti, respingendo la dimensione produttiva nella periferia delsistema stesso17. Nella semantica “critica” questo stadio di sviluppo si caratteriz-za poi per essere “non produttivo” (non fecondo), ma puramente speculativo eviziosamente circolare: fare soldi con i soldi, creando bolle speculative di irreal-tà economica.

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17 Per una visione sistemica di questo tema cfr. LUHMANN 1988.

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Chi descrive il sistema economico contemporaneo in questo modo non coglie,di solito, un’altra valenza possibile della sua stessa formulazione. Il capitalismoavanzato, e soprattutto le forme di vita sociale che sembrano essergli più intrinse-che, tende a escludere la pratica e l’idea stessa della famiglia, nel senso che chivuole vivere e lavorare “nel cuore dell’impero” – chi vuole diventare un membrodei quadri manageriali dirigenti delle grandi organizzazioni del capitalismo inter-nazionale – deve assumere uno stile di vita che sia congeniale e perfettamente adat-tato al sistema. E ciò oggi implica mostrare una totale flessibilità e assumere un setdi orientamenti simbolici, cognitivi e relazionali, che collidono con quelli richiestida una progettualità familiare. Essere completamente flessibili, liberi, impiegabili,disponibili comporta vivere in uno spazio-tempo sociale di pura contingenza, nelquale dunque non c’è posto per la famiglia. Capitalismo e famiglia tendono a par-lare due linguaggi reciprocamente incomprensibili. Se le cose stanno così, il siste-ma economico contemporaneo tende a diventare una “macchina” – un meccanismosociale – che è “celibe” in due sensi: perché sterilizza o marginalizza le relazionifamiliari e perché chi la guida “deve”18 fare scelte di vita non-familiari.

Com’è noto, non è sempre stato così. In realtà, in altre fasi del suo sviluppo ilcapitalismo è stato strettamente embricato con forme familiari particolari, o alme-no con “modelli” generali di vita familiare. In ogni caso, lungi dall’escludere larealtà familiare, il capitalismo “classico” (dei secoli XIX e XX, fino alle crisidegli anni Sessanta-Settanta) si è alimentato – per certi versi – alle stesse fontisimboliche della famiglia. Bisogna allora comprendere meglio per quali vie lamorfogenesi complessa delle strutture, culture e gruppi economici e familiari arri-va oggi a produrre questa contrapposizione, che difficilmente si può definire “ori-ginaria”.

Esaminiamo allora più analiticamente l’idea della reciproca incomprensibilitàdei linguaggi e incompatibilità dei tempi sociali – e della costellazione simbolicarelativa – tra sfera familiare e sfera economica.

I tratti socioculturali del sottosistema economico che spingono verso la dissol-venza della famiglia in molteplici stili di vita altamente individualizzati e contin-genti sono sostanzialmente i seguenti due:

Il processo di globalizzazione implica, come uno dei suoi tratti fondamentali,una tendenziale mercificazione delle relazioni sociali, che si esprime nel fatto cherelazioni sociali entro le sfere più diverse vengono pensate e strutturate secondoil paradigma del consumo. In questo quadro anche le relazioni familiari e/o dicoppia assumono evidentemente la tonalità della “pura” gratificazione individua-le, “consumatoria” appunto.

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18 Con “deve” non intendo qui assumere una posizione deterministica. Intendo però che agire“contro” questa pressione, questo condizionamento strutturale, comporta un reale “sforzo” e“sacrificio”, d’intensità variabile. Per una chiarificazione di questo modo d’intendere il con-dizionamento strutturale rimando ancora ad ARCHER 1997, che presenta una spiegazione inbuona parte condivisibile – benché a mio avviso parziale – della questione.

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Inoltre, un mondo che cambia rapidamente lascia intendere di essere intrinse-camente instabile e “costruito”. Una società flessibile e rischiosa comporta unacomplessità di problemi e identità impossibile da gestire per il “puro” individuoo per la singola organizzazione. Invece di creare organizzazioni sempre più gran-di, si fa strada la strategia dell’affrontare i nuovi problemi attraverso reti semprepiù flessibili. Per esempio, una certa situazione può rendere necessario e utile perdue imprese lavorare insieme – perché, supponiamo, possiedono competenze evantaggi reciprocamente utili – anche se sino al giorno prima sono state rivali. Lacapacità di cooperazione diventa dunque sempre più una necessità. Lavorare inquesto mondo implica entrare a contatto con cose, fenomeni e soggetti diversi, ele competenze e capacità da apprendere sono di conseguenza capacità cooperati-ve: per esempio, come fidarsi degli ex concorrenti e come competere con gli expartner; come creare e gestire gruppi legati a determinati progetti; e così via. Altempo stesso, gestire processi complessi in questa società richiede la capacitàd’intrecciare, aprire e allargare continuamente le reti che consentono di gestire iproblemi e di risolverli. Si badi: non si tratta qui di una semplice capacità tecnica“in più”: nella flessibilità, disponibilità, flessibilità e apertura comunicativa a ogniapprendimento, le personalità che eccellono in questa configurazione dell’econo-mia e del lavoro manifestano l’idea che la società ha della propria perfezione, edelle prove attraverso le quali essa può stabilire gerarchie coerenti con il proprioideale. La complessità di cui ho appena detto configura la società – per questiobiettivi e da questo punto di vista – come una sorta di “città dei progetti”. In essa,l’abilità richiesta consiste appunto nell’essere “uomo delle reti” e perciò collabo-rativo, flessibile, aperto, comunicativo, disponibile a intrecciare sempre nuoverelazioni, a entrare e uscire da cerchie sociali diverse nel dovuto tempo e luogo.Le reti vanno poi impiegate come unità di problem solving ad assetto variabile,utili per gestire i progetti dell’azienda. Ogni chiusura rappresenta un mancatoapprendimento e un’occasione perduta per ampliare la propria rete19.

Ora, questa specifica valorizzazione del consumo e della reticolarità ha unrisvolto univoco per quanto riguarda le pratiche e le semantiche della famiglia.Esso spinge cioè verso lo sviluppo di personalità estremamente flessibili, dispo-nibili a sempre nuovi relazionamenti ma anche perciò stesso costitutivamente in-disponibili al radicamento e al vincolo.

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19 L’idea di perfezione di una società, in quanto si esprime nel matrimonio, è evocata anche daDUBY (1983), opportunamente citato e commentato da PRANDINI (2001, p. 448), il quale lousa precisamente per illustrare l’ideale di perfezione pragmatico-funzionalista della societàcontemporanea e il modo in cui esso costruisce e de-costruisce, simbolizza e de-simbolizzale relazioni familiari. Tornerò su questo punto cruciale nel par. 4. Qui m’interessa osservareche tale “ideale di perfezione” formulato nella vita privata ha un corrispettivo – né derivatoné prioritario – nella sfera economica e del lavoro. Per questa idea – e per il concetto di “cittàdei progetti” – si veda BOLTANSKI e CHIAPELLO 1999. I diversi regimi simbolici, ciascuno conuna sua “economia della grandezza” – cioè un’idea di perfezione – e specifiche “prove” permisurarla, compaiono in BOLTANSKI e THÉVENOT (1991).

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Le reti di cui si tratta qui non sono dunque, naturalmente, quelle reti locali, diparentela, amicizia o vicinato, che estendono e sostengono la sfera della familia-rità in una “società relazionale”, come la migliore teoria e ricerca sociologica hada tempo messo in luce. Quest’ultimo tipo di reti non scompare, anzi si ri-genera– laddove può – nei “mondi vitali” locali (Donati 1998; 2001). Esso è però affian-cato da reti globali, strutturalmente e culturalmente orientate a un grado moltoelevato di contingenza delle relazioni che le costituiscono.

Il complesso della cittadinanza si è venuto articolando, in Europa, come unalunga marcia verso la “soggettivizzazione del diritto” e una relativa “neutralizza-zione” della sfera pubblica e della cittadinanza stessa. Non è questa la sede persvolgere in modo anche minimamente esauriente questo tema, né per esaminarel’estesissima letteratura esistente in merito, su molteplici versanti giuridici, filo-sofici e scientifico-sociali. Mi limito qui a riassumerne alcune coordinate ele-mentari, evidenziandone gli effetti sulle dinamiche familiari.

Per ragioni complesse, entro i sistemi di welfare europei – a cui il complessodei diritti di cittadinanza è strettamente connesso – si è da tempo manifestato l’e-mergere di una tendenza di lungo periodo vero l’autonomia di ogni sfera sociale.Questa tendenza autonomistica ha in sé valenze molteplici e anche opposte traloro, dal punto di vista dell’assetto storico-sociale a cui potrebbe approdare. Essacomunque mette in crisi le categorie “classiche” con cui il Novecento ha pensatoe praticato la cittadinanza, come complesso di diritti-doveri giuridico-politicolegato allo Stato-nazione e integrato (e ri-generato) da un orizzonte simbolico uni-versalistico relativamente condiviso e capace di trascendere ogni appartenenza“particolaristica” (religiosa, familiare, culturale, etnica, o altro)20.

In ogni sottosistema della società, questi “mondi” sociali autonomi, “intessu-ti” d’interessi e identità differenti, avanzano ciascuno le proprie pretese, richie-dendo che siano trattate come diritti. In altre parole, esigono sempre più che ilcomplesso della cittadinanza riconosca sempre più identità e interessi e li inclu-da nel suo sistema di diritti, rendendo quest’ultimo in-differente alle differenzeche vengono incluse.

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20 Come esemplificazione di due visioni analoghe, eppure anche profondamente divergenti,della tendenza in questione si vedano DONATI (2000) e TEUBNER (1999). La prima esplorauno scenario in cui la società delle autonomie dà luogo a un assetto istituzionale che man-tiene un certo grado di coordinamento in termini di “bene comune” e una certa capacità diselezione eticamente qualificata tra sfere sociali autonome (dunque anche tra i loro “diritti”).La seconda presenta invece un “pluriverso” sociale in cui il coordinamento e la stabilizza-zione di assetti istituzionali si fonda essenzialmente su selezioni tecniche e sullo strumentodel contratto, sia pure ri-definito in modo tale da saper gestire una complessità sociale eun’interconnessione tra sfere sociali che costituiscono “mondi” simbolici tra loro irriducibi-li, cioè in stato di “policontesturalità”. Per policontesturalità s’intende la situazione in cui lastruttura di una società non può più essere colta attraverso una singola distinzione binaria (adesempio pubblico/privato), ma rimanda a una pluralità di prospettive di auto-descrizione eauto-osservazione, ciascuna dotata di una sua logica e irriducibile alle altre. Rimando alla precedente nota 18 per altri riferimenti in merito.

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Quanto al rapporto di queste sfere sociali autonome col diritto, il problemaviene tendenzialmente risolto ripensando il diritto stesso – soprattutto il dirittoprivato – per riferimento alle varie autonomie della società civile (soprattuttonelle sfere non economiche), in modo da rispondere alle loro diverse razionalità.La teoria deve orientarsi a quegli approcci che sottolineano l’aspetto dell’auto-organizzazione spontanea, della posizione autonoma di confini, e l’emergenza diforme di normatività originaria entro i diversi campi sociali (Habermas 1996;Luhmann 1993; Walzer 1987). Il diritto privato dovrebbe riflettere la razionalitàinterna di ciascuna sfera autonoma, frammentandosi; emergerebbero dunque tanticampi di diritto privato speciale quante sono le forme autonome che esprimonouna loro produzione normativa spontanea, che richiede poi di essere riconosciutacome base sulla quale “contrattare”, cioè regolare i propri rapporti con altre auto-nomie sociali e con le pubbliche amministrazioni. Tale produzione normativa – tral’altro – porta il diritto verso una configurazione non gerarchica. La differenzia-zione va, infatti, presa sul serio. L’idea di un meta-discorso, di un’idea regolativauniversale, incontra l’incommensurabilità tra i discorsi. C’è chi tenta di combina-re l’idea di giurisdizioni mutualmente esclusive (aree di competenza giurisdizio-nale diverse per diversi territori simbolici) e quella di un super-discorso morale-legale (meta-livello di procedure e criteri universalizzabili per risolvere i conflit-ti di giurisdizione) (Walzer 1987; Habermas 1996). Tali soluzioni, per quanto raf-finate, debbono fare i conti con la co-originarietà dei diversi discorsi, logiche, pra-tiche argomentative.

Applicato alla famiglia, ciò comporta una radicale contrattualizzazione deldiritto di famiglia (Pocar e Ronfani 1998) e una pluralizzazione che rispecchi lediverse “forme” e modi di essere famiglia decise dai soggetti. A ogni famiglia ilsuo diritto, a ogni diritto la sua famiglia21.

Quello presentato è uno scenario in cui la società – attraverso il suo sistemagiuridico e il complesso della cittadinanza – risponde alla tendenza autonomisti-ca rendendosi indifferente alle forme assunte dalla famiglia, e finisce per confon-dere tra loro tipi di relazioni primarie diversi22.

Al di là di ogni possibile giudizio di valore, in letteratura si è fatto osservareche emergono in questo scenario due grandi ordini di problemi:

(a) questioni di equità; nel confondere stili di vita e relazioni primarie diver-se il complesso della cittadinanza non attinge neppure a un’autentica neu-tralità, ma finisce per privilegiare alcune forme sulle altre. Se spingesse laneutralità sino in fondo, incontrerebbe poi una serie di problemi ancherelativi ai diritti individuali di eguaglianza e libertà;

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QUADERNO: FAMIGLIA E FILOSOFIA

21 Per dirla con PRANDINI (2001), a cui rimando per una recente e raffinata trattazione del rap-porto tra famiglia e diritto, in cui si mettono bene in luce, tra l’altro, i problemi a cui accen-no qui di seguito.

22 Si noti ciò che implica questa formulazione: sotto questo profilo la dinamica di pluralizza-zione parte dalla famiglia stessa, ma viene “confermata”, rilanciata e configurata in formedeterminate dall’assetto politico-giuridico. A ciò si legano anche effetti corrispondenti.

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(b) l’effetto congiunto delle spinte provenienti dall’asse Stato-mercato è quel-lo di una (tendenziale) de-simbolizzazione e funzionalizzazione delle rela-zioni umane, specificamente di quelle intime e familiari. Di questo parle-remo tra breve (par. 4), come del problema più radicale che si pone nel-l’orizzonte della pluralizzazione e che sancisce probabilmente una vera epropria crisi di civiltà, per molti versi senza precedenti.

3. Dove e come si pluralizza la famiglia

La famiglia esprime oggi una sua dinamica, in parte indotta e incanalata dalleinterconnessioni con gli altri sottosistemi della società (soprattutto lo Stato e ilmercato) e in parte endogena e originaria. Indubbiamente oggi, come ricordaDonati (2001)23, si assiste a un duplice fenomeno:

(a) si approfondiscono e variano le ragioni del fare famiglia, e ciò sposta gliorizzonti del progetto e i suoi confini;

(b) la famiglia si espande nelle funzioni e implicazioni.A questo approfondimento ed espansione fa riscontro la pluralizzazione degli

arrangiamenti e delle forme di vita familiare. Tale fenomeno si rispecchia nei datistatistici, che normalmente evidenziano l’emergere e l’incremento numerico (i)dei fallimenti a carico delle famiglie “tradizionali” (coniugali) e (ii) del diffon-dersi di modalità “altre” di convivenza e di pratica della coppia e della “familia-rità”.

La critica sociologica più avvertita ha messo in luce come questi risultati, ben-ché apparentemente inappuntabili sul piano tecnico, manchino spesso di unapproccio sociologico adeguato a svilupparne interpretazioni istruttive. È la teo-ria che decide che cosa si può osservare e soprattutto che cosa davvero significhiciò che si è osservato. In particolare, si fa notare che i dati sono per lo più orga-nizzati e letti secondo un criterio meramente tipologico e per così dire “statico”.Si dice: oggi un certo numero di persone vivono in un certo “tipo” di convivenza,altre in un matrimonio, altre ancora da single, eccetera. Queste sono più di quel-le, e oggi più di ieri. Ciò è vero, ma dice ancora poco sul senso che i soggetti attri-buiscono a tutte queste situazioni di vita in cui “si trovano”.

Una semplice distinzione può servire a esemplificare ciò che intendo dire. La pluralizzazione può assumere fondamentalmente due diversi significati: (a) può derivare dall’emergere di modalità nuove di pensare e praticare il

complesso nodo dell’alleanza tra i sessi e le generazioni, che è un’esi-

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23 Oltre al contributo firmato da questo autore, si vedano i dati statistici riportati nel volume dalui curato (2001). Nella mia esposizione del par. 3 seguo fondamentalmente la sua imposta-zione del problema e tralascio di commentare puntualmente i dati. Alle statistiche ivi citate– nell’appendice e nel commento puntuale di alcuni capitoli – rimando chi volesse dei rife-rimenti numerici precisi.

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genza basilare di ogni società e che ogni società umana storicamenteconosciuta ha stabilizzato e organizzato attraverso l’istituzione della fami-glia. Le lealtà profonde che si creano e che connettono i soggetti lungol’asse della differenza di gender e lungo la linea genealogica possonoessere oggetto di trasformazioni e innovazioni, nel vissuto soggettivo ecome simboli culturalmente condivisi. Aggiungiamo poi che nessunasocietà ha mai lasciato questo denso intreccio di lealtà, legami e vissutisoggettivi privo di una regolazione anche “pubblica”24, percependone lacrucialità per la propria stessa sopravvivenza materiale, oltre che sul pianodell’identità.

(b) Può essere invece il risultato di rotture, disagi, tensioni, incapacità. Puòessere cioè l’esito di una fragilità psicologica e relazionale, di un’instabi-lità, situata negli individui e/o nelle loro relazioni, oltre che naturalmentenel contesto societario, che li rende incapaci di esperire e progettare lapropria vita entro l’orizzonte di relazioni familiari durature25.

Ora, è difficile negare la rilevanza di questa distinzione. Nel primo caso si trat-ta di una trasformazione della famiglia, nel secondo di una sua patologizzazione.Nel primo caso si tratta di comprendere e spiegare a quali esigenze e progettuali-tà, individuali e collettive, risponda una certa evoluzione della famiglia, qualinuovi bisogni esprima e in che modo rinnovi l’intreccio tra i sessi e tra le genera-zioni, e naturalmente con quali probabili conseguenze (per le personalità e per lasocietà). Nel secondo caso il problema è semmai quello di capire perché farefamiglia diventi un’impresa sempre più improbabile, quali siano gli ostacoli chefiniscono per prevalere sui bisogni e i progetti degli individui e li costringono adarrangiamenti di vita che hanno il senso dell’adattamento a situazioni divenutenon sostenibili, che sono cioè la presa d’atto di un fallimento piuttosto che un’in-novazione culturale o una svolta progettuale nella cultura familiare della società.Ed è evidente che una lettura statica e meramente tipologica dei dati empiricioscura e confonde invece completamente questa differenza.

Alla luce di queste considerazioni, possiamo osservare che la situazione ita-liana presenta attualmente una grande maggioranza di famiglie “normo-costitui-te” oppure di arrangiamenti – single, single con figli, vedovi/e, coppie ricostitui-te – che sono decisamente il risultato di fallimenti. Appare insomma del tuttominoritaria quella parte di popolazione che esprime un progetto di vita di coppiae di famiglia realmente “diverso”, al di là del necessario adattamento a un falli-mento esistenziale, come “ciò che vuole davvero”.

Questa affermazione modifica evidentemente un’immagine mediatica diffusa.La famiglia “tradizionale” (e qui ovviamente la terminologia combatte la sua bat-

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24 Qualunque cosa ciò volesse dire a seconda dell’epoca e della formazione storico-sociale diriferimento.

25 Si tratta della distinzione che DONATI (2001) formula come differenza tra pluralizzazionefisiologica e patologica.

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taglia simbolica) non sta affatto “scomparendo” per lasciare il campo a progetti estili di vita “più moderni”, a meno che per “modernità” non s’intenda semplice-mente l’incapacità a stringere legami durevoli, il che poi difficilmente potrebbeessere valorizzato come “emancipazione”.

Bisogna però diffidare, allo stesso modo, delle visioni che si affidano troppo aquesta evidenza empirica, la cui interpretazione deve tenere conto di alcuni ele-menti aggiuntivi.

Anzitutto, in linea generale, tende a diffondersi la pratica (e l’ideale) della cop-pia che si costituisce “a piccoli passi”26, cioè che incorpora un alto livello di auto-nomia e gradualità nel tempo di ogni singola decisione. È come se il “fare fami-glia” diventasse un processo che articola (e a volte spezza) nelle sue singole com-ponenti un complesso di orientamenti, decisioni, atti che una volta erano del tuttosolidali e comparivano in modo più o meno simultaneo: avere rapporti sessuali,mettersi insieme, convivere, sposarsi, avere figli diventano decisioni distinte e fasidistinte del corso di vita familiare, con un certo grado di contingenza tra le une ele altre. Ciò vuol dire non solo che ciò che era simultaneo viene proiettato nellasuccessione temporale, ma anche che non è mai detto definitivamente che da unafase si passi “automaticamente” ad un’altra, e quando, e se ciò possa avvenire alprimo tentativo o dopo una serie di prove ed errori con partner diversi. Il matri-monio suggella più che fondare la famiglia, rappresentando l’approdo di un cam-mino e non il suo inizio. Se questo può ancora dirsi un orientamento che “approdaal matrimonio”, seppure attraverso una via più indiretta e tortuosa, è indubbio chequi non siamo di fronte semplicemente a un problema di “adattamenti al fallimen-to”, ma a un modo nuovo di costruire la coppia e la famiglia. E che esso modificaindubbiamente i vissuti e il valore simbolico dei vari momenti in questione.

Inoltre, nella maggior parte dei Paesi europei le cose vanno diversamente.Cioè a dire: rimane vero che le coppie che prima o poi si sposano rappresentanoancora la maggioranza; va detto anche che le coppie che si risposano sono unnumero assai rilevante, e ciò indica che – pur nella maggiore contingenza e nellamaggiore probabilità del fallimento – il matrimonio rimane una prospettiva pro-gettuale importante per la maggior parte della popolazione. Ma al tempo stesso lepercentuali di coloro che per scelta propria vivono stili di vita diversi – convi-venze more uxorio, unioni libere con il più vario grado di stabilità e di orienta-mento alla generatività, convivenze omosessuali27 – sono estremamente più ele-vate e in continuo incremento.

Ancora: tutte le tendenze di cui abbiamo detto sono assai più diffuse tra i gio-vani. Ciò lascia pensare che il futuro porterà – almeno sul medio periodo – un

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26 Riprendo questa formulazione da un noto contributo di J.C. Kaufmann. Per un approcciosistematico al tema della coppia si veda KAUFMANN 1996.

27 Non affronto qui in tutta la sua gamma di complessità la questione terminologica, che ci por-terebbe a moltiplicare i segni linguistici e a discuterli uno per uno, riconducendoli a diversematrici culturali e riferimenti empirici.

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intensificarsi di tutte le dinamiche di pluralizzazione (“patologiche” e non) a cuiho accennato28.

Infine, anche laddove la pratica rimane fondamentalmente ancorata alla “tra-dizione”, lo sfondamento culturale è spesso già avvenuto sul piano della legitti-mazione, ancora una volta soprattutto tra i giovani. Per dirla semplicemente: ungiovane italiano – anche quando è privo di un’identità religiosa o culturale forte– difficilmente non si sposa. Ma è altrettanto difficile che concordi con l’idea cheuna “coppia di fatto” o una coppia omosessuale non possono essere una famiglia.E se sì, difficilmente sa dire il perché. Se passiamo ai giovani di altri Paesi euro-pei, questa tesi trova conferme ancora più radicali.

È impossibile non vedere in queste tendenze una reale mutazione29 dell’esse-re e del fare famiglia, al di là di eventi che si possono chiamare in prima battuta“patologici”. Si può certamente sostenere che siamo di fronte a una sorta di “bigbang” degli stili di vita, che crea “mondi” familiari e non. Questa visione30 hamolti pregi, tra cui ne riassumo tre:

(a) Quello di opporsi all’evoluzionismo lineare, mostrando come la morfoge-nesi della famiglia generi creativamente una complessità non unidirezio-nale e non solo, né prevalentemente orientata all’estinzione;

(b) Quello di sottolineare che esiste un unico “genoma” della famiglia, di cuisi danno variazioni, e che si danno inoltre stili di vita che sono solo meta-foricamente familiari, in quanto si sono sviluppati a partire da e per rife-rimento (anche per contrapposizione) a quel densissimo nucleo simbolicoe relazionale che è la famiglia, intesa come relazione di piena reciprocitàche regola l’alleanza tra i sessi e tra le generazioni;

(c) Quello di saper vedere che la pluralizzazione degli stili di vita comportauna de-differenziazione31, ma anche nuove ri-distinzioni tra relazioni pro-

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28 Non discuto qui il problema che possa trattarsi di un effetto di generazione o di un effetto dicoorte; in parole povere: se si tratti di orientamenti che le nuove generazioni acquisiscono inmodo definitivo o se invece li caratterizzino in quanto “generazione dei giovani”, e che sonopoi destinati a evolversi in un senso più “tradizionalista” con la maturità e l’invecchiamen-to. La questione rimane complessivamente impregiudicata. Mi limito però a un’osservazio-ne: quest’ultima ipotesi, se può avere una sua validità e una sua rispondenza empirica nellasfera dei valori e degli orientamenti politici (chi non ha mai sentito la storiella secondo cuichi non è comunista a vent’anni non ha cuore e chi lo è ancora a cinquant’anni non hatesta?!), mi pare difficilmente trasponibile nella sfera familiare. Anche perché, seppure cosìfosse, l’effetto sarebbe comunque assai diverso. Una persona che “cambia idea” sulla fami-glia a una certa età non deve semplicemente cambiare tessera di partito o fedeltà elettorale,anche perché l’effetto di ciò che ha costruito nella sfera della familiarità è di solito ben altri-menti concreto e rigido alle modifiche intenzionali, e dunque forte sulla struttura della socie-tà (per esempio, ma non solo, a livello demografico).

29 Spiegherò poi (par. 4) perché impiego qui il termine “mutazione”, invece di dire semplice-mente “cambiamento” o “trasformazione”.

30 Che riprendo ancora da DONATI (2001). 31 Nel senso che cadono alcuni confini simbolici tra ciò che è famiglia e ciò che non lo è.

“Tutto” pretende di essere chiamato “famiglia”, allo stesso modo.

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priamente familiari e altre relazioni primarie di convivenza, di diversanatura sociale (a cui deve conseguire una diversa regolazione normativa).

In ogni remota parte dell’universo fisico, tuttavia, sono presenti le stesse forzee valgono le stesse leggi. Si tratta invece di comprendere se il big bang delleforme di relazioni intime e la diffusione di determinati stili di vita, lontani dalnucleo simbolico originario della famiglia, non introduca differenze inconciliabi-li, mutazioni e “catastrofi” (in senso fisico) del sistema che vanno oltre la sua solacomplessificazione.

Comunque sia, a fronte di questa morfogenesi appare chiara tutta l’inadegua-tezza di due visioni opposte:

(i) non si può limitarsi a dire che il matrimonio rimane un orizzonte – perquanto percepito come remoto e irraggiungibile – che definisce il proget-to di vita delle popolazioni europee, e che una serie di condizionamentisocietari lo rende più “difficile”, lasciandone però la “nostalgia”;

(ii) appare terribilmente semplicistico dire che la pluralizzazione deriva dalfatto che non si può più “normare l’amore”32. Appare chiaro infatti: (a)che la morfogenesi della famiglia è ben altrimenti complessa e non èguidata dalla sola “forza” della spinta all’autorealizzazione espressiva;(b) che in questa morfogenesi entrano molti elementi e non solo il “puroamore”, come sopra definito, e a volte sono proprio questi elementi chelo condizionano; (c) e infine, ciò che più conta, che l’amore non è unsimbolo “trasparente”, univoco e spoglio di altri significati che trascen-dano la gratificazione del “puro” individuo. In molte semantiche, chenon possono essere semplicemente date per scontate o negate come“superate”, in molti vissuti, che ancor meno possono essere definiti arbi-trariamente inautentici, l’amore stesso contempla e rimanda a un oriz-zonte temporale e normativo stabile, mentre l’instabilizzazione vienevissuta come una rottura dell’amore – singolarmente dolorosa (è inutilenegarlo) anche per chi non ne condivide una rappresentazione simboli-ca massimamente ricca ed esigente, o non ne è consapevole – e non lasua realizzazione.

Se le cose stanno così, occorre focalizzare la nostra discussione sulle tenden-ze più radicali e che più problematizzano la forma-famiglia, senza banalizzarnegli esiti e senza dare per scontato che si tratti di patologie. Siamo invece proba-bilmente di fronte a una svolta di civiltà – che definire “crisi” sfiora l’eufemismo– rispetto alla quale è necessario saper porre le distinzioni giuste.

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32 Come talora si fa laddove si prenda l’“amore romantico” – irrelato ad altre dimensioni –come unico fondamento simbolico delle relazioni familiari e lo si contrapponga a qualunquenormatività, irrimediabilmente “eteronoma”.

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4. L’umano e il familiare dopo la modernità. De-simbolizzazioni e ri-simbolizzazioni

Per sintetizzare, ho chiarito come il fenomeno della pluralizzazione si presen-ti nella realtà effettuale come un fenomeno complesso, che porta in diverse dire-zioni e che presagisce a diverse conseguenze. Esso non può essere ridotto a un’e-voluzione lineare che dissolve la famiglia come le nostre società l’hanno storica-mente conosciuta (e regolata), né può essere agevolmente ricondotto a unità, conun’operazione di “contenimento simbolico” sempre più precaria, perché bisognacomprendere insieme sia la rielaborazione delle reciprocità familiari, sia la lororottura, sia ancora mutazioni di più vasta portata.

Più che promuovere la pluralizzazione, o al contrario pensare al contenimen-to, alla “difesa”, e strategie simili, tanto chi percepisce la pluralizzazione dellafamiglia come foriera di una crisi di civiltà quanto chi ritiene positiva la trasfor-mazione in corso, e intende dare un ordine alla nuova costellazione societaria chesorge da tale nuova multiformità, deve impegnarsi in un’altra direzione. Si trattadi sviluppare ed esplicitare distinzioni e linee d’indagine (teorica ed empirica)sino a oggi rimaste latenti, e che ora emergono al pensiero riflesso proprio perchésono messe in discussione, perché una cultura emergente in Occidente rende sem-pre più indifferenti i confini che le definiscono. Ed è con questa cultura che biso-gna confrontarsi. Certo, lungo questo filo evolutivo s’incontrano fenomeni sen-z’altro differenti, come ad esempio le unioni libere eterosessuali e le unioni trapersone dello stesso sesso. Ma è necessario cogliere sia le differenze, sia le ana-logie tra queste forme e stili di vita. È utile a questo punto distinguere, per poiconnettere, due filoni del discorso.

(a) È evidente che le cosiddette convivenze more uxorio, le unioni libere, ecce-tera, finché mantengono la distinzione tra i sessi nella coppia, rimangono per cosìdire alla superficie del problema. Certo, la loro situazione non è esente da para-dossi. Spesso ad esempio si ricorda come sia assurdo voler “a tutti i costi” defini-re “famiglia” e garantire tutela giuridica conseguente a individui che per loro scel-ta decidono di vivere in un altro modo. Ciò è senz’altro vero, e porta a conclude-re che paradossalmente una configurazione apparentemente “neutrale” del rappor-to tra famiglia e società (specialmente tra famiglia e sfera pubblica, tra famiglia ecomplesso della cittadinanza) corrisponda a una realtà in cui niente possa più rima-nere fuori dal diritto. Ma il problema è più complesso. La logica della soggettiviz-zazione del diritto consente agli individui di entrare e uscire “liberamente” dallerelazioni che essi stessi hanno costruito, e che in momenti successivi della loro vitapossono percepire come vincoli alla loro libertà e allo sviluppo della propria per-sonalità come pura autorealizzazione. Le politiche familiari dovrebbero anzi, inquesta prospettiva, essere mirate a rendere il più facile e indolore possibile ognu-no di questi passaggi, entrate e uscite, accrescendo la flessibilità. Il punto non è,naturalmente, che invece si debba (chissà perché) “far soffrire” gli individui il piùpossibile; il punto è che abbandonare la famiglia a scelte puramente private crea

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poi instabilità sociale e problemi di equità, che la società deve poi gestire allen-tando il controllo sulla coppia e accrescendolo sulle relazioni di filiazione e sulpatrimonio, con ciò incorrendo in problemi di vario tipo. Per esempio: fare appel-lo alla “responsabilità” e contestualmente sganciare le lealtà coniugali da quellegenerazionali significa costruire la responsabilità in un modo paradossale e alta-mente improbabile e non si realizza comunque l’equità sociale33.

Ma in definitiva tutto ciò rimane entro confini simbolici gestibili, per quantoprecari. In ogni caso, il problema che si pone qui è la divergenza tra individuali-tà e un qualche riferimento di bene comune.

(b) Laddove si entra nel campo delle unioni omosessuali, il cambiamentodiventa mutazione. Ci troviamo allora nel luogo simbolico in cui la società tendead annullare i confini del familiare, in quanto rende indifferente anche la diffe-renza sessuale. Con ciò anche distinzioni come coppia/non coppia perdono disignificato. E questo significa disancorare le individualità “pure” non solo dalriferimento a un bene comune, ma anche a un qualunque ordine simbolico.Questa è anche la ragione ultima per cui il cosiddetto paradigma della cura nonpuò risolvere il problema. Esso implica che la cura sia ciò che conta e che la fami-glia come forma sociale determinata sia sostituibile, sia solo la forma sociale chele società hanno usato per un certo tempo per garantire la cura, la quale è ciò cheveramente importa. Non sostengo che esso non abbia una sua probabilità descrit-tiva: potrebbe essere quel che resta possibile in condizioni di iper-modernità. Dicoperò che esso non risulta convincente nel proporre un adeguato “equivalente fun-zionale” della famiglia. Il punto infatti è che la differenza tra i sessi viene costrui-ta simbolicamente non soltanto, né prevalentemente per ragioni di potere o dimera divisione del lavoro sociale, ma per ragioni antropologiche profonde, che inultima analisi consistono nel «riconoscere la finitudine di ciascun sesso e quindiil bisogno dell’altro affinché l’umanità viva e si rigeneri» (Prandini 2001, p. 455).Nessuna società – così si dice – può rinunciare al simbolismo della filiazione edella generatività. Chi argomenta in questo modo sottolinea giustamente che unade-costruzione portata oltre questo limite comporterebbe una svolta antropologi-ca di portata epocale, in cui una matrice simbolica che ha accompagnato tutte lesocietà umane storicamente esistite viene distrutta. Nondimeno, questa de-costru-zione è possibile, e per molti versi è un esperimento culturale concretamente inatto. E de-costruire questo ordine simbolico non tocca dunque soltanto questionidi equità sociale, che sono assai serie, ma che da questo punto di vista appaionoun affare piuttosto superficiale. Il problema diventa il carattere propriamente

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33 Per motivi complessi, che non posso qui approfondire. Mi limito a formulare in terminigenerali il problema di fondo di tutte queste operazioni: è ovvio che non intendo nemmenolontanamente sostenere che qualcuno possa semplicemente uscire dalle sue relazioni coniu-gali, con ciò stesso rimanendo “libero” anche dalle responsabilità inter-generazionali. Ma ilfatto è che la disconnessione tra relazioni di coppia e relazioni di filiazione è comunque fit-tizia. Operando sulle une si toccano comunque anche le altre, producendo paradossi, ini-quità e squilibri di vario genere.

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umano della famiglia e della società. Il problema della definizione della famigliaoggi, per noi europei, passa di qui: il nocciolo della questione consiste nel riorga-nizzare le relazioni intime in modo da ricostruire un patto e un’alleanza capaci digenerare relazioni positive al fine di umanizzare la persona. Ma naturalmente ilcriterio di ciò che è umanizzante è precisamente il problema.

Ho sottolineato le differenze tra due ambiti della fenomenologia empirica, duerami del problema della pluralizzazione delle forme familiari. Essi implicano,certo, valenze distinte; hanno però anche qualcosa in comune. Precisamente,fanno parte di un’unica sindrome culturale “post-moderna”, che non qualificainteramente un’epoca, ma ne rappresenta la sfida. Entrambi i fenomeni, infatti,nella purezza della loro logica assumono come valore ultimo l’adattamento fun-zionale alla complessità e l’utilizzo di qualsivoglia risorsa a fini pragmatici. Lerelazioni sociali, e specificamente quelle familiari, vengono così radicalmente de-simbolizzate, e ridotte alla mera fattualità34. Spetta agli individui costruire rela-zioni e forme di vita sociale ch’essi chiamano “familiari”, e nessuna autorità supe-riore può avanzare le sue “definizioni” contro questo potere. Non c’è nulla al disopra della società, neppure la scienza sociale35. È famiglia ciò che funzionacome famiglia, e lo è finché funziona. Replicare che la società ha sempre carica-to simbolicamente ogni relazione rilevante, e sicuramente quelle familiari, è asso-lutamente corretto, ma si scontra con il processo di neutralizzazione di cui ho par-lato.

Va comunque ricordato che questa de-simbolizzazione e l’emergere di questasemantica pragmatico-funzionalista della famiglia e delle relazioni familiari nonrisponde solo agli interessi di un gruppo sociale élitario e “illuminato”, che puntaa gestire tecnocraticamente e utilitaristicamente la società, ma a quelli di un“patto” tra queste élites e gli individui (quasi) completamente individualizzati.L’interesse cioè non è quello di una parte sola, ma risulta da un’alleanza, o meglioda un nodo d’interessi che sono legati tra loro in modo necessario36. Si può, dun-que, interpretare la dinamica in corso come de-simbolizzazione. C’è però l’altrafaccia della luna, che non dobbiamo dimenticare.

La mia tesi è che la suddetta de-simbolizzazione proceda di pari passo con unari-simbolizzazione, la quale non si limita a de-costruire pragmaticamente le rela-zioni familiari in quanto portatrici di esigenze e radicamenti antropologici, ma tra-sforma simbolicamente le nostre rappresentazioni dell’umano.

Per spiegare quale sia lo scenario a cui alludo vorrei analizzare la transizione

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34 Il riferimento va ancora a PRANDINI (2001), con cui concordo pienamente su questa inter-pretazione.

35 La quale, ironicamente, assume spesso paradigmi che contribuiscono a questo auto-dissol-vimento. La formulazione qui evidenziata in corsivo riprende quasi letteralmente una dichia-razione programmatica di Daniel Bertaux, che esemplifica bene questo atteggiamento epi-stemologico. “We must not define the family” è da almeno un decennio uno slogan quasibanale per una parte rilevante dei family studies di area geo-culturale anglosassone.

36 Secondo la logica delle “configurazioni istituzionali”. Cfr. ARCHER 1997.

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simbolica in questione “riducendola” a due concetti che costituiscono, per cosìdire, i fattori elementari della matrice antropologica “storica”, per distinzione daquella emergente, che chiamerei “virtuale”, a indicare sia il suo carattere (per ora)piuttosto indeterminato, sia il suo allontanamento da qualunque idea di “natura”e da ogni fondazionalismo.

Si tratta del concetto di limite e di quello di terzietà. Questi due elementi indi-cano con buona approssimazione e con una certa vicinanza al concreto due coor-dinate basilari del simbolismo della generatività dell’umano. Non rappresentanoperciò una “definizione” del concetto di “umano” (per distinzione dal “nonumano”) o di “umanizzazione”, ma piuttosto due confini che delimitano il terri-torio entro il quale l’umano si genera37. Per questo motivo, essi specificano ancheun criterio molto generale, ma antropologicamente e sociologicamente robusto, diciò che distingue una morfogenesi “umanizzante” della famiglia da una con esito“dis-umanizzante”.

Al tempo stesso, queste due coordinate indicano un confine che viene oggieroso dagli esperimenti che la società sta conducendo su sé stessa e che implica-no l’emergere di una semantica della famiglia impegnata a immunizzarsi da que-ste impegnative condizioni.

(a) Il simbolismo del limite, in senso generale e riferito all’umano, ha radiciantropologiche antichissime, e ritorna in molteplici culture e fasi di sviluppo dellesocietà umane, applicandosi per accoppiamento morfogenetico con molte diversesfere e sottosistemi della società: per limitarci a due esempi rilevanti, la famiglia,appunto (Prandini 2001, loc. cit.), ma anche l’educazione, come luogo dellacostruzione del Sé (Maccarini 2003, cap. 6)38. Esso implica l’idea che l’essereumano agisca in modo fecondo riconoscendo la propria finitudine (secondo la for-mulazione di Prandini sopra citata) e impegnando la propria parzialità nella ricer-ca dell’altro come complementare.

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37 Ciò significa più o meno quanto segue: è “umano” chi riconosce la sua finitudine e accettail limite e la parzialità della sua condizione, cercando nell’altro il completamento che lorende generativo; ed è “umano” chi entra in una dinamica che esce dalla sola diade, perimpegnarsi in relazioni triadiche. Questa però non può essere vista come una classica ope-razione di definizione di un concetto – in questo caso quello di umanità. Non c’è qui alcungenere proprio né alcuna differenza specifica. Non compare alcuna distinzione, singolar-mente presa, che si applichi qui come propria dell’umano e ne caratterizzi il contenuto.Tuttavia, qualunque cosa abbia storicamente significato essere “umani” (con tutte le varia-zioni empiriche e le sfumature semantiche), questa proprietà è emersa solo tra popolazioniin cui la vita e la cultura – vissuti e pratiche individuali e sociali, simboli cognitivi, norma-tivi e costitutivi – si sono orientate lungo queste direttrici. Il senso del proprio limite e lanecessità dell’incontro con l’alterità complementare, l’apertura della dualità alla triade sonoforme simboliche senza le quali l’umano perde le sue radici e per così dire la sua stessa“scena primaria”. Non sa più come nascere, né da quale forza e volontà è stato generato.

38 Il fatto che in ambiti differenti la distinzione limite/illimite venga in conto comunque, e nellestesse connessioni di senso, indica che si tratta di un tema d’indagine e insieme di un dilem-ma empirico che può indicare una frattura rilevante per un’intera costellazione storico-socia-le.

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(b) Il concetto di “terzo” è un altro esempio della transizione simbolica in atto:secondo Prandini (op. cit.) esso può definire un confine tra due grandi famigliegiuridiche, o meglio processi di costruzione simbolica della famiglia, e al tempostesso tra due grandi visioni antropologiche che stanno dietro a tale costruzione.Si tratta di distinguere tra visioni per cui l’umano si risolve nella diade e visioniper cui la struttura triadica delle relazioni familiari, che connette e articola le dif-ferenze di gender e quelle tra generazioni in un unico nodo, è quella propriamen-te generativa e ri-generativa della società, e pertanto va costituzionalizzata e rico-nosciuta, non in base a una superiorità “di fatto” delle forme che così si realizza-no, ma alla sua adeguatezza antropologica.

Ora, quello che accade oggi è un processo duplice: da un lato vi è la de-sim-bolizzazione: la società, per mezzo di una semantica pragmatico-funzionalistadella famiglia e delle relazioni sociali, tenta di rendersi indifferente alla sua matri-ce simbolica “storica” – basata sul limite e le strutture triadiche – operando comese fosse possibile ignorarla. Dall’altro si ha però un’elaborazione culturale chenon ignora, ma ri-definisce, e comunque rimette in discussione, il senso di quelsimbolismo e dei suoi concetti centrali. Il limite viene superato e non più accetta-to come “incompletezza” e “misura” dell’umano, e il terzo viene ri-specificato.

La legittimazione delle unioni omosessuali come forme di vita “familiare”39 –con o senza la connessa possibilità di adozione di figli o di riproduzione artificia-le – genera e implica un’antropologia virtuale, la quale però si esprime in prati-che e semantiche emergenti, anche al di là della questione focalizzata della fami-glia, o della sua giuridicizzazione. Emerge oggi un complesso simbolico androgi-no, che esprime istanze e pressioni societarie complesse. E il limite e il terzo sonoprecisamente le figure simboliche che assumono una rilevanza centrale in questeelaborazioni ideologiche e operazioni sociali, ricevendone una torsione del tuttopeculiare.

In sintesi: emerge una simbologia che pensa la società come fatta di “terzi” inquanto “uomini nuovi”, “nati ma non generati” nel senso di essere privi di genea-logia, semplicemente e infinitamente ibridati. Essi “abitano” il limite e la finitu-dine non in ricerca di un “altro” complementare e determinato, ma tentando diincorporare in sé ogni alterità, elaborandola come “apprendimento” e operandocontinue ibridazioni. Il “terzo” che risulta da questi percorsi di vita non è dunquepoi l’anello di una catena generativa in cui sia possibile salire o scendere, o indi-viduare riferimenti determinati, ma un essere dal manto cangiante, prodotto insta-bile di incroci esperienziali casuali e multiversi. È evidente come qui i due ele-menti simbolici vengano ri-definiti entro un altro paradigma. Chi desiderasse con-

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39 Questa formulazione chiarisce anche che non mi riferisco qui al fatto – questo, sì, “natura-le” e codificato in qualche modo in tutte le culture – che le persone omosessuali conducanoun’esistenza sociale coerente con le loro caratteristiche peculiari, né naturalmente ai lorodiritti individuali, ma specificamente all’emergere delle loro relazioni come forma familia-re.

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frontarsi con una versione teorica immaginifica e raffinata di questa cultura emer-gente dovrebbe leggere Michel Serres (1999).

Si tratta di una simbologia della società e dell’umanità come tecnicamentemodificabili e manipolabili all’infinito e dell’umano come infinita apertura ad“apprendimenti”, nel senso d’infinita contingenza antropologica. Da questo puntodi vista, il sesso e il gender sono solo un punto di partenza, una parzialità da dis-mettere, un inizio di apprendimento. Qui i due elementi simbolici basilari si tro-vano addirittura contrapposti: il “terzo” è un “uomo nuovo”, ma precisamente inquanto rifiuta ogni parzialità e ogni finitudine, per immergersi in un viaggio per-sonale d’infiniti apprendimenti. È il viaggio di chi non ha una meta, ma si realiz-za “rimanendo nel mezzo”, nel luogo in cui si perdono i riferimenti e ogni dire-zione s’incrocia e s’annulla. Si tratta dunque di un terzo che non rimanda più auna figura di limite e di generatività.

Un “uomo nuovo” di questo genere cerca e produce altresì un nuovo senso del-l’universale. È un universale “per incorporazione e ibridazione delle differenze”,che esce dall’architettura di qualunque universale di ragione (in senso classica-mente moderno) e che produce «il miracolo laico della tolleranza, della neutrali-tà benevola, [che] accoglie, nella pace, altrettanti apprendimenti (…)» (Serres1999, p. 17).

È su questo terreno che oggi si gioca la partita, a fronte di semantiche eman-cipatorie che si sono convertite in discorsi puramente tecnici40. Che in alcune ver-sioni essi tentino addirittura una ricarica in termini di un qualche simbolismo“neo-umanistico” (à la Serres) è oggi l’aspetto in più, che ho tentato di eviden-ziare.

La marcia verso la neutralizzazione della sfera pubblica è arrivata qui. Si capisce allora, dinanzi a questo fronte problematico, fino a che punto siano

inadeguati molti modi d’impostare la questione tipici della sfera pubblica dellenostre società. Il mondo cattolico (e più generalmente quella parte del mondo cri-stiano che ancora valorizza il matrimonio) reagisce al fenomeno spesso secondodue semantiche contrapposte: una “conservatrice” e una “progressista”. Secondola prima, la famiglia “come si deve” va semplicemente “difesa” contro ogni evi-denza empirica. La validità perenne del suo “essere” e “dover essere” viene quisemplicemente reiterata, i suoi rapporti con la realtà storico-sociale rimangono deltutto in ombra, quando non siano di mera contrapposizione, “resistenza” (più omeno marginale) o sviluppo in nicchie simboliche e socio-strutturali particolari-stiche e incapaci di esperienze universalizzanti. Nella seconda, il paradosso deri-

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40 Si pensi al recente dibattito svoltosi nel Parlamento e nell’“opinione pubblica” italiana sul-l’inseminazione artificiale e i suoi “limiti” – nell’etica e nella legislazione relativa. Chi vuoleprodurre ulteriore “emancipazione” ha posto il discorso in termini esclusivamente tecnici,respingendo come ideologica ogni altra formulazione del problema, e ha usato tale strategiaper chiudere, non per aprire il discorso. L’illuminismo viene così definitivamente “secola-rizzato” (e seppellito).

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vante dalla volontà di coniugare il “dialogo” perenne e l’assoluta apertura con ilmantenimento di un orizzonte simbolico e ontologico che non perda del tutto l’i-dentità originaria e non accetti lo svuotamento di qualsiasi contenuto determina-to viene de-paradossizzato attraverso la distinzione ideale/complessità dellavita41. In entrambi i casi, s’intuisce la lontananza dalla realtà e dai suoi problemi.

Il mondo cosiddetto “laico” sembra invece oscillare tra una veemente e mili-tante valorizzazione di questi cambiamenti, ancora letti come emancipazione – inuna formula più disillusa che mai –, e la fuga nel nirvana della distinzione eticapubblica/etica privata. Ciò che riguarda quest’ultima non deve essere discusso;ma nel frattempo il retroterra storico-sociale di questa distinzione è sprofondatoin una rete di relazioni di continuo reciproco rinvio e di nuove differenziazioni eibridazioni, di nuovi piani del discorso. De-costruire la matrice simbolica basila-re della generatività dell’umano riguarda il pubblico o il privato? Dobbiamo anco-ra trastullarci con queste amenità?

Si capisce insomma fino a che punto questa pluralizzazione dell’essere fami-glia sia un problema nuovo per tutti e quali siano i beni comuni che coinvolge.

Di fronte all’aprirsi di questo nuovo scenario, le politiche familiari possonoinsistere nell’approfondire la neutralizzazione della sfera pubblica e del comples-so della cittadinanza, oppure sperimentare una sorta di “ecologia delle relazionifamiliari” che metta in concorrenza forme diverse, tentando di qualificare etica-mente le proprie scelte42. Le famiglie, dal canto loro, dovranno probabilmenteimparare sempre di più a fare da sé, a non cercare l’appoggio degli apparati poli-tico-amministrativi, ma a creare, sviluppare e rafforzare le proprie reti, entro cuigiocare con le proprie leggi. Le loro speranze sono riposte non in un aiuto dall’e-sterno, né in una legislazione che “confermi” la loro autodefinizione, ma nel ri-generare in proprio – con strategie nuove e specialmente con una nuova capacitàe “arte” associativa43, quell’antica matrice simbolica, nel cui cuore stanno il sensodella finitudine, dell’alleanza con l’altro, dell’apertura al terzo come atto e pro-getto generativo. Quello che – da sociologo – posso augurarmi non è dunque néuna dimostrazione dialettica, né una levata di scudi legislativa, ma la proposizio-ne esistenziale da parte delle famiglie di una capacità di sopravvivenza e di uma-nizzazione che la società non dovrà “per forza” riconoscere, ma di cui, nel caso,dovrà in ogni caso pagare l’oblio.

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41 Curiosamente, la stessa soluzione dualistica che ha “sistemato” in epoca paleocristiana ilproblema del “mondo” e della sua complessità. È impressionante in proposito l’attualitàdelle classiche pagine di TROELTSCH (1923). Nelle presenti condizioni storiche, tuttavia, l’e-mergere di una peculiare forma ascetica corrispondente non sembra una delle linee di svi-luppo favorite.

42 La questione delle politiche familiari apre un capitolo a parte, che dovremmo svolgere in uncontributo ad hoc. Mi sono limitato qui a enunciare il bivio davanti a cui ci si trova.

43 Per un’esperienza italiana, del resto unica in campo europeo, si veda la ricerca pubblicata inDONATI e PRANDINI 2003, che raccoglie i contributi di Pierpaolo Donati, Andrea Maccarini,Riccardo Prandini, Luigi Tronca e Giampiero Bovi.

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* * *

Abstract: The so-called “pluralization” of family forms is a long term trendwhich appears to represent the very core of the family issues in Western societies.This essay first discusses its various meanings, claiming that a distinction is bothpossible and necessary between a “positive” and a “negative” sense of plurali-zation, in a rigorously non-normative sense that appeals to the difference betweenintentional transformation and disruption of family loyalties (part 1). Then theauthor specifies what exogenous forces – mainly State and market – make for thedevelopment of the trend towards pluralization (part 2), and draws a summarydescription of the endogenous dynamic that family life is displaying, in autono-mous response to such forces and also as a result of inner socio-cultural elabo-ration (part 3). The essay concludes with a discussion of the core problem impliedby the whole phenomenon, namely the de-symbolization of some basic elements

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of family relationships, and their ambiguous reconstruction in a sort of “virtualanthropology” (part 4). The author claims that this socio-cultural dynamic is thepresent result of a long- run and ongoing process of neutralization of the publicsphere in Western societies, of which this evolution in family relationships couldwell represent both the most advanced frontier and the coming crisis.

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Karmayoga – Jñānayoga in Rāmānuja or Active Life –Contemplative Life in Aquinas. A Meeting Point betweenIndian and Christian Thought

MARIANO ITURBE*

Sommario: 1. Introduction. 2. Karma in Indian Philosophy. 2.1. Karma: Usages and etymology.2.2. Evolution of the ‘theory of Karma’ in the schools of Indian Philosophy. 2.2.1. PūrvaMīmāsā. 2.2.2. Vedānta philosophy. 2.2.3. Viśi��ādvaita Vedānta philosophy. 3. The Concept ofātman. 3.1. Meanings of ātman. 3.2. Ātman in the Upani�ads. 3.3. Ātman in the Systems of IndianPhilosophy. 3.4. Ātman in Rāmānuja. 4. Mok�a and the Puru�ārthas. 5. Main Trends of Rāmānuja’sthought. 6. Nature of human action in Rāmānuja. 6.1. The doctrine of Karmayoga. 6.2. The con-cept of binding action. 6.3. Human action as sacrifice. 7. ‘Active life’ and ‘Contemplative life’ inAquinas. 7.1. Aquinas’Anthropology. 7.2. Action and Contemplation. 8. Conclusion.

1. Introduction

The publishing of the Papal Encyclical Fides et Ratio in 1998 brought aware-ness of the importance of the dialogue between Eastern and Western philosophy.In its point 72, the Holy Father says:

«My thoughts turn immediately to the lands of the East, so rich in religious andphilosophical traditions of great antiquity. Among these lands, India has a specialplace. A great spiritual impulse leads Indian thought to seek an experience whichwould liberate the spirit from the shackles of time and space and would thereforeacquire absolute value. The dynamic of this quest for liberation provides the con-text for great metaphysical system»1.

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ACTA PHILOSOPHICA, vol. 13 (2004), fasc. 1 - PAGG. 73-97

* Research Scholar at Department of Philosophy of Delhi University (India), Address: 50, St.Andrew’s Road, Bandra (West), Mumbai – 400 050, India. E-mail: [email protected].

1 Pope JOHN PAUL II, Fides et Ratio, 1998, point 72.

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It is not possible to speak of Indian Philosophy as a single corpus of ideas. Itis more appropriate to speak of Indian philosophies, i.e. the various philosophicalschools developed throughout the centuries on Indian land2. Nevertheless, in spiteof the opposite views existing among these schools, there are some basic conceptswhich are common to all of them:

«The systems of philosophy in India were not stirred up merely by the speculativedemands of the human mind which has a natural inclination for indulging inabstract thought, but by a deep craving after the realization of the religious pur-pose of life. It is surprising to note that the postulates, aims and conditions for sucha realization were found to be identical in all the conflicting systems. Whatevermay be their differences of opinion in other matters, so far as the general postu-lates for the realization of the transcendent state, the summum bonum of life, wereconcerned, all the systems were practically in thorough agreement»3.

Karma, meaning action; jñāna, meaning knowledge; and yoga, meaning amethod or special skill, are some of those basic concepts present in all schools ofIndian philosophy. Combined together they make up two pithy concepts whichare karmayoga and jñānayoga, i.e. a skilful managing of human actions so toattain the final end of man, based on true knowledge of God’s and man’s nature4.

In this paper we will discuss the meaning of karmayoga and jñānayoga in thephilosophy of Rāmānuja, a medieval philosopher from South India5, and thevalidity of these concepts within the framework of Christian philosophy, with par-ticular reference to the concepts of ‘active life’ and ‘contemplative life’ in ThomasAquinas.

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2 The systems of philosophy in India are classified into two classes: the nāstika and the āstika.The nāstika systems do not regard the Vedas (i.e. sacred books of Hinduism) as infallible.They are the Buddhist, the Jaina and the Cārvāka (or school of materialism) system. Theāstika systems are those which regard the Vedas as infallible and establish their own validi-ty on their authority. They are called orthodox schools and are six in number: Sā%khya, Yoga,Vedānta, Mīmāsā, Nyāya and Vaiśe�ika.

3 S. DASGUPTA, A History of Indian Philosophy, Motilal Banarsidass, Delhi 1992, Vol. 1, p. 71.4 The word ‘man’, according to classic usage, means ‘all men and women’ and in this sense it

has been used by Rāmānuja and other philosophers. Because of this fact we prefer in thispaper to keep using the word ‘man’ knowing we include both men and women equally.However, very often we use other terms such as ‘human being’, ‘people’ and so on.

5 Rāmānuja, according to biographers, lived from 1017 to 1137 in South India (present TamilNadu). He belonged to an old theistic school of Vedic origin. His philosophy has its roots inthe Vedantic tradition, wherein the teachings of the Upani�ads have been systematized by theVedānta Sūtras and the Bhagavad Gītā (i.e. the triple text of the Vedānta or Prasthānatraya).As a good ācārya (i.e. master), he wrote commentaries on them: the Vedānta-sāra, Vedānta-dīpa, and Śrī-bhā�ya are commentaries on the Vedānta Sūtras; the Vedārtasamgraha is asummary of the meaning of the Vedas, and the Gītābhā�ya, a commentary on the BhagavadGītā. A manual of worship, the Nityagrantha, is also attributed to him, and another one, theGadyatraya, is of doubtful origin.

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2. Karma in Indian Philosophy

2.1. Karma: Usages and etymology

The Sanskrit word Karma has three usages: action, the law of karma, andmovement6.

The law of Karma goes together with the concept of transmigration (sasāra)and rebirth. Karma, in this sense, means that previous acts determine the condi-tion into which a being, after having enjoyed some reward in heaven or some pun-ishment in hell, is reborn in one form or another. Karma binds the selves of beingsto the world and compels them to be subjected to the cyclic process of births anddeaths.

The word Karma comes from the root k (to do). From k also comes the wordk ti, i.e. voluntary act done by the agent. Therefore, the primary meaning of theword Karma is action.

Karma as action has the capacity of bringing two opposite effects: bondageand liberation. As binding force karma implies the performance of acts withattachment to results, while, as liberating force it implies an attitude of detach-ment in our actions. According to this analysis, we come across in IndianPhilosophy a division of people into two main streams: those who are committedto a life of action (prav ttam Karma7) and those who are committed to a life ofknowledge (niv ttam Karma). Thus, action and knowledge are sometimes seen astwo contrary paths of life and other times as two complementary paths.

2.2. Evolution of the ‘theory of Karma’ in the schools of Indian Philosophy

2.2.1. Pūrva Mīmāsā

The theory of Karma as a path towards liberation begins with the PūrvaMīmāsā School of Indian Philosophy8. The Pūrva Mīmāsā starts with an

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Mariano Iturbe

6 The last meaning refers to motion, which according to Vaiśe�ika doctrine is considered asone of the seven categories of things. «The Vaiśe�ika system is regarded as conducive tothe study of all systems. Its main business is to deal with the categories and to unfold itsatomistic pluralism. A category is called padārtha and the entire universe is reduced to sixor seven padārthas. Padārtha literally means ‘the meaning of a word’ or ‘the object signi-fied by a word’. All objects of knowledge or all reals come under padārtha». ChandradharSHARMA, A Critical Survey of Indian Philosophy, Motilal Banarsidass, Delhi 1991, pp. 175-176.

7 Prav-tti means active worldly life. It refers to the desireless performance of duties pertain-ing to one’s status in life. According to the Gītā the karmayogin gives up desired-promptedactions and performs ‘ni�kāma karma’, i.e. actions in which he gives up the hope of fruit.

8 Basically, Pūrva Mīmāsā gives rules to interpret the commandments of the Vedas and itjustifies philosophically the Vedic ritualism. It has three basic presuppositions: 1. It distin-

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enquiry into the nature of dharma9 made by Jaimini in his Mīmāsā Sūtra (prob-ably written about 200 B.C.). For action they mean rituals. Every action leads tofurther actions constituting a chain of actions and generating some by-product inthe form of apūrva10, part of which is carried after death into the next rebirth ifthe soul is not rettributed. Human being is fully dominated by the law of Karma:Man is in bondage.

Pūrva Mīmāsā School is later on subdivided into two branches named aftertheir founders: Prabhākara School and Kumārila Bha��a School. The school ofPrabhākara attributes greater importance to action than to knowledge, while theone of Kumārila develops the concept of jñāna-karma-samuccaya, i.e. a har-monious combination of knowledge and action as a valid path towards libera-tion.

2.2.2. Vedānta philosophy

Vedānta philosophy inherits this doctrine and its main ethical concern is howto release man from his bondage. Vedānta (i.e. end of the Vedas or Upani�ads) hasthe Vedānta Sūtras, written by Bādarāya/a, as its original authoritative work. It isa summarized statement of the general view of the Upani�ads 11. This text has

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guishes between facts, which are the object of descriptive knowledge (avidyā) and values,which are the object of prescriptive knowledge (vidyā); 2. A prescription (sadhya) should berealizable and conducive to total well being (desirability). Thus, for every end there must bean appropriate means (sādhana, marga or yoga), which is available and accessible; 3. Thereshould be a symbiosis of knowledge (jñāna), will (iccha), action (karma) and result (phala).

9 «Dharma is a very complex concept in the religio-philosophic literature of India. In fact, theauthentic name of Hinduism is Sanātana-dharma, or Eternal Law. The word dharma isderived from the Sanskrit root dh--dharati = to hold fast, uphold, bear, support, keep in dueorder. The etymology itself suggests the real notion of dharma, which is conceived to be thatwhich maintains the universe in due order … The Indian concept of dharma stands for ethics,religion, morality, virtue, spirituality, truth, good conduct and so on; it also stands for natu-ral and positive laws, the moral code, the various distinct duties of the individual. The wholereligio-philosophical and didactic literature of India lays great stress on the necessity ofmaintaining dharma for spiritual realization. All the various systems of Indian thoughtemphasize the observance of dharma as a conditio sine qua non of internal purification lead-ing to eternal bliss … in Vedic literature, instead of dharma, we have -ta». J. KATTACKAL,Religion and ethics in advaita, St. Thomas Apostolic Seminary, Kottayam 1985, p. 43.

10 Apūrva means the remote consequence of human actions. It is the link between every act andits fruit.

11 Upani�ad means ‘esoteric doctrine’ and implies listening closely to the secret doctrines of aspiritual teacher. They are part of the śruti, or revealed word. They try to ascertain the mys-tic sense of the Vedas and they deal with topics such as the origin of the world and the truenature of God, among others.There are more than 100 Upani�ads which are known to us, and one can see an evolution intheir teachings toward the concept of a single Supreme Being with whom man – by way ofknowing – tries to reunite. Each Upani�ad differs much from one another with regard to theircontent and methods of exposition.

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been commented and interpreted in a different way by several philosophers. Someof these commentaries gave origin to the subdivisions of the school: Śa%kara’sAdvaita Vedānta12; Rāmānuja’s Viśi��ādvaita Vedānta or Non-dualist Vedānta;and Madhva’s dualism13.

For Śa%kara, jñāna is the sole means to liberation, while Karma mārga (in thesense of Vedic ritualism) is incapable of leading to final release. The one whoknows Brahman, having his ignorance destroyed by wisdom, becomes Brahman.Liberation can be achieved after death, or even in this world14.

Śa%kara regards as contradictory and against the teachings of the sacred texts(Śāstras), the combination of knowledge and action as a liberating path. For him,the jñāna-karma-samuccaya-vāda should be replaced by jñāna alone. All evilstems from the fact that men are in a state of ignorance, being conscious only ofthe phenomenal world. It is only through jñāna, the intuitive vision of theSupreme Reality, that man transcends the empirical world. Karma and upāsanā(meditation) are subsidiary to knowledge and at most they may be a preparation,by way of purifying one’s own mind, to get that liberating knowledge or jñāna.

2.2.3. Viśi��ādvaita Vedānta philosophy15

Viśi��ādvaita School integrates Karmayoga, jñānayoga, and bhaktiyoga as dif-ferent stages in the progressive realisation of salvation. Rāmānuja, its main rep-resentative, accepts various kinds of action16. The important thing is to perform

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12 Śa%kara (788-820) is the main representative of Advaita Vedānta or non-dualism, the philo-sophical system that affirms the ultimate unity of all beings. He believes in one eternalunchanging reality (Brahman), which is pure consciousness and is devoid of all attributes(nirgu/a). This Brahman (or ātman) is associated with its potency māyā, or avidyā, andappears as the qualified (sagu/a) Brahman (also Īśvara or ‘the Lord’), the creator, preserverand destroyer of this phenomenal world. Māyā is something material and unconscious. It isthe inherent power of Brahman. It is beginningless. It is indefinable for it is neither real (itexists in Brahman), nor unreal (it projects the world of appearances). It has a phenomenaland relative character. It is removable by right knowledge.

13 Madhva (1197-1286) sustains unqualified dualism (dvaita). Difference is the very nature ofthings. To perceive things is to perceive their uniqueness which constitutes difference. Thereare three eternal and real entities: God, souls, and matter, wich are different from each other.Souls and matter do not constitute the body of God, and have substantive existence them-selves.

14 This is the case of jīvan-mukta who is the one who gets released from the law of Karmawhile being physically alive.

15 Rāmānuja settled the bases for this new branch within Vedānta philosophy. Viśi��ādvaita isa compound word made up of advaita (i.e. oneness of being) and viśe�a (attributes).Sometimes it has been erroneously translated as ‘qualified monism’, but it really means‘qualified non-dualism’, i.e. it includes within the unity of the Supreme Self the existence ofmodes or attributes: the whole universe made up of spiritual and material beings.

16 Actions, according to Indian tradition, are classified into:-Bodily (kāyika); -Vocal (vācika); -Mental (mānasa).-Ritual actions; -Non-ritual actions. Ritual acts can be divided into those which are enjoined

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them under the knowledge of the real nature of God. Knowledge and performanceof the duties should go together.

Rāmānuja bases his theory of human action on his understanding of theBhagavad Gītā17, wherein actions are not restricted to those prescribed by thesacred texts. All actions performed by an ordinary person are included in the wordKarma as used in the Gītā.

Action in the Gītā can be identified with duty: it refers to the performance ofaction with an accent on the principle of dharma. The fulfilment of our duties –Karmayoga – becomes a path to liberation.

Indian Philosophy shares one important aim of philosophy, namely, trans-forming human life. Sometimes it appears as if this goal «(is) the sole concern inIndian tradition. This idea of philosophy as a transforming influence is clearlyreflected in the Bhagavad Gītā and is discernible more specifically in its highlyidealised conception of duty»18.

3. The Concept of Ātman

3.1. Meanings of ātman

The human being is an embodied self. In him there are two elements: body andsoul (ātman). Ātman means the individual self. It is also called jīva and, accord-ing to Sā(khyan cosmology, puru�a19. Originally it meant life-breath and gradu-

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(vidhi) and those that are proscribed (ni�edha). Vidhi acts are said to be fourfold: -regulardaily rites (nityakarman); -occasional rites (naimittikakarman); -desired acts (kāmyakarma)(acts which are prescribed for one who wishes to obtain a certain result, say, heaven); -expi-atory actions (prayaścitta).

17 The Bhagavad Gītā is a poem inserted within the Mahābhārata, one of the great epics poemsof ancient India. The central theme of the Mahābhārata is the contest between two noblefamilies – the Pandavas and their blood relatives the Kauravas – for possession of a king-dom in northern India.It is a dialogue between two persons – Lord K-�/a and Arjuna – which takes place while abattle is about to start. The dialogue that emerges from that particular battle is a timeless one,a dialogue that will have an enormous transcendence over the whole history of India and onethat will be the starting point of a deep philosophical analysis with special reference toEthics.The Gītā is the best-known work on Indian literature all over the world. In Europe it was firstmade known through C. Wilkins’ English translation (1785), and was spread mainly throughA.W. Schlegel’s critical edition and Latin translation (1823). See, DE SMET and NEUNER (edi-tors), Religious Hinduism, St Paul’s, Bombay 1996, pp. 279-291.

18 S. GOPALAN, The Concept of Duty in the Bhagavad Gītā: An Analysis, in A. SHARMA (edi-tor), New Essays on the Bhagavad Gītā, Books & Books, New Delhi 1987, p. 1.

19 Sā%khya maintains a total dualism between puru�a and prak-ti (the unintelligent and uncausedroot-cause of all worldly effects). The puru�as are many and all are essentially alike. Prak-tievolves, to serve the purpose of the puru�a, into twenty-four principles. All of these, togeth-er with the puru�a, make up the twenty-five categories, or metaphysical principles.

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ally evolved into the meanings of feeling, mind, soul, and spirit. Ātman means theeternal element existing in each human being. It transcends the boundaries ofhumanity since, due to the law of karma, it can be united to different karmic bod-ies, such as irrational animals and so on.

3.2. Ātman in the Upani�ads

The older Upani�ads20 and the system of Śa%kara understand Brahman-ātmanas the only supreme reality. Ātman is the same Brahman individualised in partic-ular bodily structures due to the law of karma, which is the cause of bondage.

In the later Upani�ads we find another view. There, the individuality of thefinite self is stressed. Brahman resides within this self as ‘Other’. He is unaffect-ed by the imperfections of the finite self. God and the finite self are «in that per-sonal relationship which religious experience demands»21.

3.3. Ātman in the Systems of Indian Philosophy

All the āstika systems of Indian Philosophy admit the existence of ātman, i.e.,a permanent entity which is the essential element of every being.

Even though they differ regarding the exact nature of this ātman, they consid-er it pure and unsullied in the sense that all impurities due to action are attachedto the body but not to the soul.

The summum bonum of life consists in apprehending ātman in its pure naturewithout any of the imperfections attached to it.

3.4. Ātman in Rāmānuja

For Rāmānuja, it is of capital importance to know the nature of the self.However, it is also difficult to get that precious knowledge. The self cannot beperceived by the senses nor conceived of: only by yogic practice and the exerciseof several virtues can man get that knowledge which has been revealed in theśāstras.

The starting point is that the self is absolutely opposite to the body. The self is«…immortal, …free from birth, old age, death and such other material attrib-

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20 The earliest Upani�ads were compiled by 500 B.C., but they continued to be written even aslate as the fourteenth and fifteenth century. B hadāra)yaka, Chāndogya, Taittirīya,Aitareya, Kau�ītākī, and the prose section of Kena are usually regarded as earlier than otherUpani�ads such as Ka�ha, Īśa, Mu)/aka, Maitrī, and Śvetāśvatara.

21 KUMARAPPA, The Hindu Conception of the Deity, Inter-India Publications, Delhi 1979, p. 50.

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utes»22. It is a real mode, or part (amśa), of the Brahman. Several texts show thatRāmānuja maintains a real distinction between God and individual souls. In theŚrībhā�ya he wrote:

«That Brahman which is described in the mantra, ‘True Being, knowledge,infinite is Brahman,’ is proclaimed as the Self-abounding in bliss. And thatBrahman is the Highest Brahman, other than the individual soul»23.

If Brahman were the goal to be achieved by the jīva, then it would be contra-dictory that agent and end are identical. The difference between God and individ-ual selves has always existed: before creation, in the pralaya or unevolved statein which souls have a subtle form; in their present evolved or gross form; and inthe released state when they get some good qualities but yet remain distinct fromGod.

The self is anādi, which is without beginning and consequently without end.The self is eternal. It has eternally existed in Brahman as a mode (prakāra) with-out losing its own individualness.

Nevertheless, the self, in spite of being eternal is not independent from theSupreme Self. Puru�a and prak ti compose the body of God, i.e. they are underhis permanent and total control: «For by reason of its being the body of the Lord,the essential nature of the self finds its joy only in complete dependence on theLord»24.

For Rāmānuja the jīva is an eternal mode of Brahman, and at the same time aseparate entity25. The finite self is a centre of existence of its own, with its prop-er qualities, but also an inseparable attribute of Brahman. For him, the realisationof the proper form of the soul is a propaedeutic step in the process of getting finalrelease. He wrote:

«Those who, through knowledge already taught relating to the distinctionbetween the body and the self, understand the distinction between them, and then,after learning that freedom from arrogance and such other qualities constitute themeans of release from the prak-ti which has evolved into the material elements(constituting the body), put (the qualities) into practice – they, completely freedof bondage, attain the self characterised by unlimited knowledge and abiding inits own form»26.

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22 The Gītābhā�ya of Rāmānuja, Tr. M.R. Sampatkumaran, Rangacharya Memorial Trust,Madras 1969, Chapter XIII, Verse 12, p. 376.

23 Rāmānuja’s Śrībhā�ya: The Vedānta Sūtras with Commentary by Rāmānuja, Tr. G. Thibaut,The Sacred Books of the East, Vol. XLVIII, Motilal Banarsidass, Delhi 1996, I, 1, 16, p. 233.

24 The Gītābhā�ya of Rāmānuja, Chapter XIII, Verse 12, p. 376. God is a personal God, verydifferent from the impersonal Absolute, which is disconnected from reality and for whomthe finite self counts for little.

25 Rāmānuja holds that souls in their subtle form are eternal. Nevertheless he does not explainhow they came into existence. He accepts their eternal existence and, at the same time, theircontinual dependence on God, their inner Sustainer.

26 The Gītābhā�ya of Rāmānuja, Chapter XIII, Verse 34, p. 395.

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4. Mok�a and the Puru�ārthas

Together with karma and ātman there is another basic concept in IndianPhilosophy: mok�a, or final liberation. It is one of the four puru�ārthas, i.e. thoseend-values representing man’s final goal as well as the path towards it.

Human actions, by means of which we relate towards other people, towardsmaterial wealth, and towards our own desires, are regulated by the first threepuru�ārthas, namely, dharma, artha, and kāma. These relations manifest a bond,which is expressed by another word: )a27.

Puru�ārthas are an answer to the question: what then must I do? Dharmameans what I must do in relation to others. My impulses to act, urged by my ownconscience or by an external written or oral law, have to be other-directed. Wegive, but we also expect to receive. This is artha, i.e., attainment of riches orworldly prosperity.

Under the imperatives of dharma, kāma becomes one of the puru�ārthas.Kāma literally means desire, particularly of psychophysical enjoyments. Desire,not understood in an egoistic sense, but considering the wishes of every one else.

Moreover, man is not reduced to this limited and material life but he aspiresmore. Man is conscious of his freedom as well of his boundness. The consciencethat there is something else, permanent, beyond the evanescent world, isexpressed in a desire for final liberation and it refers to the fourth of thepuru�ārthas: mok�a.

Thus, the doctrine of puru�ārthas is a development of the )a theory: we arenot isolated beings. 2)a suggests the obligation man has to make his life con-formed to that order that regulates human society and the universe, namely dhar-ma and ta28.

Looking at the puru�ārthas we see that the life of every being in this world isimperfect and it aspires to something better. Human life is clearly end-oriented.Dharma values lead to mok�a values which implies the «establishment of a soci-ety of perfect individuals wherein the sorrows and sufferings of the world ceaseto exist»29. This is the deeper meaning of mok�a and implies for the individual selfthe following of a rigorous discipline (sādhana), i.e. a serious moral, intellectualand spiritual effort to attain it.

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27 7/a means mutual obligation in a corporate living. It is said that everyone is born with threedebts to pay off: to sages, gods, and the manes; and he who learns the Vedas, offers sacri-fices to gods, and begets a son, becomes an-/a (discharged from all obligations).

28 See footnote 9 where we explain the similarities between dharma and -ta.29 S.R. BHATT, Studies in Rāmānuja Vedānta, Heritage Publications, New Delhi 1975, p. 140.

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5. Main trends of Rāmānuja’s thought

Rāmānuja built up a system of thought in which he tries to answer three basicquestions, namely:

What is ultimate reality? (Doctrine of tattva).What is the Supreme Good? (Doctrine of puru�ārtha)What is the method and way to realise the Supreme God? (Doctrine of hita)30.

If it is true that the central theme of Vedānta is the philosophic enquiry intoBrahman, the Supreme Tattva, it is also correct to say that tattva does not referexclusively to Brahman but also to its modal expressions of cit and acit31. Thus,for Rāmānuja there are three ontological principles organically interconnected:

Jagat: Cosmos, the entire physical world. (Also called acit, unconscious ormaterial)

Jīva: Individual and finite souls. (Also called cit, consciousness) Ī�vara: God.

Ī�vara, or Brahman, is the material cause of all existing beings. Rāmānujaaccepts the theory of satkāryavāda which says that the effects (Kārya) pre-existin the causal substance itself. They are nothing else but an alteration or rearrange-ment of the cause. Nevertheless they are absolutely real, because causality impliesproduction of a new state32.

Jagat and Jīva constitute the body of the infinite spirit of Brahman. Initiallythey are in a subtle or unmanifested form but subsequently, in a gross or mani-fested form (i.e. the numerous forms of life).

The reason behind this enquiry is not purely intellectual. Rāmānuja, as a goodVedāntin, wants to know tattva in order to attain it. The metaphysical object ofknowledge becomes a moral goal in life. Knowledge gives way to wisdom.

Finite souls are under the law of Karma and therefore during the period of its

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30 After Rāmānuja’s death, Viśi��ādvaita split into two different schools: the Vadakalai sect,represented by Vedānta Deśika (Died in 1369) and the Tenkalai sect, represented by Pi99aiLokāchārya (Died in 1327). There are several points of difference between both Schoolswhich are not very fundamental, and which can be reduced to only one problem, namely therelation between Grace of God and human acts in the efforts to attain final release. In spiteof the differences, they have in common the devotion to Vi�/u as the All-Self and UniversalRedeemer. For a detailed analysis of these differences see SRINIVASACHARI, The Philosophyof Viśi��ādvaita, The Adyar Library and Research Centre, Madras 1978, pp. 521-542, espe-cially pp. 536-542.

31 Cit expresses the spiritual order of the universe in its subtle or causal state, while acit meansthe material one.

32 «Causation is nothing but a manifestation, a manifestation from latent to patent and again frompatent to latent... It is nothing but a change of state in one substance. Cause and effect are onlydifferent successive stages that a substance undergoes... All things are eternal and form a partof Brahman, who is the abode of all and abides in all». S.R. BHATT, o.c., pp. 92-93.

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bondage in sasāra are attached to a particular body. Nevertheless, both of themare different.

The main characteristic of the soul is the one of consciousness. Jīva is a know-er, endowed with intelligence, by which he can know the rest of reality, i.e. nature,other selves and God, and with self-consciousness.

All souls are inseparable united (ap thaksiddhi) among themselves and withGod. This special unity is the pivot on which Rāmānuja’s thought turns. It is aninternal relation, which implies a necessary dependence of one another33.

The Supreme Absolute together with the entire universe may be described as anorganic unity, like the one of a living organism, in which one element predominatesover and controls the rest of them. Immersed in that whole, and without losing theirown individuality one can find intelligent entities which are under a particular law,the law of karma, limited in their own capacities. Those entities are the finite soulsthat according to the law of karma, are embodied in a particular way, such as minorgods, demon, man, animal or nature. The created universe and God are one34.

God is filled with love for the soul. He leads him by different ways to a life ofhappiness by granting him, in due time, final release.

The finite soul, on the other hand, by his devotion to this loveable God, togeth-er with his knowledge and actions, co-operates with God’s grace in the attainmentof final liberation.

Human action plays an important role within Rāmānuja’s philosophy, buthuman action cannot be separated from these metaphysical and theological pre-suppositions.

6. Nature of human action in Rāmānuja

The key topic for Rāmānuja is to know how a human action becomes a path-way for release instead of being a cause of perpetuating the life of bondage. At thebeginning of the Vedārthasagraha, he sums up the different stages of the soulthat goes from transmigration in bondage (sasāra) to the final attainment of per-fect bliss. He says:

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33 «He (i.e. that yogin), seeing his own self as similar to Me, always remains within sight toMe also when I am seeing Myself, because of similarity with Me». The Gītābhā�ya ofRāmānuja, Chapter VI, Verse 31, p. 181.

34 Was Rāmānuja a Pantheist? Several scholars have studied this question. We agree with Fr.De Smet that in spite of being highly personal, the God of Rāmānuja is not supposed to becomplete without his modes. It seems to fall short of that radical transcendence which is themark of divine personality. A term introduced by Karl Krause in the early nineteenth centu-ry – Panentheism – could be applied to Rāmānuja’s concept of God and nature.«Panentheism views all things as being in God without exhausting his infinity. It…consid-ers God as having accidents really distinct from his substance». DE SMET, Rāmānuja,Pantheist or Panentheist?, «Annals of the Bhandarkar Oriental Research Institute», Poona1977-1978, p. 563.

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«True knowledge of the individual soul35 and of the Supreme Spirit, applied to theobligations imposed by the various dharmas pertaining to each stage and stationof life36, are to precede pious and humble acts of devotion for and meditation onthe Supreme Spirit – acts held extremely dear by the devotee – that ultimatelyresult in the attainment of the Supreme Spirit»37.

6.1. The doctrine of Karmayoga

Man should attempt to attain self-knowledge by means of a special discipline(sādhana) made up of two elements, karmayoga (action) and jñānayoga (knowl-edge); then, he is able to contemplate God through bhakti (lovely devotion).

Karmayoga is a discipline that refers to the management of actions, i.e. howto perform them so they become real means for achieving our final end.

For Rāmānuja the relation between knowledge and action, i.e. the relationbetween jñānayoga and karmayoga is not a relation of two different paths sepa-rated from each other. On the contrary, knowledge and action are interrelated andmutually dependent38.

Because of this interrelation, we are not surprised to see that karmayoga hasits roots in association with a particular attitude of mind, the need for which isemphasised many times in the Gītā. That attitude of mind – the one of a personwho is ‘steady in mind’ (sthitaprajña) – refers not to the process of knowledgeabout the true nature of the self but to the determined conviction we arrived atbecause of that knowledge. It refers to the principle of equable reason.

To be certain about the presence of two distinguishable elements in man givesus the necessary equanimity of spirit to face the various conflicting situations inwhich sometimes we find ourselves. Those situations, any kind of action, carrywithin themselves the ambivalent values of pleasure and pain. Thus only afterhaving realised the imperishability of the puru�a we become equable towards allthe different circumstances of our life. This principle of equanimity of mind is thefundamental basis of the philosophy of karmayoga and it is achievable by any oneirrespective of his situation in life.

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35 Jīvātman: The individualised ātman in natural conjunction with the body.36 Var/āśrama: var/a refers to a social order founded on religious law (the four castes:Brāhman, K�atriya, Vaiśya, and Śūdra); while āśrama refers to the ideal life-periods estab-lished by the Law of Manu for the Brahmāns, such as: brahmacārīn (boy initiated into thestudy of the Vedas under his spiritual preceptor); g-hastha (the householder or paterfamil-ias); vānaprastha (the anchorite who, retired from public life, lives in the forest praying andfasting); samnyāsīn (the religious mendicant, retired from all social and marital life).

37 Rāmānuja’s Vedārthasamgraha: Introduction, critical edition, and annotated translation, J.A.B. Van Buitenen, Deccan College Monograph Series 16, Poona 1992, § 3.

38 «Karmayoga presupposes jñānayoga and jñānayoga includes karmayoga... The two can bedistinguished but not separated. Hence there must be a blending (samuccaya) of the two».S.R. BHATT, o.c., p. 147.

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Karmayoga does not refer to any kind of particular action. Karmayoga is ageneric concept that applies to the way we perform actions and the motivationexisting behind them. The Gītā says: «To work alone is your right and never tothe fruits (thereof). Do not become (i.e. do not regard yourself as) the cause ofwork and (its) fruit, nor have attachment to inaction»39. This verse has forRāmānuja a transcendental importance because of the truths revealed in it. Let usanalyse each of its sentences:

• ‘To work alone is your right’: A person like Arjuna, who represents humanityin search of spiritual freedom, has the right, which is at the same time an obliga-tion linked to his situation in life, to act. That means he should not renounce action.

• ‘And never to the fruits’: That person should not be concerned with the fruitsof actions. The word ‘fruits’ is a key word in the understanding of Karmayoga andit is closely related to the concept of divine and human agency. We can say that afruit is something that belongs to someone who is the real agent of the action, butnot to someone who only performs an action. For that reason the Gītā says ‘do notbecome...the cause of work and (its) fruit’. It also refers to the motivation or rec-titude of intention with which we perform our actions.

• ‘Nor have attachment to inaction’: The verse finishes by putting moreemphasis in the importance of working. Thus, the message is that no one shouldgive up work.

Work is an obligation for every man, but we have to work with a particular dis-position in mind consisting in a «skill in performing works which producesbondage in such a way as to win salvation»40.

6.2. The concept of binding action

The important matter to clarify is why an action can lead either to bondage orto release. Why is it that an action normally has the effect of binding the agents?To begin with we can distinguish four general consequences of action41:

1) Action creates a tendency in the agent to repeat it. An action is somethingthat – if repeated several times – creates a habit that could be good (i.e. virtue) orbad (i.e. vice). A habit is a stable disposition that impels us to act easily, in a par-ticular way. The path to acquire or to lose that habit consists in repetition of acts.This is the meaning of an action creating a tendency to repeat the same act.

2) If the action is wrong «it renders the agent unfit to try out better ways»42.By the law of karma the accumulation of the effects of all past actions influenceour present situation in life.

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39 Bhagavad Gītā, Chapter II, Verse 47.40 The Gītābhā�ya of Rāmānuja, Chapter II, Verse 50, p. 57.41 We follow here the work of Raghavachar, Rāmānuja on the Gītā, Advaita Ashrama, Calcutta

1991, p. 35.42 Ibidem.

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3) Action produces consequences like pleasure and pain, happiness and mis-ery. And we have already mentioned how these feelings can affect a person whois devoid of a real knowledge of the self.

4) Action curtails the power of knowledge in a way that a person does notachieve that equanimity of mind so necessary for the practice of karmayoga.

All these effects of action are constitutive of bondage so the question is: howdoes an action become a pathway for release? Or, what are the conditions neededfor an action to become a means of final liberation instead of being the cause ofperpetuating the life of bondage?

6.3. Human action as sacrifice

To perform an action in the spirit of karmayoga means to convert it into a sac-rificial43 act by giving up its fruits. The ideal action is a desireless one (Ni�kāma-karma44) which is a non-binding action. The binding factor is not the action itself,but the motivation behind it. Rāmānuja wrote:

«This world becomes subject to the bondage of karma (through subtle impressions),when work … is performed, serving selfish purposes. Therefore, for the purpose ofsacrifice, do you perform works… There, whatever attachment exists because of itsbeing the means for accomplishing selfish purposes, become free from that attach-ment and carry out that (work). When work is thus done for the purpose of sacrificesand other works (prescribed by the śāstras), by one free from attachment, theSupreme Person (Paramapuru�a), pleased by sacrifices and such other works,bestows on him the undisturbed vision of the self, after eradicating the subtle impres-sions of karma of that person which have continued from time immemorial»45.

For Rāmānuja the word ‘sacrifice’ is not restricted to sacrificial rituals butcomprehends any kind of action. To act for the purpose of sacrifice means that ouractions in their final end are performed to honour God, to Whom we offer our life,with all its actions, in order to attain Him. A real human action is one leadingtowards final liberation and consisting of a sacrifice expressed in the renunciationthe fruits of our actions, offered to the Supreme God as a hymn of praise to Him.

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43 The concept of yajña, or sacrifice, as expression of an action performed in the spirit of kar-mayoga, is introduced in the Gītā in chapter III, verses 9 to 16. Yajña means sacrifice and itis regarded as the means for obtaining power over this and the other world, and over all crea-tures. In the Gītā, it serves to clarify the way works have to be performed in the authenticspirit of karmayoga.

44 All actions fall into a twofold division: kāmya-karma, or desire-prompted action (performedwith hope of fruit), and Ni�kāma-karma, or desireless action (performed giving up the hopeof fruit).

45 The Gītābhā�ya of Rāmānuja, Chapter III, Verse 9, p. 82.

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7. ‘Active life’ and ‘contemplative life’ in Aquinas

7.1. Aquinas’ Anthropology

Thomas Aquinas in his Summa Theologica follows a logical sequence in theway he studies the different existing beings.

First of all, he deals with the Supreme Being, i.e. God. His purpose is toexplain what kind of knowledge we can get of God as He is in Himself. Thus, Godis seen in his unity and Trinity. Aquinas considers God as the self-subsistingBeing (Ipsum Esse Subsistens), the First Being who possesses being in the mostperfect way.

Next, Aquinas proceeds to consider the procession of creatures from God. It isa basic tenet of Christian dogma that God is Creator of whatever exists in heavenand earth. At the beginning of the ‘Treatise on the Creation’, he writes:

«It must be said that every being in any way existing is from God. For whatever isfound in anything by participation, must be caused in it by that to which it belongsessentially, as iron becomes ignited by fire. … Therefore all beings apart from Godare not their own being, but are beings by participation. Therefore it must be that allthings which are diversified by the diverse participation of being, so as to be more orless perfect, are caused by one First Being, Who possesses being most perfectly»46.

God is the first cause of all things, including primary matter47 and spiritualsouls. All created beings are finite and contingent, owing their existence to thenecessary Being.

In the case of human being we have a creature composed of a spiritual and cor-poreal substance48.

The soul, for Aquinas, is considered to be the first principle of life of thosethings that live. It is incorporeal and subsistent. This conclusion can be drawnfrom the fact that it has an operation which is per se apart from the body: thisoperation is called ‘act of understanding’.

As a contrast to this, we have the operations of the sensitive soul, which areproper both to human beings and brute animals. They are always accompaniedwith bodily changes. They are not per se operations and consequently they are notoperations of a subsistent soul but of a composite of body and soul49.

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46 Summa Theologica, Christian Classics, Allen 1981, I, q. 44, a. 1.47 Aquinas denies the existence of anything outside the creative power of God. He says,

«Therefore whatever is the cause of things considered as beings, must be the cause of things,not only according as they are such by accidental forms, nor according as they are these bysubstantial forms, but also according to all that belongs to their being at all in any way. Andthus it is necessary to say that also primary matter is created by the universal cause ofthings». Summa Theologica, I, q. 44, a. 2.

48 See Summa Theologica, I, q. 75.49 Aquinas mentions the doctrine of the Pre-Socratic philosophers. For them there was no dis-

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God created the soul of man out of nothing, as a spiritual principle giving lifeto the material body. Soul is not eternal but it is immortal to the extent that it tran-scends the perishability of the human body. The immortality of the soul followsfrom its own proper nature and it «is not simply gratuitous, save in the sense thatits very existence, like the existence of any other creature, is gratuitous»50.

The essence of man cannot be reduced either to his soul or to his body. Bothelements are integral parts of him, and they belong to his species.

The union between body and soul is a union of matter and form (substantialform). Body and soul are really distinct parts of man. They have the same uniqueact of substantial existence, namely, the life of a living body. They are one being,one entity absolutely speaking, and not two different entities. According toAquinas’ terminology, the entire substance is known as ‘being’ in the primary,unqualified sense of being. The essential parts of this being, i.e. its matter andsubstantial form, are also called beings, but in a secondary sense.

Man, according to Aquinas, is a rational being whose last end is the attainmentof happiness. It is clear that every person wants to be happy and the question is ofwhat things happiness consists of. His Christian background provides him withthe datum that the last end of human being is something supernatural, i.e., theattainment of divine vision51.

7.2. Action and Contemplation

Thomas Aquinas has also dealt with human action as an instrument to obtainman’s final end of life52. His treatise on it runs throughout the entire second partof the Summa Theologica. There, Aquinas gives a full theory which, to the lastdetail, analyses action in general and in particular. Every factor has been takeninto account. There we find a detailed study of man as image of God, who is the

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tinction between sense and intellect since the principle of all human actions was somethingcorporeal. Later, Plato had the great insight of teaching about an incorporeal principle ofboth sensing and understanding, i.e. soul. He drew a distinction between sensitive knowl-edge and rational knowledge, but linked both functions to the same subsistent soul. For him,man is a soul which makes use of a body. Aristotle, on his part, stated that, among all theoperations of the soul, understanding is the only one to be performed without a corporealorgan. See, Summa Theologica, I, q. 75, a. 3.

50 F. COPLESTON, A History of Philosophy, Volume II, Image Books, New York 1993, p. 384.51 For Aquinas the existence of man has been marked by the Christian dogma of Original Sin,

a specific inherited fault which has affected the entire life of man and his relation to otherpeople and to God. Unlike the law of karma, original sin is not the cause of the union of bodyand soul; rather the lack of harmony between both elements is the effect of original sin.

52 At the beginning of question 6 of the Prima secundae dealing with the “Voluntary and theInvoluntary” Aquinas says: «Since therefore Happiness is to be gained by means of certainacts, we must in due sequence consider human acts, in order to know by what acts we mayobtain Happiness, and by what acts we are prevented from obtaining it».

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agent, «the principle of his actions, as having free will and control of hisactions»53.

At the end of the Secunda secundae Aquinas deals with the classic division ofhuman life, as deriving its form from the intellect, into active and contemplative.It is a relevant topic for us, considering its similarities with the discussion presentin Rāmānuja about the validity of karmayoga and jñānayoga as effective pathstowards the achievement of man’s final end. Aquinas says:

«All the occupations of human actions, if directed to the requirements of the pres-ent life in accord with right reason, belong to the active life which provides for thenecessities of the present life by means of well-ordered activity… Those humanoccupations that are directed to the consideration of truth belong to the contem-plative life»54.

It was common during the Middle Ages in Europe to discuss this matter whichhas, in fact, Aristotelian roots. Some scholars made a sharp division between bothpaths as if it would be possible to consider them as two mutually exclusive ways.Aquinas opted for a middle path following the logic of his theory of action inwhich the powers of the soul, namely will and intelligence, act jointly.

First of all, Aquinas stresses that contemplative life does not pertain wholly tothe intellect, for the simple reason that only the will can move all the other pow-ers, including the intellect, to their actions. He wrote, «the contemplative life hasalso something to do with the affective or appetitive power»55. If to contemplatemeans to consider the truth, then that act is motivated by the intention of my willto get that appetitive good.

Aquinas explains that contemplative life is not at all separated from the prac-tice of good external actions, i.e. moral virtues. It is true that a life of contempla-tion refrains from external actions and that moral virtues do not belong to the con-templative act in itself. However moral virtues positively contribute to a life ofcontemplation to which they belong secondarily, or dispositively. Contemplativelife is hindered both by the passions and by external disturbances. «Now the moralvirtues curb the impetuosity of the passions, and quell the disturbance of outwardoccupations»56. Thus active life – or, better said, the practice of good externalworks – is a disposition to the contemplative life57.

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53 Summa Theologica, I-II, Prologue.54 Summa Theologica, II-II, q. 179, a. 2, ad 3.55 Summa Theologica, II-II, q. 180, a. 1.56 Summa Theologica, II-II, q. 180, a. 2.57 Aquinas links the relation “active-contemplative life” to the concept of the beautiful. God,

our Supreme object of contemplation, is beautiful, «as being the cause of the harmony andclarity of the universe». Summa Theologica, II-II, q. 145, a. 2. We apply the adjective beau-tiful to a body having his limbs well proportioned together with certain clarity of colour, and,similarly, we speak of spiritual beauty as standing for moral beauty, consisting in human

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Active life, or the practice of human actions, can be considered from two dif-ferent angles. One is to look at it as the mere practice of external actions. In thiscase if there is no effort required for practising virtue, then the external act is ahindrance to the life of contemplation. The other way is to consider it as the exer-cise of those moral virtues that leads to the knowledge of and delight in the Divinetruth. Quoting St. Gregory58 Aquinas says, «Those who wish to hold the fortressof contemplation must first of all train in the camp of action»59.

Active life is the path towards final contemplation in this earth and in the after-life. It is also the necessary path for many people. For most human beings, con-templation and activity should be wisely combined. Rather than opposing oneway of life to the other it is a matter of joining both of them. Thus, «when a per-son is called from the contemplative to the active life, this is done by way not ofsubtraction but of addition»60. Contemplative life precedes the active life withregard to its nature because it consists in actually knowing and delighting in theSupreme truth. But this contemplation should move and direct the active life.Active life «comes first in the order of generation. In this way the active precedesthe contemplative life, because it disposes one to it»61.

In addition, active life is necessary for our relation with our neighbours. Weare not isolated beings but people belonging to a concrete community in which wehave social responsibilities. We cannot omit our social commitments by relyingon a false spirit of contemplation. Once again Aquinas quotes Gregory, this timefrom his Homily on Ezekiel:

«Without the contemplative life it is possible to enter the heavenly kingdom, pro-vided one omit not the good actions we are able to do; but we cannot enter there-in without the active life, if we neglect to do the good we can do»62.

Contemplative life is a path leading to our final end, namely knowledge andpossession of God. It could be achieved imperfectly in this life and perfectlyonly after death when we shall see God face to face. However, already in thislife, contemplative life bestows on us a certain inchoate beatitude, which willbe continued in the life to come. «Wherefore the Philosopher (Ethic. X. 7)places man’s ultimate happiness in the contemplation of the supreme intelligi-ble good»63.

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actions being well proportioned according to the clarity given by the order of reason, i.e. thepractice of moral virtues. Therefore, beauty is found principally in the contemplative lifewhich is an act of reason, but also «beauty is in the moral virtues by participation, in so faras they participate in the order of reason». Summa Theologica, II-II, q. 180, a. 2, ad 3.

58 Aquinas quotes largely from his Moralium Libri xxxv, or Commentary on the Book of Job.59 Summa Theologica, II-II, q. 182, a. 3.60 Summa Theologica, II-II, q. 182, a. 1, ad 3. 61 Summa Theologica, II-II, q. 182, a. 4.62 Summa Theologica, II-II, q. 182, a. 4, ad 1.63 Summa Theologica, II-II, q. 180, a. 4.

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In itself contemplation is more perfect than external action. However bothshould interact in a way that both go together. Aquinas concludes his analysis ofthese two kinds of life by saying:

«…those who are more adapted to the active life can prepare themselves for thecontemplative by the practice of the active life; while none the less, those who aremore adapted to the contemplative life can take upon themselves the works of theactive life, so as to become yet more apt for contemplation»64.

In the interaction between external activity and contemplation we find amotive cause which is essentially ‘love’. Our appetitive power moves us to lookat things either for love of the things seen or for love of the very knowledge weget by observation. Action leads us to contemplation and we act because we loveand our love increases when we act.

8. Conclusion

The theories we are comparing touch upon the distinction and mutual rela-tionship between two types of life or, to put it in a different way, two differentapproaches to life. Rāmānuja calls them karmayoga and jñānayoga, whileAquinas applies to them the terms ‘active life’ and ‘contemplative life’. We can-not fully equate these concepts but we can affirm they have many points in com-mon.

First of all we have to consider these theories in a bigger framework by look-ing at some fundamental notions such as the nature of Supreme Being and humanbeing, which are their base.

Rāmānuja and Aquinas consider the Supreme Being as full of perfections andqualities, the source of all beings, and cause of every effect. However they under-stand the God-world relation differently.

For Rāmānuja, God is the material cause of the universe. He also exists in theeffects, though in a different way (theory of satkārya-vāda). Cause and effect aredifferent realities making a unity with God. Creatures are modes of God and theyexist in God as a metaphysical accident which is distinct but inseparable from itssubstance.

Rāmānuja affirms the co-existence of the Supreme Brahman together withnon-sentient matter, or prak ti, and the intelligent souls, or puru�a. There is noconcept of creation ex nihilo in Rāmānuja, but there is the affirmation thatBrahman is the universal cause of whatever exists. Matter and spirit constitute thebody of Brahman in the sense of being completely subordinated to him.

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64 Summa Theologica, II-II, q. 182, a. 4, ad 3.

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«We by no means abandon our tenet that Brahman the cause modifies itself soas to assume the form of a world differing from it in character. For such is thecase with the honey and the worms also. There is difference of characteristics,but – as in the case of gold and golden bracelets – there is oneness of sub-stance»65.

For Aquinas, God is Creator, i.e. efficient and final cause of the entire uni-verse. All the effects exist as absolutely different beings, although depending onHim. He draws from the Christian’s concept of creation, which is a concept of cre-ation ex-nihilo. The world does not enter into a real composition with the Creator:there is an infinite distance between God – Pure Actuality – and his creatures, inwhich there is a mix of potentiality and actuality. Every creature takes part, byparticipation, in the being of the Supreme Being but it is not that Supreme Being.The absolute transcendence of God in relation to all created beings is a main char-acteristic of Aquinas’ doctrine. He wrote:

«Hence if the emanation of the whole universal being from the first principle beconsidered, it is impossible that any being should be presupposed before this ema-nation. For nothing is the same as no being. Therefore as the generation of a manis from the not being which is not-man, so creation, which is the emanation of allbeing, is from the not being which is nothing»66.

Regarding their concept of man, both thinkers state the presence of two dif-ferent elements in it, namely body and soul, or matter and spirit, which are unit-ed forming one being with capacity of interacting with the external world throughhis organs of action, knowledge, and volition.

They consider man as a rational and free agent, one who has the power ofknowing the essence of the objects surrounding him and who is self-master of hisactions. This agent is oriented towards a final end, and all his actions are supposedto be the means to reach that goal.

Rāmānuja’s concept of body is linked to the eternal and primordial matter, i.e.prak ti, which evolves under the guidance of the Supreme Self. Body is a sub-stance of purely instrumental nature, fully under the dominion of the spiritual ele-ment of man, i.e. the soul, puru�a, or jīva, the eternal individual self, which is themost true and permanent element within man. Body does not belong to theessence of jīva and it will not remain after final release.

Puru�a is the real doer, the one who acts through his relation to a body.Therefore, man is an embodied soul, an eternal soul united to a body because ofa beginningless law of karma, which has a redemptive purpose. Man is destined

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65 Rāmānuja’s Śrībhā�ya, II, 1, 7, pp. 418-419.66 Summa Theologica, I, q. 45, a. 1. Aquinas uses the word “emanation” as meaning “creation”.

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to attain liberation from bondage, i.e. to get free from his karmic body, and con-sequently enjoy perpetual bliss67.

For Aquinas, body is the material element substantially united to the soul,which is the substantial form. Both are united making up a single compositebeing, i.e. human being. He maintains that man has been created in his body andin his soul.

In Aquinas we find a harmonic relation between human body and soul. Froma metaphysical point of view that harmony lies on the Aristotelian concept of sub-stantial union. Matter and form have a metaphysical tendency to be united, whichremains forever.

We cannot label Rāmānuja as dualistic. Even though matter and soul are dif-ferent elements, they are interrelated in a harmonic way. Rāmānuja did not havethe Aristotelian’s background of Aquinas, and thus he was unable to speak interms of substantial union between form (soul) and matter (body). Neverthelesswe are not here facing a case of accidental union.

We can explain the union of body and soul with a negative cause: a deception.The puru�a – individual self – mistakes himself for a material self. Thus, from thepuru�a point of view the union is a deficiency. However, when you look at thepresent condition of man you see a harmonic relation between both elements.Man is an embodied soul in which the body is completely dependant upon thespiritual soul and under his dominion. The soul is an agent that consciously directsthe body, its perfect instrument. This is an important remark because, even thoughthe body is considered from a negative point of view, in the whole theory ofRāmānuja its mission as a useful instrument is underlined.

For Rāmānuja man is an uncreated soul united to a karmic body while in thestate of samsāra. Each soul is a sort of uniform spiritual monad, which experi-ences changes in its degree of knowledge – essential attribute – because of thebeginningless process of causation known as the law of karma68.

Regarding the ends of human life, Rāmānuja assumes the doctrine of

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67 The Gītā says, «Do you know both prak ti and the soul to be without beginning?» See, XIII,19. God has not created prak ti and puru�a though they form his body, like an accidentinhering on the divine substance, and they are under complete subordination to Him.Brahman, for Rāmānuja, is essentially different from the created world. He is all-powerfuland out of sport arranges the entire creation from the eternal uncreated realities of prak tiand puru�a, according to the beginningless law of karma affecting each and every individ-ual soul.

68 In this universe man cannot be seen as occupying a place of special privilege in it. The ideaof a hierarchy of beings is foreign to Rāmānuja thought, while it is a central concept toAquinas’ world vision: «Hence in natural things species seem to be arranged in degrees; asthe mixed things are more perfect than the elements, and plants than minerals, and animalsthan plants, and men than other animals; … Therefore, as the divine wisdom is the cause ofthe distinction of things for the sake of the perfection of the universe, so is it the cause ofinequality. For the universe would not be perfect if only one grade of goodness were foundin things». Summa Theologica, I, q. 47, a. 2.

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puru�ārthas which was prevalent in Indian Philosophy. In it we find a balancebetween the ends of this life – kāma, artha, and dharma – and the last end, or lib-eration – mok�a. The first three ends are ‘this-worldly ends’ while the last one is‘other-worldly end’, i.e., divine vision.

Aquinas, assuming his Aristotelian influence, states that the last end of ouractions is the attainment of happiness, or eudaimonia, consisting in the vision ofGod.

Even though both authors agree that to achieve divine vision is the final endof man, an important distinction should be mode. For Aquinas, the vision of Godcompletely exceeds the natural human capacity. Man needs a special supernaturalhelp – namely, divine grace – to attain it. On the contrary, for Rāmānuja manattains his final end of life by getting full understanding of his own nature as aneternal mode of God. This can only happen once the soul is fully released fromhis karmic body. A clear distinction between natural and supernatural order is notfound in Rāmānuja’s writings.

In the effort for attaining the final end of human life we find the two paths ofknowledge and action. We can look at them as opposing each other, or as inter-mingling to the point of becoming one in need of the other. That seems to be theapproach of both Rāmānuja and Aquinas.

The path of contemplation or knowledge is higher than the path of actionbecause it is an act of our highest capacity, namely intelligence. For Rāmānuja,jñānayoga implies putting into practice a particular technique of concentration inorder to get knowledge of the self in its pure nature, i.e. as a mode of God. It is along and arduous process which demands the conquering of the senses and can-not be done without God’s help. Therefore, in theory, jñānayoga is loftier thankarmayoga, but in practice the latter is easier to follow and more effective in itsresults. Thus, more than two incompatible paths, we see in them two aspects ofone’s own effort, i.e. to act with detachment of the fruits, while having clearknowledge about our own nature and relation to the Supreme Person.

Aquinas, relying on Aristotle and on Sacred Scriptures, also considers con-templative life to be more excellent than active life. However, he accepts that veryoften there are reasons compelling people to prefer the active life on account ofthe various needs of daily life69. Contemplative life is of greater merit but activelife has enough merit to reach man’s final goal. In the end what makes the differ-ence is the love man puts in his actions, i.e. in how he refers all his actions to hisCreator. Thus, Aquinas says,

«…it may happen that one man merits more by the works of the active life thananother by the works of the contemplative life. For instance through excess ofDivine love a man may now and then suffer separation from the sweetness of

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69 Aquinas quotes Aristotle who in Topics iii. 2 wrote: «It is better to be wise than to be rich,yet for one who is in need, it is better to be rich». See Summa Theologica, II-II, q. 182, a. 1.

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Divine contemplation for the time being, that God’s will may be done and for Hisglory’s sake»70.

This statement of Aquinas could have perfectly fitted into Rāmānuja’sGītābhā�ya. Chapter five of the Gītā starts with the startling question posed byArjuna to K �)a: «You praise, O K �)a, the giving up of works and again (the)yoga (of works). Of these, tell me which one is well ascertained to be preferable?».Jñānayoga and karmayoga are both praised in the previous chapters of the Gītāand it seems that karmayoga is to be preferable by reason of ease in practice andquickness in results. The whole chapter discusses the possible answer and, withoutdiscarding any of the two paths, it seems to give pre-eminence from a practicalpoint of view to the path of action. This karmayoga based on the practice of all kindof actions, with a clear knowledge of the self, is an effective way. It becomes likean act of worship to God. Rāmānuja says at the end of the chapter:

«knowing Me as the Great Lord of all the worlds and as the friend of all andregarding karmayoga as of the nature of My worship, he becomes engaged in ithappily. Such is the meaning. All creatures, indeed, strive to please a friend»71.

In Rāmānuja the interconnection between the path of action and the path ofknowledge is clearly seen. Karmayoga is a necessary preparation for knowledge.There is a blending (samuccaya) of the two in a way that karmayoga implies hav-ing the knowledge of the nature of the self proper to Jñānayoga and this knowl-edge includes the practice of action with detachment of its fruits.

In the Gītā the practice of several virtues are enunciated to the seeker of God72.Especially important it is the performance of exemplary virtues for those whohave a leading role in society.

For Rāmānuja and for Aquinas there is a clear appreciation for the path ofaction, as something needed for our present condition of life and as a preparationfor our final goal, i.e. the union with God through love. Rāmānuja recommendsthe practice of actions united to the one of knowledge. This recommendation fitsperfectly well within the system of a Christian author such as Aquinas. We canbring forward two quotations which are a clear proof of this conclusion. In themwe distinguish their author due to their different terminology and distinct style:the content is basically the same.

The first quotation is from Aquinas who wrote at the end of the questions ofthe Summa comprising his analysis on the two types of life, i.e. active and con-templative:

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70 Summa Theologica, II-II, q. 182, a. 2.71 The Gītābhā�ya of Rāmānuja, Chapter V, Verse 29, p. 163.72 See The Gītābhā�ya of Rāmānuja, Chapter XVI.

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«…Those who are more adapted to the active life can prepare themselves for thecontemplative by the practice of the active life; while nonetheless, those who aremore adapted to the contemplative life can take upon themselves the works of theactive life, so as to become yet more apt for contemplation»73.

The second quotation comes from the fifth chapter of Rāmānuja’s Gītābhā�yawhere he does a brief summary of what was explained throughout the previouschapters:

«In the second chapter, You have shown that karmayoga alone should be first prac-tised by the aspirant after mok�a and that the vision of the self should be effectedby means of Jñānayoga by one whose mind has its impurities rubbed off by kar-mayoga. Again, in the third and fourth chapters, You praise the discipline of karmato the effect that the discipline of karma is better even for one who has reached thestage of being qualified for Jñānayoga…»74.

Rāmānuja and Aquinas agree that knowledge and action should go together inhuman actions. We insist that for them what really matters it is to attain finalrelease. Consequently, the key issue is to know clearly how an action should beperformed.

It is remarkable to see how two thinkers, in spite of their belonging to very dif-ferent cultural milieus, coincide in many basic points. It is true that their religiousbackground has influenced their understanding of fundamental issues regardingGod, man and the world. Nevertheless, we find in their intellectual efforts and intheir sincerity of life a clear proof that in man there is an innate capacity toachieve truth regarding his nature and his relation with the Supreme Being.

We finish this paper with a quotation from Rāmānuja’s Gītābhā�ya whichsomehow summarizes whatever we have said throughout these pages.

«Do all actions, secular as well as religious, in such a way that the roles of beingthe doer, enjoyer (of fruits) and object of worship (therein) are made over to Me …you, the performer and enjoyer (of the fruits) of rituals, belong to Me and have(your and their) essential nature, continued existence and activity dependent on Me.Only to Me, therefore, who am the Supreme owner and the Supreme agent, offereverything – yourself as the agent, enjoyer (of fruits) and worshipper … Moved byindescribable devotion, meditate on finding your sole delight in subservience to anddependence on Me, on account of your being subject to My control…»75.

* * *

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73 Summa Theologica, II-II, q. 182, a. 4, ad 3.74 The Gītābhā�ya of Rāmānuja, Chapter V, Verse 1, pp. 142-143.75 The Gītābhā�ya of Rāmānuja, Chapter IX, Verse 27, pp. 268-269.

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Abstract: The Papal Encyclical Fides et Ratio has recommended a dialoguebetween Eastern and Western philosophy. Karmayoga (skilful management ofactions) and jñānayoga (true knowledge of God and man) according to Rāmānuja(main representative of the Viśi��ādvaita Vedānta School of Indian Philosophy)can be fruitfully compared with the doctrine of active and contemplative life inThomas Aquinas. The Sanskrit word Karma primarily means action. Karmabrings bondage or liberation. Rāmānuja integrates Karmayoga, jñānayoga andbhaktiyoga (devotion to God) as different stages in the progressive realisation ofsalvation. Human being is an embodied self made up of body and soul (ātman),united due to the law of karma. The individual self is an eternal mode, or part ofBrahman. It is a centre of existence of its own but also an inseparable attribute ofBrahman. Dharma (moral law), artha (wealth), kāma (psychophysical enjoy-ments), and mok�a (final liberation) constitute the four puru�ārthas, i.e. thoseend-values representing man’s final goal as well as the path towards it. The keytopic for Rāmānuja is how a human action becomes a pathway for release insteadof being a cause of perpetuating the life of bondage. To perform an action in thespirit of karmayoga means to convert it into a sacrificial act by forsaking its fruits(desireless action). Aquinas has also dealt with human action as an instrument toobtain man’s final end of life. In itself, contemplation is more perfect than exter-nal action. However both should interact. Action leads us to contemplation andwe act because we love and our love increases when we act. Despite their belong-ing to very different cultural milieus, which have influenced their understandingof fundamental issues regarding God, man, and the world, Rāmānuja andAquinas coincide in many basic points. Concretely, in them, there is a clearappreciation for the path of action, as something needed for our present conditionof life and as a preparation for our final goal, i.e. the union with God throughlove. Rāmānuja recommends the practice of actions united to the one of knowl-edge. This recommendation fits perfectly well within the system of a Christianauthor such as Aquinas.

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Mariano Iturbe

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RAFAEL MARTÍNEZJUAN JOSÉ SANGUINETI(a cura di)

DIO E LA NATURA

Scritti di: G. Ancona, F.T. Arecchi, M. Artigas, E.Babini, S. Giardina, M.J. Hewlett, D. Lambert,J.M. Maldamé, R. Martínez, V. Mele, N. Murphy,S. Procacci, J.J. Sanguineti

Collana: Studi di filosofia - 25a cura della Facoltà di Filosofia della PontificiaUniversità della Santa Croce

Gli studi che formano questo volume si inseriscono all’interno deldialogo oggi in corso tra le scienze della natura e il pensiero filosofi-co, là dove si pone il problema ricorrente di Dio. Si tratta infatti di sta-bilire un quadro epistemologico nel quale il rapporto tra scienza spe-rimentale, discorso metafisico su Dio e teologia sia affrontabile conlegittimità razionale per evitare confusioni, mescolanze di piani e falseincompatibilità. Solo su questa base, infatti, si potrà verificare in chesenso e con quali condizioni la visione scientifica della natura è ingrado di aprire spazi di approfondimento all’indagine filosofica e allaricerca teologica.

pp. 192 € 15,00

studi di filosofia

R. MARTÍNEZJ.J. SANGUINETI(a cura di)

DIOE LA NATURA

ARMANDO EDITORE

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note e commenti

El itinerario hacia Dios: dimensiones existenciales,hermenéuticas y metafísicas

LUIS ROMERA*

1. El dinamismo antropológico

Constituye un lugar común de la reflexión antropológica contemporáneasubrayar que el hombre es un ser dinámico, susceptible de ser considerado conrigor sólo si se aborda su estudio desde una perspectiva que tematice su peculiardinamicidad. La experiencia común testifica que el hombre no posee un carácterestático, ni es constitutiva y existencialmente un ser que estribe en dejarse llevarpor unos procesos extrínsecos – o incluso intrínsecos – con los que interaccionade un modo meramente espontáneo, sea éste natural o adquirido culturalmente. Elhombre ha recibido en sus manos su existencia con el imperativo de llevarla acabo. Él la conduce a lo largo del tiempo, en constante relación con el contextoque le circunda y con sus contemporáneos.

El protagonismo de cada cual en su propia biografía se pone de manifiestotanto en las decisiones con las que determina el rumbo de su existencia en lascircunstancias por las que transita, como en el cuño que se imprime a sí mismocon dichas decisiones. El uso de la libertad repercute evidentemente en el con-texto social y ecológico en el que se encuentra y determina la modalidad de lasrelaciones interpersonales que establece; no obstante, la acción libre deja suprimer resultado en el mismo sujeto. El ser humano, en su individualidadinsustituible y con su libertad intransferible, configura temporalmente la iden-tidad que va adquiriendo y le caracteriza personalmente. Es un ser “biográfi-co”.

Sin embargo, la amplitud del protagonismo de cada uno es parcial, dado quese halla condicionada por las circunstancias que determinan su entorno – cultura,

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ACTA PHILOSOPHICA, vol. 13 (2004), fasc. 1 - PAGG. 99-123

* Pontificia Università della Santa Croce, Piazza Sant’Apollinare 49, 00186 Roma

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situación social, prójimo – y por el estado en el que cada uno se encuentra, con sucorporeidad y psiquismo: salud o enfermedad, edad, aptitudes, etc. El contexto ylos estados condicionan las posibilidades efectivas de la libertad, aunque, de todosmodos, no la anulen. La experiencia cotidiana nos muestra la diversidad con quereaccionan y se orientan diferentes personas en estados o contextos semejantes.Lo que se padece (enfermedad, contrariedades, limitaciones) o se recibe (dotes,educación, bienes) no aniquila la iniciativa del hombre, ni le substrae su capaci-dad activa, excepto en casos extremos. De ahí que el hombre sea un ser históricoen el doble sentido de un ser que existe en un contexto heredado e influye en elmismo. Hay “curso” en la historia – es decir, hay historia en cuanto tal – porqueel dinamismo del hombre es capaz de superar los parámetros que definen un con-texto histórico recibido y darse una nueva configuración social, política, cultural,etc.

A raíz de lo visto, se puede concluir que la índole autoconfigurante del hom-bre posee una dimensión tanto biográfica como histórica, en la medida en quecada uno modela su persona con los actos con los que asume la situación en laque se encuentra, y decide sobre sí mismo y sobre lo que le circunda según susposibilidades. La capacidad de autoconfigurarse remite a la libertad y a la inteli-gencia, como a sus condiciones de posibilidad. Si el hombre no fuese conscien-te de sí mismo, de lo otro (lo impersonal) y de los otros (el otro personal) y noposeyese la prerrogativa de decidir sobre sí mismo en las relaciones con la alte-ridad, el ser humano carecería de biografía “humana” e historia de la “humani-dad”. La temporalidad del hombre, como ya puso de manifiesto el Heidegger deSein und Zeit, no es semejante a la de seres con otras modalidades de ser. Ahorabien, el dinamismo configurante de la propia identidad y constructor de historiaes tal, porque el hombre experimenta la insuficiencia de lo alcanzado y la reco-noce en cuanto carencia. Por eso, su dinamismo libre no se detiene. Éste vive dela tensión entre una exigencia intrínseca del mismo hombre por llevarse a cabode un modo pleno y la conciencia del carácter insuficiente de lo realizado oadquirido. El quietismo sólo es posible en quien considere que su ser ya ha alcan-zado su plenitud o en quien desconfíe totalmente de la existencia, con un pesi-mismo insuperable.

La conciencia de la insuficiencia encierra una dualidad: por una parte, impul-sa a seguir adelante, trascendiendo lo heredado o adquirido; por otra, constata lainsatisfacción que deja en el hombre todo lo realizado por él. Subsiste un hiatoincolmado entre las realizaciones y configuraciones históricas, y la exigenciaintrínseca del hombre. Estos dos aspectos señalan sendos rasgos fundamentalesdel hombre en su dinamismo esencial, que pueden ser designados con los térmi-nos apertura y finitud. Detengámonos en ellos.

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2. Las aperturas de la existencia humana

2.1. El carácter abierto del hombre y la experiencia de la apertura

El hombre es un ser abierto tanto con respecto a sí mismo, como en sus rela-ciones con la alteridad (lo otro y el otro). Apertura con respecto a sí mismo indi-ca que el ser humano no se encuentra encerrado en un dinamismo instintivo, deíndole natural o fruto de hábitos de comprensión y comportamiento impuestos. Laexperiencia de tomar decisiones manifiesta que la existencia se enfoca en ocasio-nes en oposición a lo natural o a las pautas culturales. La crítica y la resistencia ointento de innovación con respecto a los propios impulsos naturales o culturalesnos hablan de una apertura con relación a uno mismo, que se realiza en el uso res-ponsable de la inteligencia y de la libertad, en cuanto capacidad autoconfiguran-te y exigencia intransferible de llevarse a cabo.

La apertura del dinamismo humano se refiere también a lo otro y al otro. En elprimer caso, dicha apertura se muestra en la capacidad de ir más allá del contex-to recibido, tanto ecológico como cultural, e introducir novedades, impulsando lahistoria. En el segundo – en las relaciones con los otros –, la apertura se mani-fiesta como reconocimiento del tú, respeto de su dignidad y respuesta ética al lla-mamiento que su misma presencia me dirige, como han subrayado Buber,Lévinas, Guardini, entre otros1. Dicha respuesta se realiza según una multiplici-dad de formas en las relaciones interpersonales, en función de la diversidad de lainterpelación que caracteriza a cada modalidad de relación humana (familiar, deamistad, de solidaridad, fortuita, etc.).

Como aludíamos, la apertura con respecto a sí y a la alteridad sólo es posibleen un ser que sea consciente de sí y de la alteridad en cuanto tales, y que posea elpoder-deber de autoconfigurarse relacionándose con lo otro y los otros. De ahíque la apertura a la que nos referimos sea exclusiva de un ser que esté presenteante sí mismo y haya sido dado a sí mismo. Con otras palabras, la apertura es pro-pia de un ser con interioridad o intimidad, con una dimensión inmanente, en cuan-to permanencia en sí y pertenencia a sí, autoconciencia y autoconfiguración. Almismo tiempo, es evidente que la apertura indica de suyo que el hombre no es unaentidad clausurada, sino alguien a quien compete trascender. La dimensión tras-cendente es constitutiva del hombre.

La apertura que caracteriza al ser humano y le capacita para desarrollar sudinamismo personal e histórico se fundamenta operativamente, en la multiplici-dad de sus modalidades y aspectos, en la apertura originaria de la persona al ser.No nos detendremos, por razones de espacio, a explicitar temáticamente este pre-

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Luis Romera

1 Cfr. M. BUBER, Yo y tú, Caparrós editores, Madrid 1998; E. LÉVINAS, Totalidad e infinito.Ensayo sobre la exterioridad, Sígueme, Salamanca 1997; R. GUARDINI, Mundo y persona.Ensayos para una teoría cristiana del hombre, Guadarrama, Madrid 1963; IDEM, Libertad,gracia y destino, Dinor, San Sebastián 1957.

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supuesto de la apertura histórica del hombre, ni a delinear sintéticamente lasmaneras y los ámbitos en los que esta última se actúa. Para nuestro propósito serásuficiente indicar que la apertura originaria al ser – base de todo el dinamismo deapertura del hombre – consiste, por un lado, en el reconocimiento de la realidaden cuanto tal – que subyace en cualquier acto cognoscitivo o práctico estricta-mente humano – y, por otro, en la conciencia de las dimensiones trascendentalesdel ser, tematizadas en la denominada doctrina de los trascendentales (ens, unum,verum, bonum, pulchrum), y de la persona.

La experiencia personal e histórica nos muestra que el dinamismo humanoconduce a ganar en altura o profundidad en su carácter de apertura. La educaciónes un proceso por el que la persona accede – se abre – a ámbitos para los que antesestaba cegada. Los conocimientos y hábitos que adquiere le permiten ampliar susposibilidades en el ejercicio de llevarse a cabo. En muchas ocasiones, los nuevosámbitos alcanzados le facilitan crecer como persona, aunque en sí mismos no seanimprescindibles para serlo plenamente. Sin embargo, hay algunos ámbitos queson requeridos como una exigencia intrínseca para llevarse a cabo como personade un modo cabal. Uno de ellos es el ámbito de la ética. La historia testimonia queel de la religión es otro. En ambos casos nos encontramos ante dimensiones de laexistencia que no son accesorias o sectoriales, ni meramente culturales, pues serefieren al núcleo de la persona y la implican en su totalidad. Lo ético y lo reli-gioso no atañen al hombre en un aspecto, sino en cuanto hombre; no lo calificansólo óntica o categorialmente, sino sobre todo ontológica y trascendentalmente.

La apertura en estos ámbitos no acontece como un acto singular, con el que seaccede a dicha dimensión de un modo directo y definitivo, de suerte que, una vezintroducidos en ella, se permanece estáticamente. La apertura a estas dimensiones esdinámica, tanto en sus primeros pasos como después. En estas dimensiones se debecrecer: su acceso exige continuar en el proceso de apertura. Nos encontramos en unosámbitos en los que la apertura es progresiva. Su acceso y desarrollo constituyen unitinerario que cada persona recorre con el uso de su inteligencia y libertad.

En muchas ocasiones, el acceso y el crecimiento en dichas dimensiones tienelugar de un modo natural gracias a la educación que se recibe y a la madurez dela experiencia que el hombre alcanza en el curso de su existencia. En otras, elacceso o desarrollo pueden requerir un proceso más explícito de apertura. Entodos ellos, sin embargo, es necesaria la asimilación consciente de la apertura y larespuesta libre a lo que ella implica. Detengámonos un momento a considerar,aunque sea de un modo somero, algunas experiencias de apertura que nos permi-tan comprender mejor lo que llevamos dicho.

2.2. Diferentes modalidades de apertura

La experiencia estética es muy rica en sus contenidos y grados de intensidad.No es lo mismo la vaga sensación de belleza que puede despertar un objeto de

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buen gusto, que la conmoción de quien se enfrenta con una auténtica obra de arte.La experiencia estética no equivale al interés que pueden suscitar unos restosarqueológicos de indudable valor histórico, ni a la sensación placentera de unadecoración agradable. La obra de arte conmueve, y lo hace porque el sujeto sesiente interpelado por ella. La obra, ya sea una pieza literaria o musical, un cua-dro o una representación de teatro, se dirige al lector, oyente o espectador, y recla-ma de él una actitud activa. Solicita una respuesta interior. La obra puede suscitaren el sujeto interrogantes radicales que hagan oscilar convicciones precedentes; escapaz de acompañarle a reconsiderar la existencia o le confirma en sus compren-siones y actitudes, alentándole a penetrar más en ellas. La obra de arte insta lainteligencia y exhorta la libertad a ejercerse en la interioridad del sujeto, pararepercutir luego en su acción externa. El “Guernica” de Picasso o “El Cristo” deVelázquez son vistos como lo que son, únicamente cuando el sujeto penetra en el“orden de cosas” que el cuadro indica y en el que la obra es obra. Dicha penetra-ción reclama la inteligencia y la libertad; sin ella, el cuadro se limita a ser un meroobjeto decorativo o un simple vestigio de una época o acontecimiento histórico.Algo análogo sucede con la lectura de una obra maestra de la literatura, oír unapieza musical o contemplar una obra arquitectónica2.

La conmoción que provoca la obra no se limita a la esfera afectiva o sensitiva;por el contrario, repercute también en la inteligencia y en la libertad, en la medi-da en que es la persona en cuanto persona quien es llamada en causa. Por eso, laexperiencia estética es – en los casos en los que acontece con intensidad – unaexperiencia de apertura a una dimensión de la existencia para la que el sujeto esta-ba cerrado, o bien es una experiencia de apertura en cuanto penetración ulterioren una dimensión para la que ya se estaba abierto.

Otra modalidad de experiencia de apertura, muy cercana a la anterior, tienelugar a través de la narrativa, la alegoría o el simbolismo. Un ejemplo de ello esla conocida página del II Libro de Samuel (II Sam 12, 1-14), en la que el profetaNatán se dirige al rey David para relatarle la historia de un hombre rico, que aga-saja a una visita no con una de sus numerosas ovejas, sino substrayéndole a suvecino la única que poseía. Ante la ira que se desata en David por el comporta-miento claramente injusto del protagonista de la narración, el profeta le indica quees precisamente su acción de hacerse con la mujer de Urías y mandar a éste a unamuerte segura, lo que se describe alusivamente en el relato. David recapacita yeleva su clamor de arrepentimiento. La narración ha inducido la apertura de Davida la dimensión ética de la acción cometida, gracias a la cual David es capaz decomprender plenamente lo que ha ejecutado. La apertura consiente una herme-néutica más certera de lo acontecido y reclama una respuesta de su libertad; eneste caso, la contrición.

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Luis Romera

2 Cfr. G. STEINER, Presencias reales, Destino, Barcelona 1991; M. HEIDEGGER, Der Ursprungdes Kunstwerkes, en Holzwege, Gesamtausgabe, Vittorio Klostermann, Frankfurt a.M. 1977,Bd. 5, pp. 209-267.

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Los modos en los que se realiza una apertura son muy variados; sin embargo,en ellos la persona se sabe interpelada en su libertad. Es más, la apertura sola-mente acontece cuando la libertad se decide a asumir lo que ella implica. En estesentido, la experiencia estética es una experiencia hermenéutica peculiar en la quela interpretación conduce a situarse en un horizonte de comprensión de la exis-tencia más amplio, o a penetrar más en él, solicitando del sujeto una respuestalibre.

La apertura de que tratamos implica el reconocimiento de una dimensión de laexistencia, que supone de algún modo una actitud crítica, en la medida en querequiere ser consciente de la insuficiencia del horizonte de comprensión y de laactitud existencial en la que antes el yo se movía. El reconocimiento conlleva unaexigencia sin la cual no tiene lugar la apertura. Cuando el reconocimiento tieneque ver con una persona, la apertura acontece como encuentro. Esto último es deespecial relevancia en el caso de una religión en la que Dios es reconocido comoser personal.

Como indicábamos, la obra de arte conmueve en la medida en que el sujeto sedescubre interpelado por ella. Interpelar significa pro-vocar, es decir, dar lugar auna llamada o apelo que, proviniendo de una alteridad, se dirige al yo. La pro-vocación de la obra acaece porque su voz encuentra una resonancia interior en elsujeto. La resonancia tiene lugar en la medida en que la provocación correspondea una exigencia latente, que la obra despierta. La provocación responde a una exi-gencia ontológica del sujeto y exige de éste una respuesta. Este doble orden deexigencia y respuesta, uno ontológico del sujeto que evoca la obra y otro existen-cial que la apertura demanda al sujeto, está contenido en la experiencia estéticaintensa. Todo ello pone de manifiesto la relación entre el pulchrum de la obra, laverdad que muestra o alude y la pretensión ética que conlleva o supone.

Otro contexto en el que puede tener lugar una apertura lo constituye la ampliagama de experiencias del sufrimiento, que tantas veces hacen vacilar la ubicaciónexistencial en la que la persona se encontraba instalada. Sufrir física o psíquica-mente, padecer una desgracia, ser sometido a la injusticia, enfrentarse con lamuerte, demarcan un conjunto de experiencias humanas que interrogan al hom-bre, reclamando de él una respuesta. En estas situaciones, lo evidente de la exis-tencia se pone en entredicho; el orden operativo y hermenéutico en el que discu-rría la vida empieza a resquebrajarse; lo inmediato no se presenta ya con el carizde lo definitivo o de lo único real. El hombre que padece – y, más todavía, el quehacer sufrir si cae en la cuenta de lo que ejecuta – es impulsado a interrogarseacerca de la existencia y de sus dimensiones esenciales, superando ya de estemodo el ámbito u horizonte anterior. La pregunta, en cuanto expresión de perple-jidad y conciencia del carácter insuficiente de lo asumido preliminarmente, es unade la primeras modalidades de un acto de trascendencia, ya que implica ir crítica-mente más allá del marco de comprensión previo. La pregunta es un modo deabrirse que, en ocasiones, conduce a reconocer una dimensión del ser que antes semantenía velada.

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De nuevo aquí, la experiencia despierta una exigencia latente; en este caso, laexigencia de un sentido para la existencia que trascienda lo inmediato: el sufri-miento que se padece. Junto a ello, la experiencia de la aflicción solicita del suje-to una respuesta libre: la reacción ante el sufrimiento que se especifica en el modoconcreto de asumirlo y contrastarlo en función del sentido global de la existencia,que el mismo sufrimiento ha cuestionado o inducido.

En otros casos, la experiencia de apertura, reconocimiento y exigencia aconte-ce con motivo de un encuentro personal, como el pensamiento dialógico y el per-sonalismo han analizado3. Las modalidades de un encuentro con un tú, que con-lleve una experiencia como la señalada, son múltiples. El enamoramiento abre a lapersona a una dimensión de la existencia, que se reconoce en el encuentro con eltú, e interpela al yo como una exigencia que requiere una respuesta libre. El ejem-plo o ejemplaridad de vida que puede ofrecer un tú, su modo de conducirse en laexistencia y de enfrentarse con sus eventos, puede incitar al yo a abrirse a unadimensión del ser para la que estaba cerrado y que el tú muestra testimoniándola.El mártir – tanto en el sentido amplio del vocablo griego de quien testifica, comoen el restringido del que confiesa con fidelidad a costa de la vida – provoca al yo,poniendo en evidencia una dimensión de la existencia, invitándole a adentrarse enella y suscitando la conciencia de una responsabilidad que no puede eludir.

La apertura no es susceptible de ser impuesta con violencia ni de ser obligadamanipulando. Abrirse corre a cargo de cada uno, con una respuesta intelectual ylibre que pertenece a la intimidad de la persona. Por ello, la experiencia ética dela responsabilidad ante el prójimo menesteroso constituye otro ámbito en el queacontece una apertura. Como ha recordado Lévinas, el rostro necesitado del otro– y todo otro es indigente – se dirige al yo requiriendo una respuesta moral. Elencuentro con el prójimo menesteroso, y su reconocimiento como tal, tienen lugarsólo si el yo supera una existencia centrada en su ego, identifica la penuria delotro, no se ensordece ante su súplica y contesta éticamente a su imperativo. Laapertura a la dimensión ética de la existencia acontece como un reconocimientode la misma, que permite adentrarse en un modo de vivir más intenso y auténti-co, y por eso se muestra como una exigencia propia de la identidad ontológica delhombre. Por lo demás, y retomando sugerencias de Buber, sólo así el yo encuen-tra al tú como un tú, sin transformarlo en un objeto utilizable, y únicamente así elyo es un yo verdadero. La ausencia del reconocimiento de la dimensión éticaciega al yo ante el tú; dicha ausencia se expresa como objetualización o instru-mentalización del tú. Cada vez que el yo no se considera éticamente comprome-tido ante el otro, mira al tú como a un ello, susceptible de ser manipulado, y no lereconoce su identidad. Esta actitud de cerrazón intelectual y de clausura ética con-duce a cometer una injusticia con respecto al otro y simultáneamente aliena al yo,el cual pierde progresivamente su autenticidad.

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Luis Romera

3 Cfr. B. CASPER, Das dialogische Denken: F. Rosenzweig, F. Ebner, M. Buber, Herder,Freiburg 1967.

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Las experiencias de apertura que hemos reseñado tienen lugar en el dinamismotemporal de la existencia. Existir significa para el hombre recorrer un itinerario enel que la persona se abre a las dimensiones ontológicas, radicales, del ser y se aden-tra en ellas con el uso de su inteligencia y su repuesta libre. Abrirse implica ganaren inteligibilidad; con otras palabras, posee un rendimiento en términos cognosci-tivos. Apertura a una dimensión y reconocimiento de la misma, implica penetrar enel conocimiento del ser propio y ajeno, comprendiéndolo con una profundidad cre-ciente, situándose en un horizonte de consideración de mayor alcance.

Ahora bien, la experiencia de apertura, reconocimiento y exigencia – en eldoble sentido de exigencia intrínseca del hombre, que se desvela ante la concien-cia, y de exigencia de una respuesta por parte del yo a lo que conlleva dicha exi-gencia intrínseca – acrecienta en la persona la conciencia de la necesidad de noconformarse con comprensiones de la existencia someras o parciales. La ganan-cia en inteligibilidad que la apertura origina, induce en el hombre la actitud dedetenerse a reflexionar sobre lo alcanzado. El dinamismo de apertura convierte alhombre en un ser advertido, que percibe la urgencia de pensar ulteriormente y pre-guntar. El dinamismo intelectual que se desencadena, conduce a no conformarsecon comprensiones asumidas gracias a presupuestos no indagados. La reflexiónvuelve sobre lo asumido para dilucidar sus presupuestos ontológicos e intelectua-les, gracias a un interrogar cada vez más radical. La hermenéutica de la existen-cia conduce hacia la metafísica.

2.3. De la apertura existencial a la metafísica

La actitud meta-física consiste, a este respecto, en desentrañar lo que en otrosámbitos cognoscitivos, como en las ciencias (de carácter sectorial por su mismanaturaleza) o en la actitud pragmática, se presume sin tematizar explícitamente.De ahí que Aristóteles afirme: «Hay, en efecto, una causa de la salud y del bien-estar, y de lo matemático hay principios y elementos y causas y, en suma, todaciencia basada en la razón o que participa en algo del razonamiento versa sobrecausas y principios, ora más rigurosos ora más simples. Pero todas estas ciencias,habiendo circunscrito algún ente y algún género, tratan acerca de él, y no acercadel ente como tal y en cuanto ente»4. Las ciencias indagan entidades, procesos yeventos que acontecen en un determinado ámbito de la realidad (lo físico, lo bio-lógico, lo sociológico, etc.), acotado metodológicamente. Sin embargo, lo estu-diado en las ciencias presupone el ser de lo tematizado por ellas. Qué significa, enúltimo término, ser en el sentido activo, verbal, que resuena en el participio pre-sente ens (del que proviene el neologismo “ente”, como caminante es quien acti-vamente camina y oyente el que oye), es algo que las ciencias no cuestionan, sinoque presuponen. Esto es lo que inquiere la metafísica.

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note e commenti

4 ARISTÓTELES, Met., VI, 1, 1025 b 4-10.

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La radicalización intelectual que se ejerce en la metafísica consiste en un pre-guntar que atañe a lo presupuesto y no pensado; se encamina – en cuanto radica-lización – hacia la raíz. «Hay una ciencia que considera el ente en cuanto ente ylo que le corresponde de suyo. Y esta ciencia no se identifica con ninguna de lasque llamamos particulares, pues ninguna de las otras especula en general acercadel ente en cuanto ente»5. En este sentido, la metafísica estriba en un movimien-to que se dirige de lo presupuesto a la base que lo sostiene, a su fondo o funda-mento, para considerarlo intelectualmente. «Buscamos los principios y las causasde los entes, pero es claro que en cuanto entes»6, en su “siendo”, en su ser.

Así surge el imperativo de plantearse preguntas radicales que, por referirse ala raíz, atañen a lo integral de lo que existe y no sólo a una o algunas de susdimensiones. La experiencia de la apertura encauza hacia la reflexión intelectual,gracias a la cual se puede acceder a una nueva apertura o a penetrar ulteriormen-te en lo ya entrevisto. Como es lógico, la interrogación requiere ser elaborada eimpele a ponerse en camino hacia una respuesta7. También, en este sentido, lareflexión teórica o especulativa es un itinerario intelectual. La radicalización delpreguntar encamina hacia la raíz o fundamento; su itinerario puede ser designadoentonces como fundamentar. Pero en cuanto tal, es una travesía.

Una de las vías que conducen a abrirse a la dimensión radical de la existenciapersonal y ajena, y a plantear interrogantes últimos, radicales y de carácter global,es la experiencia de la finitud. Gracias a ella, el hombre se ha percatado de lacuestionabilidad de la propia existencia y del ser de lo que le rodea. Movido porla conciencia de la finitud, el ser humano ha elevado la mirada más allá de loinmediato. Estimulado por la urgencia que despierta, el hombre se ha planteadocuestiones metafísicas. En efecto, la experiencia de la finitud no se reduce a algu-nos aspectos o sectores de lo real, sino que abarca todo lo que constituye nuestroámbito inmediato de experiencia. Junto con la apertura, la experiencia de la fini-tud es un elemento constitutivo esencial del dinamismo histórico y biográfico delhombre; por ello, requiere ser tematizada si se pretende alcanzar una comprensiónrigurosa del hombre y de su modo de conducir la existencia.

3. La inteligencia y la libertad ante la finitud

La comprensión espontánea de la existencia que todo hombre posee y acre-cienta con su madurar, manifiesta que existir implica para la persona humana lle-varse a cabo temporalmente. Como indicábamos, entender la existencia como unamisión supone la conciencia del yo, de la libertad y de la alteridad, tanto de lo otroimpersonal como del otro personal. La relación consigo mismo, que la autoconfi-

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Luis Romera

5 IDEM, Met., IV, 1, 1003 a 21-24.6 IDEM, Met., VI, 1, 1025 b 3-4.7 Cfr. L. ROMERA, Introduzione alla domanda metafisica, Armando, Roma 2003.

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guración implica, se realiza junto con la relación con el tú y lo otro. Sin embargo,el resultado del esfuerzo de la libertad en la existencia no está asegurado de ante-mano. En efecto, la apertura a la alteridad contiene una cierta ambigüedad en elhombre histórico. Si bien, por una parte, ésta ofrece el ámbito en el que llevarsea cabo según lo más genuino del hombre; por otra parte, se halla expuesta al ries-go de enajenar a la persona.

El Kierkegaard de La enfermedad mortal, por ejemplo, y el Heidegger de Sery tiempo se detienen, desde perspectivas distintas y con resultados de alcance des-igual, a considerar el peligro de frustración de la existencia, al que se arriesganecesariamente cada hombre. La relación con la alteridad puede conducir al olvi-do del yo o del sí-mismo, identificándolo con los asuntos que le ocupan o con la“masa” de coetáneos despersonalizados. Cuando el yo se asimila sin más con lasocupaciones laborales, lúdicas, culturales, etc., hasta situar en ellas – en su éxito– la propia identidad, el hombre no solamente se degrada al estado de dispersiónen la multiplicidad de lo otro, que mina la identidad del yo, sino que llega inclu-so a disolverse en lo otro, enajenándose.

Algo análogo ocurre cuando la persona se identifica con pautas sociales omodas históricas y culturales, que atañen a las más diversas esferas de la existen-cia, con una intensidad tal que el yo se confunde con el impersonal “se dice”, “sepiensa”, “se valora”, “se actúa”, etc., hasta diluirse en ello, como Heidegger des-cribió con agudeza. La pérdida u olvido de ser un sí-mismo que tiene como tareaen la existencia llevarse a cabo de un modo intransferible, encamina a un estadode inautenticidad que – de no corregirse – termina con la enajenación, es decir,frustrando la existencia.

El peligro de malograrse que acecha a cada hombre obliga a reconsiderar lapropia biografía y la actitud con la que se acomete el vivir cotidiano. De todosmodos, junto al riesgo señalado, hay un segundo motivo que cuestiona la exis-tencia en su globalidad: la finitud.

La experiencia común no cesa de advertir acerca del carácter finito del yo, delo que éste realiza y de la alteridad con la que se relaciona. La finitud se pone demanifiesto, por ejemplo, en la temporalidad del ser propio y ajeno. Empezar aexistir no es sin más un mero hecho de experiencia empírica, ante el que sólocabe una constatación positivista. Para un ser libre, el empezar propio o de laspersonas relevantes para él, no deja indiferente; por el contrario, incita a interro-garse sobre el origen del ser. La fugacidad e índole transitoria de lo acometido yejecutado, de los éxitos o fracasos, de los estados interiores y circunstanciasexteriores, conduce a plantear la pregunta acerca del sentido último de lo que seemprende en la existencia. La respuesta a estos interrogantes es de importanciavital, ya que especifica el enfoque de la existencia en su globalidad. No es indi-ferente para el vivir cotidiano si, ante la cuestión del origen, la respuesta reza queel hombre es un ser arrojado a la existencia desde una instancia anónima o, porel contrario, es fruto de un don; como tampoco es irrelevante la respuesta a lapregunta acerca del sentido, es decir, si la temporalidad es la última instancia de

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la existencia – con lo que todo se dirige hacia la nada – o la temporalidad remi-te a una eternidad.

Temporalidad no significa únicamente distensión, en cuanto transito sin dete-nimiento, sino también que lo que es y acontece posee un carácter parcial y frag-mentario. El hombre no halla lo definitivo en nada del yo y de su entorno. Lo tem-poral es provisional, también desde un punto de vista cualitativo. La provisiona-lidad de todo lo alcanzado o sufrido se muestra en que nada se presenta comodefinitivo o pleno. De ahí el sentido de insuficiencia que cualquier acto o situa-ción humana suscita. El carácter inacabado de la existencia se percibe también enlas experiencias positivas: ninguna situación, estado o acto aislado es capaz decolmar la existencia; por eso, la historia y la propia biografía continúan, y no sóloen el sentido de que siguen corriendo las agujas del reloj y pasan las páginas delcalendario.

De todos modos, la conciencia de la muerte es lo que engendra con más urgen-cia y seriedad la cuestión del sentido de una existencia marcada por la finitud. Lamuerte aparece como lo que anula todo lo que tenía valor en la vida, hasta la pro-pia existencia. Ella se encarga de enfrentar al hombre con la pregunta acerca delsentido de existir libremente y de la libertad en cuanto tal. También en este caso,la respuesta no es indiferente para el vivir cotidiano, afectando al hombre no sec-torialmente, sino de un modo integral.

La finitud se constata también en los fenómenos de disociación que vive el yoo se le anuncian como un riesgo. Es experiencia común la percepción de tensio-nes en la interioridad de la persona entre los distintos estratos que la componen.El imperativo ético puede encontrar resistencias en uno mismo por el esfuerzo osacrificio que requiere, de tal modo que el hombre se viva como desdoblado o, almenos, con el deber de reintegrar esferas de sí mismo que parecen ajenas las unasa las otras. El padecimiento de una enfermedad, de la pobreza o de la injusticia,son también experiencias que alejan al yo de una visión ingenua de la existencia.Ellas se añaden a las limitaciones que el hombre tiene de por sí: por ser histórico,su libertad se encuentra situada en un contexto que delimita sus posibilidades; porser biográfico, su libertad acarrea con las condiciones que recibe y con las con-secuencias de sus actos. La finitud se nos presenta por doquier.

Otro aspecto que subraya la finitud del hombre es el riesgo más grave conte-nido en su libertad: la posibilidad de frustrase en su núcleo íntimo cuando actúamoralmente mal. En este caso, el hombre no padece el mal, sino que lo causa y setransforma en malo. Cuando el existente emprende esta ruta, se dirige hacia laalienación de sí de un modo todavía más intenso que la disolución del yo en loajeno (los asuntos o la masa impersonal).

La libertad humana se enfrenta con su finitud como con un problema que noes susceptible de ser aplazado, porque lo que está en juego es el sentido último delejercicio mismo de la libertad y el riesgo de alienarse que ella contiene. En estecontexto, puede tener lugar una apertura de la persona a la dimensión religiosa,con el reconocimiento de la presencia de Dios y la decisión de dirigirse a Él, como

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exigencia personal y respuesta a la exigencia que la divinidad le plantea. La aper-tura a Dios y a la relación con Él (la religión) implican ganar en inteligibilidad,en la medida en que ofrecen una respuesta a las preguntas radicales, otorgan elhorizonte de comprensión último de la existencia en el que enfrentarse con susdificultades y misterios, señalan la orientación definitiva del existir y suscitan laactitud vital básica ante lo cotidiano y la propia biografía como una totalidad, conlo que ella encierra.

4. La experiencia religiosa

Saber de Dios y dirigirse a Él, constituye el núcleo esencial de la religión,donde se dan cita todas las dimensiones fundamentales de la persona: la inteli-gencia y la voluntad, la intimidad de los afectos y la esfera social, la corporeidady el espíritu. Es la persona en su integridad quien se percata de Dios y responde.Por eso, no es infrecuente que se designe el ámbito de la religión con el término“corazón”, no para contraponerlo a la inteligencia (con su demanda de verdad) ya la libertad (con su requerimiento ético), como hiciera Schleiermacher en polé-mica con Hegel y Kant buscando una esfera específica para la religión y situán-dola en la del sentimiento (Gefühl), sino para subrayar que la persona se dirigehacia Dios desde su centro más radical (corazón), hacia donde confluyen, dondese aúnan y desde donde manan todos los actos estrictamente personales8.

Dios no forma parte de nuestras evidencias inmediatas. La excedencia de sery de luz del Infinito supera las capacidades cognoscitivas de lo finito9. El hombredebe abrirse y reconocer a Dios. La apertura al Trascendente llama en causa a lapersona en su núcleo y, por tanto, entran en juego la inteligencia, su actitud librey el resto de dimensiones aludidas. De modo semejante a como se denominaexperiencia ética o experiencia estética al conjunto de actos y hábitos que consti-tuyen las esferas ética y estética del hombre, designamos experiencia religiosa, deun modo amplio, a la totalidad de actos y actitudes que forman y en los que seexpresa la relación del hombre con la divinidad: tanto su apertura intelectual aDios, como su respuesta libre.

La experiencia religiosa consiste, vista en su globalidad, en un itinerario queemprende y recorre la persona a lo largo de su existencia. La experiencia religio-sa no es únicamente un conjunto de vivencias, sino un modo de existir, sabiéndo-se ante un Trascendente, como don suyo y refiriendo todo lo propio a Él. Dichossaber y referir se vierten en actos y actitudes, que a su vez conforman a la perso-

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8 Cfr. J. ESCRIVÁ DE BALAGUER, Es Cristo que pasa, n. 164, Rialp, Madrid 1974.9 Cfr. ARISTÓTELES, Met., II, 1, 993 b 9-11: «Pues el estado de las aves nocturnas ante la luz

del día es también el del entendimiento de nuestra alma frente a las cosas más claras pornaturaleza». A este respecto, cfr. en S. TOMÁS DE AQUINO, S. Th. I, q. 2, a. 1; y en PLATÓN,Soph., 254 a-b.

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na. La apertura a Dios y su respuesta existencial se incrementan con el transcur-so de una existencia vivida religiosamente, de tal modo que el conocimiento deDios y su relación libre con Él se dan y se configuran en un itinerario.

Saber de Dios es algo a lo que el hombre accede vitalmente de muchas mane-ras. En ocasiones, la persona se abre a Dios desde la infancia, gracias a la educa-ción recibida. En otras, es el encuentro, la palabra o el testimonio de un tú, lo quepermite descubrir que la existencia humana está llamada a una dimensión para lacual antes se estaba cegado y que, sin embargo, constituye la realidad última dela misma, ya que la refiere a la Realidad por antonomasia. En otras, podrán ser lasexperiencias de apertura que antes señalábamos las que conduzcan al hombrehacia Dios. En todo caso, la apertura a reconocer que Dios existe y el crecimien-to en el saber acerca de Él acontecen en el curso de un itinerario personal que cadauno recorre. Incluso cuando la persona se detiene a reflexionar rigurosamente eintenta formular filosóficamente cómo se alcanza el conocimiento de Dios, es evi-dente que el proceso requiere andar un camino (vía) intelectual, que no es inme-diato ni susceptible de ser reproducido o expresado sin unos presupuestos de índo-le metafísica, que implican un camino especulativo.

El itinerario, también en este último caso, consiste en un proceso progresivode apertura a Dios y reconocimiento de su Presencia; itinerario que contiene eseescrutar que permite adentrarse en el conocimiento de Dios. Junto a ello, el itine-rario implica la conciencia de que la relación con Dios responde a una exigenciaontológica, constitutiva, del hombre, y exige una respuesta por parte de él.Recapitulando, se podría decir que el conocimiento de Dios y la respuesta huma-na a Él se estructuran – parafraseando a San Buenaventura – como un itinerariumpersonae in Deum.

La experiencia religiosa, en el sentido indicado, posee un grado de riqueza tal,que es difícil sintetizarla en pocas palabras. Una de las expresiones concisas másacertadas para referirse a ella es la declaración agustiniana: quia fecisti nos ad teet inquietum est cor nostrum, donec requiescat in te (porque nos hiciste para ti ynuestro corazón está inquieto, hasta que no descanse en ti)10. El sentido y la jus-tificación de esta célebre aserción de las Confesiones se enraízan en el itinerariobiográfico – especulativo, moral, religioso – de San Agustín. Puede ser de prove-cho identificar sus elementos constitutivos centrales, ya que en ellos se expresancontenidos esenciales de la experiencia religiosa.

La experiencia religiosa incluye, en primer lugar, la experiencia de la inquie-tud de corazón, estrechamente ligada con la conciencia de la insuficiencia queantes identificábamos en la base del dinamismo biográfico e histórico del hom-bre. La inquietud que se despierta en la intimidad de la persona surge de la arti-culación de la experiencia originaria del ser, de la experiencia de la finitud y de laconciencia de tener que llevarse a cabo, a las que también aludíamos anterior-mente. En efecto, la apertura constitutiva del ser humano al ser en cuanto tal y a

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10 S. AGUSTÍN, Confesiones I, 1, 1.

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la propia realización no se colma con los resultados finitos, transitorios y parcia-les que va alcanzando en su existencia histórica. De ahí el sentido de insuficien-cia que adquiere y le impele a seguir adelante en su biografía y en la historia.

La experiencia del cor inquietum es tan común en el hombre, que puede pasardesapercibida para la conciencia, incluso en su reflexión explícita. La experienciade que tratamos no consiste necesariamente en una vivencia intensa, aunque ésta,de darse, la acentúe y obligue a enfrentarse con ella. La experiencia de la inquie-tud íntima tiene un componente existencial y otro intelectual, en el caso de quesea legítimo establecer aquí esta distinción. El componente existencial se refiere,ante todo, a la conciencia de que la existencia se presenta como una tarea enco-mendada a cada uno, de la cual no cabe desentenderse y de la que se es respon-sable (para empezar ante sí mismo en la medida en que es uno mismo el que estáen juego). Apoyándose en esta conciencia, se articulan las experiencias de la aper-tura a lo real – con toda su amplitud potencial – y de la finitud. La inquietud antela tarea de la propia existencia se modela entonces como anhelo, dada la insufi-ciencia que se constata en lo provisional.

La experiencia del cor inquietum y su hermenéutica existencial como anheloque no se colma con lo pasajero y fragmentario, no tienen, estrictamente hablan-do, una naturaleza sentimental, aunque la afectividad muchas veces las acompa-ñe. Expresan, más bien, una exigencia ontológica, constitutiva, del hombre comoser temporal y libre. Por eso, tampoco son susceptibles de ser interpretadas comoalgo implantado desde fuera – culturalmente – o como un engaño o máscara,detrás de la cual ocultar una existencia sin sentido. El anhelo se encuentra en labase del dinamismo libre y finito de un ser que sabe que realizarse en la existen-cia es un imperativo ineliminable.

El componente existencial incluye un componente intelectual, que la concien-cia explícita del cor inquietum conduce a considerar directamente. La concienciade la finitud propia y ajena pone de manifiesto que el ser finito no es autárquico,es decir, que su principio originante no se encuentra en sí mismo. Ante ello, surgela demanda, insoslayable para una inteligencia coherente, de plantear temática-mente la pregunta acerca del origen último de lo finito.

Las experiencias de la finitud y de la persona muestran también que el hombreno es un ser autorreferencial, sino que remite al mundo que le rodea y a los demás.No es completamente autónomo: constantemente recibe de la alteridad (de lo otroy de los otros). Junto a lo dicho, el hombre se sabe amenazado por la posibilidaddel nihilismo, en el que acabaría una existencia que se dirige hacia la muerte yconstata la muerte del otro, si la muerte fuese la última instancia. Si a todo ello seañade la conciencia de la posibilidad de alienarse, que la historia no cesa de recor-dar, entonces surge también el requerimiento ineludible de cuestionar el sentidodefinitivo de la existencia.

Sin embargo, la finitud es el ámbito en el que desarrollar la propia existencia.En ella el hombre encuentra, junto con lo negativo, innumerables realidades posi-tivas que, en lugar de acallar la inquietud, la aumentan, precisamente porque alu-

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den a un más allá de lo transitorio y parcial. El tú y el pulchrum del mundo mues-tran el valor de la existencia, pero también replantean, con incisividad por sucarácter finito y su relevancia existencial, las cuestiones indicadas.

El cor inquietum ha conducido históricamente al hombre a reconocer unaRealidad allende lo finito, que se manifiesta en lo finito como su Origen radical yDestino definitivo. La apertura a la dimensión religiosa – el reconocimiento deDios – tiene un valor hermenéutico primordial, en la medida en que permite com-prender con mayor profundidad y rigor lo finito. Las preguntas que lo finito sus-cita encuentran respuesta en ella; ciertamente en el misterio, como ahora consta-taremos. La apertura a la Trascendencia es una ganancia en inteligibilidad; sinella, los problemas que presenta lo finito permanecen con todo su carácter aporé-tico. Renunciar a la comprensión que se alcanza con la apertura a la dimensiónreligiosa – cerrándose a ella – supone optar por una línea que conduce a abdicarde un pensamiento (intellectus) con pretensiones de intelección, para abandonar-se en una razón (ratio) sectorial, pragmática e instrumental, desasistida de crite-rios al margen de su campo de aplicación. Los peligros inherentes a dicha opciónson evidentes, como se pone de manifiesto en el debate en torno a las pautas quedeben orientar las biotecnologías o la convivencia en una sociedad pluricultural,y cada vez más globalizada, o la ética del mercado.

La apertura religiosa y el reconocimiento de Dios significan percatarse delfecisti nos ad te, es decir, que – por un lado – lo no autárquico remite a un Origensin principio (fecisti nos) y que – por otro – la no autorreferencialidad del hombreremite de nuevo a dicho Origen en cuanto fin y sentido de la existencia (ad te). Elcarácter de remisión del hombre en su finitud al Infinito tiene, por tanto, una dobledimensión: protológica (de principio u origen) y teleológica (de fin), ambas deíndole ontológica y alcance existencial. Esta hermenéutica de lo finito desde sureferencia a un Origen que, en cuanto definitivo, está allende lo finito – es infini-to –, se manifiesta como una exigencia intelectual y vital: exigencia intelectual,ya que lo finito requiere ontológicamente un origen; exigencia existencial, porqueel referirse a Dios se comprende como respuesta a la exigencia ontológica de unser cuya finalidad constitutiva se halla en Dios (fecisti nos ad te).

El reconocimiento del Origen radical de lo finito implica advertir su infinitudy trascendencia; de otro modo, estaríamos todavía en el ámbito de lo no-autár-quico. Ahora bien, lo infinito sólo es tal, si no está necesitado ni depende de nada.El Infinito se nos muestra como el Ab-solutus (Independiente, sin constricciones)que, en cuanto absoluto, si dona el ser, lo concede por liberalidad, sin otro moti-vo que su bondad. Es Él a quien responde y se dirige el hombre.

La inquietud y el reconocimiento de ser originados por Dios y destinados a Élencaminan a caer en la cuenta de que la propia plenitud ontológica – y por elloexistencial – se encuentra en Dios: donec requiescat in te. El corazón se aquietaen la relación con Dios, pues la identidad de ese ser personal, libre y temporal,que es el hombre, apunta teleológicamente hacia Él. La referencia a Dios es lo queda valor a la existencia y a todo lo que se realiza o acontece en ella. Lejos de subs-

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traer a la existencia cotidiana su valor, referir la propia persona y todo lo queconstituye la vida a Dios, confiere significado a lo que se ejecuta y tiene lugar enella, porque en la referencia al Origen y al Fin absoluto, todo alcanza su plenitud.Por eso, un trazo distintivo de lo divino es la paz (requiescat in te), aunque en oca-siones esté acompañada por las contrariedades en la existencia y la vivencia de lasdificultades, el sufrimiento o, incluso, la desazón.

Como ocurre con la apertura y el reconocimiento, la referencia a Dios se incre-menta, o debería hacerlo, a lo largo del tiempo. La experiencia religiosa es un iti-nerario, ya que ni la apertura del corazón inquieto, ni el reconocimiento del Origeny Fin, ni la referencia a Dios tal y como tiene lugar en un momento de la vida, sondefinitivas. Lo definitivo es el referente, por decirlo así. El acto del hombre siem-pre es susceptible de crecer. El camino dura lo que dure la existencia terrena.

La referencia a Dios puede ser denominada come descanso (requiescat in te),también porque exige del hombre un acto radical – con la consiguiente actitud defondo – que cabría designar con el término “abandono”. Ahora bien, el abandono– con el sentido que a continuación especificaremos – requiere una conversión.En efecto, la apertura religiosa y el reconocimiento de Dios exigen una respuestadel hombre, que implica superar la pretensión de autosuficiencia que se escondeen el hombre histórico. Desde la comprensión del hombre en su referencia onto-lógica y teleológica al Trascendente, la ambición de autosuficiencia se manifies-ta como inautenticidad y falseamiento; con otros términos, y en relación a Dios,como pecado.

La autosuficiencia se modula como autoafirmación, es decir, como existenciacentrada en el ego y que busca sólo la imposición del ego; se modaliza tambiéncomo afán de posesión – de cosas, de poder, de éxito, de goces –, lo que conllevainstrumentalizar en función del ego la realidad de lo otro y del otro, con el deseode una suficiencia en y con dicha posesión; se vierte, así mismo, en la reivindica-ción ilusoria de autonomía, cerrándose al tú sin aceptar ni agradecer lo que se reci-be, con un ansia disparatada de no depender; etc.

Frente a la autosuficiencia, el hombre se vuelve hacia Dios y acepta el don querecibe de Él: la existencia y su realización colmada. La aceptación se expresa enun agradecimiento que permite descubrir la manifestación de su gloria en lo quees un don de Dios: en lo finito, visto en su verdad última. Sin aceptación y agra-decimiento, no tiene lugar la apertura para reconocer su gloria y es imposible eldescanso (requiescere in te). Pero, además, el agradecimiento lleva a glorificar ya penetrar – dejarse conducir – ulteriormente en su gloria. Que el itinerario paraello esté sellado por la cruz, es uno de los elementos centrales que la comprensióncristiana muestra con toda su radicalidad.

La aceptación del don de la existencia y de su realización cumplida se expre-sa, así mismo, en la súplica ante los riesgos que la finitud implica en nuestra rea-lidad histórica, englobables en el término analógico “mal”. Junto con el agradeci-miento y la glorificación, la plegaria y la contrición modalizan la referencia delhombre a Dios.

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Ahora bien, la aceptación del don divino abraza implícitamente una exigencia,que la conciencia religiosa reconoce como un imperativo que corresponde a lademanda ontológica del hombre, y por lo tanto, a su verdad y a su teleología.Aceptar el don, requiere disponerse para donar. Con otras palabras y dicho cristia-namente, si aceptar el don y corresponder a él dirigiéndose a Dios significan amara Dios, ese amor posee la exigencia intrínseca de amar al prójimo. El segundo man-damiento es semejante al primero. En todo ello hay una coherencia, que los textosjoánicos no dejan de subrayar: si Dios es amor que gratuitamente crea y salva (con-cede la plenitud), solamente conoce a Dios el que ama; el amor de Dios (recono-cerle y responder con amor) requiere darse al otro (abrirse y amar al prójimo).

Sin esta dimensión ética que demanda de la libertad una respuesta, el hombreno penetra en el misterio de Dios, ni en la verdad profunda de sí mismo. De nuevoes menester recordar que, en todo ello, cabe y se debe crecer: el itinerario conti-núa, pues el anhelo todavía no se colma.

Todo lo visto en torno a la aceptación del don, a sus expresiones y a la dispo-sición a dar(se), es lo que desglosa el contenido del abandono como acto y acti-tud religiosa, al que nos referíamos. Abandonarse es la respuesta libre de quiensabe que su existencia libre es un don de Dios y que es Él quien libremente llamaa sí al hombre, le ofrece la fuerza liberatoria de acercarse y le concede la posibi-lidad del ejercicio colmado de su libertad merced a la gracia (su plenitud). La ini-ciativa parte de Dios. El abandono, entendido correctamente, no conduce a ladejación de la libertad, sino todo lo contrario. La fe, en el sentido paulino, porejemplo, es expresión de un creer que dirige a aceptar y recibir el don divino, aadentrarse en la misión de la existencia de un modo esperanzado y a correspon-der al amor divino con una vida orientada hacia la caridad, con el esfuerzo y lainiciativa que todo ello implica. El abandono consiste, dicho cristianamente, en elejercicio de las virtudes teologales, en las que se cifra la esencia de la existenciareligiosa de un cristiano con su libertad.

De todos modos, no puede pasar desapercibido que, en lo que hemos conside-rado hasta ahora, se pone de manifiesto que la experiencia religiosa posee conte-nidos intelectuales, doctrinales o dogmáticos, en relación a Dios y al hombre, quele son esenciales. La experiencia religiosa incluye también una exigencia moral yse expresa en una referencia espiritual y litúrgica – cultual – a Dios, intrínseca-mente unidas a los contenidos dogmáticos. Desde aquí es evidente que la religiónconlleva necesariamente una exigencia de verdad. Lo que aquí está en juego es lacomprensión última y la orientación definitiva de una existencia expuesta al ries-go de la alienación. Por eso, es imprescindible la profundización intelectual.

5. Elaboración intelectual y verdad religiosa

Ya ha sido subrayado que la apertura y el reconocimiento implican ganar eninteligibilidad y ofrecen un nuevo horizonte en el que llevar a cabo la propia exis-

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tencia. Sin embargo, en el ámbito de la religión, como también sucede en el ético,la historia y la situación contemporánea muestran que la humanidad se ha abier-to a lo divino, ha reconocido su existencia y ha enfocado su relación con ellosegún una multiplicidad de modos. Las diferentes religiones no son homogéneas,ni en sus contenidos intelectuales, ni en sus enfoques morales de la existencia, nien las modalidades de dirigirse a lo divino.

La respuesta a la cuestión acerca de quién o qué es lo divino, condiciona lacomprensión del hombre de sí mismo y, por tanto, la determinación de cómo con-ducirse en la vida y remitirse a la divinidad. Y viceversa: en las pautas cultuales,en las modalidades de espiritualidad y en los planteamientos morales de una reli-gión (tanto en la dimensión individual como civil de la ética), se contiene unaimagen de la divinidad y una comprensión del hombre que constituyen la base –implícita o explícita – en la que dichas pautas se apoyan. Dado que el contenidode la religión se refiere a las ultimidades, es decir, a la instancia definitiva de laverdad, a cuya luz se enjuicia la existencia, y al sentido último de la persona, esclaro que en este ámbito no puede ser desatendida la cuestión de la verdad. A ellose añade el desafío que el hombre no religioso plantea al hombre religioso de quele muestre con rigor, sin caer en sofismas o actitudes fundamentalistas, la justifi-cación de la autenticidad de la apertura y de la verdad religiosa11.

La demanda de verdad dirigida a la religión corre pareja con la reivindicaciónde verdad que cualquier religión incluye, con independencia de la modalidad lógi-ca o noética de la formulación de sus contenidos. Corresponder a la exigencia deverdad de la apertura religiosa y del reconocimiento de Dios, supone emprenderuna elaboración intelectual que debe consentir el acceso a tres cometidos de natu-raleza cognoscitiva: 1) garantizar y justificar la apertura y el conocimiento propiode una religión, o ayudar a que se lleve a cabo la apertura y el reconocimiento enel caso de que quien reflexiona o su interlocutor no sean hombres religiosos; 2)profundizar en el conocimiento de Dios, del hombre y del modo de existir en rela-ción con Dios; 3) obtener criterios de discernimiento acerca de la verdad de unapalabra religiosa, teniendo en cuenta la multiplicidad de palabras religiosas (opseudoreligiosas) en una sociedad pluricultural y multireligiosa.

En la elaboración intelectual de “la cuestión de Dios y de la religión” juega unpapel primordial – como ha puesto de manifiesto Pannenberg – la coherencia deuna comprensión religiosa, de cara a dar respuestas a los interrogantes que elhombre se plantea en el curso de su vida, movido por su experiencia12. A este res-pecto, es ilustrativo el caso del profetismo de Israel.

El profeta se presenta como portador de una palabra divina que se yergue antelos avatares de la historia. La palabra profética es una palabra hermenéutica, en la

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11 Cfr. R. GUARDINI, Religion und Offenbarung, Grünewald-Schöningh, Mainz-Paderborn1990.

12 Cfr. W. PANNENBERG, Metaphysik und Gottesgedanke, Vandenhoeck & Ruprecht, Göttingen1988; IDEM, Systematische Theologie, Bd. I, Vandenhoeck & Ruprecht, Göttingen 1988.

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medida en que indica al hombre la esencia de la situación en que se encuentra yexperimenta, le muestra los motivos de la misma y le permite comprenderla. Enla historia de Israel, el profeta desvela que el sufrimiento que padece el pueblo esfruto de haber vuelto la espalda a Dios, haber pretendido ser autosuficiente y nohaber seguido sus caminos. El profeta subraya que solamente cuando se tiene encuenta lo que su mensaje transmite, es decir, la dimensión religiosa de lo queacontece, el hombre sabe realmente qué es lo que acaece. Pero la palabra proféti-ca es también una locución que devuelve la esperanza, ya que – al recordar lamisericordia del Dios fiel que no olvida al hombre – abre de nuevo las puertas alfuturo. Ahora bien, la palabra tiene auténticamente valor hermenéutico, al ilumi-nar la experiencia, y existencial, al despejar el futuro, en la medida en que se sos-tiene sobre unos contenidos doctrinales que garantizan su carácter iluminante yesperanzador, y evitan que se trate de una farsa. Por eso, la palabra profética estambién palabra dogmática y reveladora de Dios.

En efecto, el profeta – piénsese, por ejemplo, en Isaías y en la deportación deIsrael a Babilonia – es el que interpreta la historia y abre al futuro, porque mues-tra el pecado del pueblo y anuncia a un Dios que es Señor de la historia. Sólo anteun Dios así, cuando el hombre se da la vuelta, se encamina hacia su desgracia(como también ilustran el libro de la Sabiduría y la Epístola a los romanos, enestos casos considerando la historia de toda la humanidad y no sólo de Israel).Pero también es cierto que sólo ante un Dios “Señor de la historia”, el hombre escapaz de fiarse de sus promesas, de que no está todo perdido, a pesar de las apa-riencias. Ahora bien, el Dios Señor de la historia sólo es tal, si Dios es el Dios vivoy misericordioso, es decir, el Dios que se revela con carácter personal: alguien queactúa, a quien cabe invocar, de quien el hombre puede fiarse. Pero además, Dioses Señor de la historia y un Dios en quien confiar, únicamente si es el Dios todo-poderoso, el Creador de todo lo que existe. Y, de nuevo, el Dios creador y todo-poderoso sólo puede serlo el Dios único y trascendente. En definitiva, la palabraprofética es también palabra que anuncia al Dios único y trascendente, creador ytodopoderoso; palabra que proclama el monoteísmo.

El carácter doctrinal (veritativo, revelador) de la palabra profética sostiene, asímismo, la dimensión moral del mensaje del hombre de Dios. Si Dios es el Diosfiel y misericordioso que se compadece del hombre pecador, Dios pide al hombreque corresponda a la verdad divina y a la verdad antropológica y sea, a su vez, unser que ame y se compadezca del desvalido: de la viuda, del huérfano, del menes-teroso, del extranjero.

La coherencia de la palabra profética se presenta iluminadora; invita al hom-bre a adentrarse en la verdad que anuncia, a abrirse a ella para ganar en inteligi-bilidad ante su experiencia histórica y corresponder a sus exigencias intrínsecasde verdad y de cómo conducir la existencia. En este contexto, la coherencia y elvalor de inteligibilidad, de verdad, de orientación y de evento histórico de rele-vancia ontológica y salvífica, se incrementan y alcanzan su plenitud con el NuevoTestamento. La revelación del misterio del Dios trino, que es amor (hóti ho Theòs

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agápe estín)13, que crea por liberalidad y se compadece del hombre, asumiendo yredimiendo su ser y destino con la encarnación, cruz, resurrección del Hijo y elenvío del Espíritu, abren al hombre a la verdad última que le permite ser – porgracia – según su auténtica identidad y destino.

Los contenidos dogmáticos-revelativos del libro de Isaías no son indiferentespara cualquier hombre, ni en términos de verdad, ni de cara a la existencia. Si Dioses uno o no; si es personal o no; si es Señor de la historia o no; si es un Dios queama y se compadece o no; etc., no son cuestiones secundarias ante el cometido decomprender la realidad propia y ajena, y de recorrer el itinerario de la vida. Si lorelevante de la religión fuese exclusivamente el darse de una cierta religiosidad enel hombre, todas las cuestiones dogmáticas perderían su importancia; pero, conello, se debería renunciar a la pretensión de verdad en el ámbito más radical de laexistencia y los contenidos religiosos serían intercambiables o substituibles.

Las aberraciones a las que puede llegar el hombre invocando la religión sonuna advertencia constante acerca de la importancia de no dejar desasistido elámbito último de la existencia – la religión – de un enfoque en términos de ver-dad. Por lo demás, si Dios es reconocible porque se manifiesta en sus obras – enlo creado, en cuanto hechura de sus manos – es propio de un ser inteligente norenunciar al pensamiento para reconocer la manifestación divina. Todo ello seacrecienta si Dios, además, se revela y actúa salvíficamente en la historia, sinlimitarse – por decirlo así – a su acción creadora. En este caso, desentenderse apriori de la cuestión de la verdad de Dios, por considerar que lo único decisivo esposeer una cierta religiosidad que cada uno modulará según su cultura o inclina-ciones, significaría cerrarse de antemano al reconocimiento de dicha revelación ya la aceptación de su acción salvífica, en detrimento ontológico y existencial(soteriológico) del hombre.

La elaboración intelectual permite acometer la tarea de garantizar y justificarla apertura o de encaminar hacia ella, de profundizar en el conocimiento del Diosreconocido y de adquirir criterios de discernimiento ante la multitud de palabrasreligiosas o pseudoreligiosas; y, todo ello, sin actitudes impositivas o cerriles, aje-nas a la dignidad del hombre y a la esencia auténtica de la religión y del acto reli-gioso.

La no indiferencia de la cuestión de la verdad de Dios se pone de manifiestocon mayor fuerza, si se compara la comprensión del ser y la actitud existencial delcreyente, con la mirada y el enfoque de la vida del ateísmo radical. ComoNietzsche ha proclamado en La gaya ciencia, negar la realidad de la trascenden-cia significa privar al hombre del marco de referencia en el que comprender lofinito, en el que encontrar el sentido de una existencia marcada con el sufrimien-to que acompaña a sus goces, con el que orientarse en el ejercicio de la libertad14.

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note e commenti

13 I Jn. 4, 8.14 Cfr. F. NIETZSCHE, Die fröhliche Wissenschaft, Kritische Gesamtausgabe, Hrg. von G. Colli

und M. Montinari, Walter de Gruyter, Berlin 1973, Bd. VI/1, n. 125, pp. 158-159.

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La “muerte de Dios” supone que el hombre deberá habituarse a “mirar abismos”porque, faltando el Infinito, todo lo finito flota en una ausencia, vagabundea en lanada, se encamina a un vacío15.

La ausencia que el ateo nietzscheano confiesa es 1) una ausencia ontológica,porque lo finito está rodeado de la nada y se dirige a ella; 2) es también una ausen-cia de inteligibilidad, ya que falta el horizonte de comprensión último y se decla-ra que no existe la verdad sino solamente interpretaciones fugaces; y 3) consisteasí mismo en una ausencia de índole existencial, pues sin fin trascendente, elhombre está condenado a la inquietud sin tregua de quien nunca encontrará lo quele colma, porque no existe. La existencia que bosqueja Nietzsche se enfoca comouna creatividad lúdica16 – en la medida en que no hay teleología en sí – necesita-da del valor (Mut) de quien debe enfrentarse con su carácter trágico17.

En este contexto, la libertad se comprende en términos de posibilidad y depotencialidad, reivindicando la superación de pautas éticas, en cuanto se interpre-tan limitadoras de sus posibilidades. Situarse “más allá del bien y del mal” yrechazar una teleología en el hombre, implica considerar que éste no es compren-sible desde la noción de identidad. Un hombre sin identidad está abierto a todaslas posibilidades y su libertad consistirá en la voluntad de sí, en voluntad de supotencialidad (Wille zur Macht). La potencia está abierta a todo, cabe sentenciararistotélicamente. Sin embargo, una libertad enfocada desde la ausencia de iden-tidad, de fin y de Dios, es una libertad fundamentada en la mera potencia – contodas las aporías que conlleva fundamentar el acto en el “no ser” de la potencia –y además una libertad arbitraria, sin indicadores que la salven del peligro del des-potismo consigo misma o con el otro. Sin bien ni mal, sin verdad, con la solapotencialidad creativa de un hombre desamparado a sí mismo y a su vacía y tau-tológica autoafirmación, palabras como compasión, agradecimiento y confianza,abandono y esperanza, lealtad y compromiso, solidaridad, pierden sentido. Portodo lo que llevamos dicho con respecto a Nietzsche y lo visto anteriormente, esevidente la contraposición entre la actitud y la comprensión del hombre religiosoy del hombre no religioso, también cuando este último no llega a los extremos queNietzsche pretendía del ateo. La no indiferencia de las cuestiones concernientesla verdad de Dios y del hombre es clara.

6. El itinerario metafísico hacia Dios

La apertura religiosa y el reconocimiento de Dios tienen lugar como un des-cubrimiento y saber que lo finito posee su origen radical en un Ser infinito. Dios

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15 Cfr. F. NIETZSCHE, Also sprach Zarathustra, Vom Gesicht und Räthsel, 1, KritischeGesamtausgabe, op. cit., 1970, Bd. VI/1, pp. 194 ss.

16 Cfr. F. NIETZSCHE, Also sprach Zarathustra, Von den drei Verwandlungen, op. cit., pp. 25 ss.17 Cfr. F. NIETZSCHE, Nachgelassene Fragmente, Kritische Gesamtausgabe, op. cit., 1972, Bd.

VIII/3, fr. 14 [89], Die zwei Typen: Dionysos und der Gekreuzigte, pp. 58 ss.

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se reconoce en sus obras porque se manifiesta en ella y éstas remiten a Él.Percatarse de ello es un acto intelectual con alcance metafísico. Dicho en térmi-nos tomistas, la elaboración intelectual de los problemas suscitados por la expe-riencia de la finitud conduce, en primer lugar, a identificar el ser de las realidadescomo su acto más radical. El ser se muestra, entonces, como irreductible a la esen-cia y a los dinamismos causales del ente finito. El dinamismo finito, en cualquie-ra de sus ámbitos, consiste en un proceso o dar origen que estriba en transformar:afecta a las formalidades de lo real, presuponiendo constantemente el ser. Sinembargo, el ser no puede darse por descontado, en la medida en que la finitud delo finito lo es también del ser. La finitud del ser se constata en la contingencia ylimitación del ente. Surge, de este modo, la cuestión del origen radical del actoradical, cuando éste no es autárquico, como sucede en lo finito. La radicalizacióndel preguntar metafísico se dirige a la raíz presupuesta, y no tematizada ni inte-rrogada en las ciencias: el ser.

El origen del ser finito se reconoce en un Ser que supera el ámbito de la noautarquía y de la finitud. Por eso, dicho Ser no remite a otro ni es limitado, con loque su virtualidad originante alcanza el ser de lo finito, eso que se mantiene almargen de lo disponible para el actuar y el causar finitos. El Ser allende lo finitoes – como ya hemos anunciado – el Ser infinito, trascendente y absoluto. Por ello,su originar el ser no es semejante al causar de lo finito, sino un donar gratuito.

El Infinito y Trascendente no es aferrable intelectualmente por una inteligen-cia finita, de ahí que el Origen de lo finito se presente ante el hombre como unmisterio. Pretender sondearlo – llegar al fondo – o comprenderlo – abarcar lo quees – se resuelve en una presunción vana que acaba por perder a Dios. Sin embar-go, que no sea aferrable no equivale a que al hombre le esté vedado acercarse almisterio y desear penetrar, siquiera un poco, en el mar sin fondo de su riqueza. Elanhelo de conocer la verdad de Dios es, en sí, una primera respuesta a la exigen-cia teleológica del hombre.

El itinerario intelectual para madurar en el conocimiento de Dios no puedeconsistir ni en la onto-teo-logía criticada por Heidegger18, ni en un proceso deduc-tivo, como ha subrayado Fabro19. El pensamiento ontoteológico, característico delplanteamiento moderno, radica en una onto-logía en donde el logos humano seconstituye en la instancia definitiva de la verdad del ente. La razón pretende obte-ner deductivamente desde sí (cogito, Selbstbewußtsein) la totalidad de la verdad,partiendo del presupuesto de que la figura de la verdad es un sistema racional,abarcable por la razón y demostrable en y desde ella. De este modo, reprochaHeidegger, el logos avasalla al ente: en lugar de dejar que éste se manifieste en suverdad, la razón le impone sus parámetros e ideaciones. En la lógica de un siste-

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note e commenti

18 Cfr. M. HEIDEGGER, Die onto-theo-logische Verfassung der Metaphysik, en Identität undDifferenz, Neske, Pfullingen 1957.

19 Cfr. C. FABRO, Partecipazione e causalità, Società Editrice Internazionale, Torino 1960, p.238.

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ma racional, al ontología concluye con una teo-logía, en la que Dios es la piezaclave de la totalidad lógica, ya que cumple la función de ser la razón última quesostiene el sistema. La teología que se elabora con esta estrategia contiene unavisión lógica de un Dios según la medida de la razón humana: un Dios para nadadivino, ante quien nadie cae de hinojos para invocarle.

El conocimiento de Dios sólo es auténticamente de Dios si se sabe ante el mis-terio y lo respeta. La verdad de Dios no se puede deducir desde lo finito o desdeuna razón vuelta sobre sí misma, que pretenda demostrar todo a partir de sí. Laverdad de Dios es la fuente de toda verdad, por eso no se puede de-ducir (de-duco), es decir, “conducir fuera”, obtener o extraer desde un principio que la con-tuviera. Dio no se deduce; a Él se remonta el hombre re-conduciendo (re-duco) lofinito a su Origen. La modalidad de pensamiento especulativo que se remontahasta Dios, sabiendo lo finito como hechura de sus manos y, por tanto, recondu-ciendo su verdad metafísica a su origen y reconociendo la manifestación de Diosen su actuar en lo finito, es la de un pensamiento metafísico de carácter analógi-co.

La analogía indica que el logos, en este caso, en lugar de imponerse, se abre yse remonta hacia lo alto, con un dinamismo espiritual que incluye a toda la per-sona y se configura como itinerarium personae in Deum. Reconducir lo finito asu Origen infinito estriba en recorrer la via causalitatis – retomando la indicacióndel Areopagita y de Tomás de Aquino –, gracias a la cual el hombre se eleva haciala verdad trascendente en cuanto reconoce que en ella se halla el origen del ser yde la verdad de lo finito. Esta última remite al hombre hacia aquella y, en esamedida, es un lugar en que se alude; gracias a lo cual, la inteligencia finita puedereconocer algo de Dios, que, aunque pobre, es de gran valor para ella y para laexistencia.

Sin embargo, las afirmaciones que el hombre puede hacer sobre Dios graciasa su reconocimiento como Origen (Acto puro, Principio trascendente, Ser absolu-to y eterno, Plenitud de ser, Inteligencia creadora y omnipotente, Ipsum esse sub-sistens, etc.), necesitan ser continuadas por un dinamismo de negación (via nega-tionis) que purifique lo alcanzado, subraye la trascendencia e infinitud de Dios ymanifieste su misterio insondable. A este respecto, Tomás de Aquino – con unalucidez y honestidad intelectual dignas de ser notadas –, después de sintetizar víasintelectuales por las que el hombre se remonta a Dios, acentúa que saber qué ocómo es Dios – si tuviese sentido utilizar tales expresiones – no es posible para elhombre. Lo único que cabe hacer para ganar en su conocimiento es recorrer la víade la negación, removiendo cualquier signo de finitud. «Dado que de Dios nopodemos saber lo que es, sino lo que no es, no podemos considerar de qué modoes Dios, sino más bien de qué modo no es»20. Tras la reconducción (reductio) quepermite reconocer la existencia de Dios y algo de Él – pues de otro modo no sesabría de su existencia – es imprescindible la remoción (remotio).

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20 S. TOMÁS DE AQUINO, S. Th., I, q. 3, prooemium.

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Negar no significa aquí nulidad de conocimiento, como si el pensamiento, enlugar de encontrarse ante el misterio, se hallase ante una pura nada para él. Negares conocer que Dios es in-finito, sin composición (sin materia, sin cuerpo, sinpotencia), sin mengua de ser, sin necesidad de llevarse a cabo, sin multiplicidad:«Lo primero que hay que considerar, entonces, es de qué modo no es (...). De Diosse puede mostrar de qué modo no es, substrayendo de Él todo lo que no le es pro-pio, como la composición, el movimiento y cosas semejantes. De ahí que, en pri-mer lugar, haya que indagar acerca de su simplicidad, por la que se remueve deÉl la composición. Y, puesto que en lo corporal, lo simple son las cosas imper-fectas y las partes, en segundo lugar habrá que inquirir acerca de su perfección;en tercer lugar, acerca de su infinitud; en cuarto, acerca de su inmutabilidad; enquinto, acerca de su unidad»21.

Dios es la perfección absoluta, incomprensible, inabarcable. La conciencia demisterio insondable (subrayado en la via negationis) impulsa – como indica a sumodo Gregorio Nacianceno – a desear penetrar ulteriormente en ese abismoinsondable de verdad: Dios «posee en sí, abarcándolo, todo el ser (tò eînai); sinprincipio ni fin; como un mar de esencia (pélagos ousías), sin término ni límite;superando todo pensamiento del tiempo y de la naturaleza. Él es esbozado comoen claroscuro (skiagraphoúmenos)». Esto, continúa el teólogo, engendra en nos-otros el anhelo de acercarnos más a Él, pues «lo que es absolutamente incom-prensible (teléôs álêpton) no ofrece ninguna esperanza ni lleva a emprendernada», mientras que «lo que es incomprensible (aléptô) asombra; y lo que asom-bra suscita un deseo cada vez mayor»22. Volviendo al Pseudodionisio, la negaciónpropia del pensamiento analógico desemboca en la via eminentiae, en el recono-cimiento de la sublimidad de Dios y en el deseo anagógico de penetrar más en sumisterio sin fondo.

En este itinerario de la analogía hacia Dios, ocupa un lugar destacado la vía dela persona. Reparar en la dignidad ontológica del ser personal finito y de su saltometafísico, en cuanto “densidad de ser” con respecto a lo no personal, señala queen el camino hacia Dios es imprescindible elevarse desde la consideración delhombre, como indicaba San Buenaventura, distinguiendo entre el carácter de ves-tigio (vestigium) de Dios propio de lo no personal, y la índole de imagen (imago)de Dios característica del hombre. A través de los vestigios de Dios en lo cósmi-co se llega a la omnipotencia, a la sabiduría y a la bondad divinas23; gracias a suimagen en el hombre, se puede empezar a reconocerlo como un Dios personal deun modo más explícito24.

El Absoluto no es pensable en términos abstractos, como la ley del cosmos ouna unidad supraideal, pero todavía accesible desde el estatuto de la idea. El

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note e commenti

21 Ibidem.22 GREGORIO NACIANCIENO, Oratio 45, 2.23 S. BUENAVENTURA, Itinerarium, II, 124 IDEM, Itinerarium, I, 13.

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Absoluto no es la totalidad omniabarcante, ni la pieza clave de un sistema. La víade la negación es imprescindible en la elaboración intelectual; ella permite noabandonar su carácter trascendente. Dios no es uno (el sumo ente) junto a otros(los entes finitos). Como subraya el mismo Ricardo de S. Victor, Dios es inmen-so, tanto ontológica como noéticamente25. No tiene fronteras que lo delimiten conlo finito, ni es asequible para el intelecto. Pero si la vía de la eminencia se enfo-ca desde la persona, entonces el pensamiento reconoce que Dios es el Absolutopersonal, y su originar se discierne desde lo personal: Dios es el Absoluto que creapor liberalidad (pues en cuanto ab-solutus no depende ni tiene necesidad de nada)y por amor (pues en cuanto Ser pleno y personal, dona gratuitamente). En este iti-nerario, la ontología del ser y de la persona (no la onto-logía de la ratio moderna)se abre a una teología del Dios amor.

Es claro que los desarrollos intelectuales ahora esbozados han sido posibles enla historia gracias a la revelación bíblica; sin embargo, para una inteligencia quese da y piensa en la historia y desde la historia, son itinerarios que se pueden reco-rrer con la inteligencia y que permiten acercarse a dicha revelación. Las repercu-siones existenciales de todo ello son evidentes: el hombre, en cuanto ser personal,se sabe llamado a la existencia por un Dios que lo llama a Él. Dios, en su eterni-dad, llama desde el “futuro”; por eso, en la realización de esa llamada se encuen-tra la identidad plena del hombre.

En estas páginas hemos intentado delinear el itinerario que puede recorrer elhombre hacia Dios desde una perspectiva, entre otras posibles, en la que se entre-viesen sus dimensiones existenciales, hermenéuticas y metafísicas. Evidentemente,lo visto no deja de ser un esbozo, que requiere ulteriores desarrollos analíticos yespeculativos. De todos modos, lo que se pone de manifiesto en lo considerado,es la estrecha relación entre las tres dimensiones mencionadas; de ahí la impor-tancia de atender a la cuestión de la verdad en su conexión con la existencia en elactual contexto histórico.

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25 RICARDO DE S. VICTOR, cfr. De Trinitate, I, XIX; I, XX, etc.

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MARTIN RHONHEIMER

LEGGE NATURALE E RAGIONE PRATICAUna visione tomista dell’autonomiamorale

Collana: Studi di filosofia - 24a cura della Facoltà di Filosofia della PontificiaUniversità della Santa Croce

L’autore esplora sistematicamente la dottri-na di S. Tommaso sulla legge naturale, cer-cando di metterne in evidenza tanto l’intrin-seca coerenza quanto la relazione con altrecaratteristiche dei suoi insegnamenti sull’o-

perare umano. In questa visione filosofica ogni concezione della leggenaturale, essendo strettamente legata alla ragione pratica, includenecessariamente una definizione dell’autonomia morale che trova ilsuo fondamento nella ragione, là dove solo un essere razionale puòessere considerato “autonomo”. Si sviluppa quindi una riflessionemorale che fa giustizia sia dell’autonomia intellettuale delle persone,intesa come potere creativo nella comprensione e nella fondazione dimodelli fondamentali del bene umano, sia della dipendenza da ognimodello di pre-condizionamento.

pp. 576 € 31,00

studi di filosofia

MARTINRHONHEIMER

LEGGENATURALEE RAGIONEPRATICAUna visione tomistadell’autonomia morale

ARMANDO EDITORE

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Acerca del saber hacer. Estudio del hábitodel arte siguiendo a Tomás de Aquino

JUAN FERNANDO SELLÉS*

1. Planteamiento

Vamos a tratar del hábito racional del arte, el saber hacer. Para la exposiciónde tal hábito se sigue el hilo conductor de los textos de Tomás de Aquino. En estetema hay una serie de tesis tomistas pacíficamente aceptadas por los estudiosos.Destaquemos las siguientes: 1) El hábito de arte es una perfección racional en lavertiente práctica de la operatividad de esta potencia. 2) Este hábito permite trans-formar la realidad física, o la perfecciona. 3) Su objeto propio no es la verdad sinola verosimilitud. 4) Se distingue de los hábitos teóricos por el tema (lo contin-gente) y por el sujeto (la razón práctica), y de la prudencia por el tema (lo facti-ble en vez de lo agible).

Con todo, tras la lectura del cuerpo de doctrina tomista surgen una serie decuestiones que justifican abordar una vez más el estudio de este hábito tan clási-co. Además, tales cuestiones son de neta actualidad. De manera que replanteandoel tema podemos alumbrar una serie de soluciones a esas preguntas y pareceres enboga. A título de ejemplo se pueden indicar los siguientes puntos controvertidos:Como es sabido, es tesis tomista mantener que la prudencia y el arte son hábitosintelectuales distintos. En efecto, Sto. Tomás separa ambos hábitos hasta el puntode puede darse el uno, el de arte por ejemplo, sin que se dé el otro, el de pruden-cia. Con todo, una cuestión que se plantea en este trabajo es si, en el fondo, másque una taxativa separación entre ambos hábitos no se trata más bien de un mismohábito que se muestra más activado (prudencia) o menos activado (arte). En rigor,cabe preguntar si puede existir una taxativa separación entre arte y prudencia, esdecir, ¿cabe ser prudente sin hacer nada?, y a la par, ¿cabe hacer algo sin cierta

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ACTA PHILOSOPHICA, vol. 13 (2004), fasc. 1 - PAGG. 125-137

* Departamento de Filosofía, Universidad de Navarra, e.mail: [email protected]

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prudencia? Si el arte perfecciona la realidad externa, ¿acaso es uno inmune pordentro a las acciones externas que hace?

Otro asunto que cabe preguntar es acerca del origen de este hábito.Preguntémoslo así: ¿se llega a tener un saber práctico tras hacer muchas acciones,o por el contrario, es el saber práctico condición de posibilidad de la realizaciónde toda acción? Obviamente el pragmatismo se inclinaría por la primera parte dela alternativa, pero lamentablemente esta filosofía no cae en la cuenta que incli-narse por esa parte no es ningún hacer, ni tampoco una actitud derivada de algúnhacer previo, de modo que esto parece contradecir su propio postulado. Tal incli-nación preferencial tampoco es, obviamente ningún saber, sino seguramente faltadel mismo, precisamente porque esa tesis parece contradictoria. Entonces ¿cuál esla índole de tal actitud decisoria? Se trata, ante todo, de un elegir o preferir. Comoes obvio, elegir es de la voluntad. Con todo, una elección que no secunde la ver-dad racional cede al voluntarismo.

Por otra parte, el esteticismo y el relativismo cultural sumamente extendidosnos hacen proclives a sostener la tesis de que el arte, y consecuentemente la belle-za, son asuntos en mayor medida de gustos, es decir, relativos, opinables en exce-so, etc. Pero también esta tesis es cuestionable si se arroja luz sobre la índole delhábito artístico, visto, ante todo, como saber que versa sobre el hacer. En efecto,si el saber puede serlo según un más o un menos, es decir, es de índole jerárqui-ca, lo hecho debe responder a tal jerarquía.

Por lo demás, para muchos hoy en día todo el saber existente parece entera-mente de orden práctico, es decir, encuadrable exclusivamente dentro del ámbitode lo verosímil, de lo probable, campo propio también de la opinión (aunque tam-bién es verdad que se admite la existencia de opiniones más fundadas que otras).En efecto, en muchos ámbitos no parece bien visto aceptar y defender verdadesincuestionables, pues tal actitud se confunde con una especie de dogmatismo ofundamentalismo. Sin embargo, aparte de que tal hipótesis cae bajo su propia crí-tica, el hábito de arte (y también el de prudencia) tienen un carácter distintivo res-pecto de los hábitos teóricos. Y su distinción radica precisamente en que aquéllosversan sobre lo universal y necesario mientras que éstos se refieren a lo particu-lar y contingente. Pero si eso es así, se puede preguntar acerca de la superioridadde unos modos de conocer sobre otros. Además, se puede cuestionar asimismo sila superioridad conlleva subordinación del saber inferior al superior.

Examinemos, pues, estos puntos más de cerca a la luz de las enseñanzas tomistas.

2. La transformación de la realidad física

La práctica totalidad de referencias que Tomás de Aquino realiza a la tradiciónprecedente en el estudio del hábito de arte aluden a escritos aristotélicos1, con

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note e commenti

1 Especialmente al libro VI de la Ética a Nicómaco, alguna al VII, otras al libro II de la Física,y alguna al libro II del De Anima. Cfr. In III Sent., d. 26, q. 2, a. 4, sc; In Ethic., l. I, lect. 1,

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alguna salvedad al Damasceno2, y la consabida influencia de sus maestros3, que,por supuesto, conocían bien al Estagirita.

Para Tomás de Aquino el arte es un hábito4, y lo es de la razón5, de la razónpráctica concretamente6. Es la perfección intrínseca de la razón práctica en ordena uno de los dos fines que ésta puede tener, en este caso perfeccionar las cosas fac-tibles. No se refiere, por tanto, a las acciones humanas, como la prudencia, sino alas realidades exteriores: «factio est actus in exteriorem materiam»7. Eviden-temente, las realidades exteriores están dotadas de materia, materia que puededescribirse como la anterioridad según el tiempo8, porque es la causa que impidela completa actualización de lo físico. Por eso el de Aquino afirma que «el artefactivo no es otra cosa que la sustancia de la cosa hecha, y lo que era su ser»9. Eseser material se dispone por el arte para recibir una transformación.

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Juan Fernando Sellés

n. 8; 7.12.n14; In Post. Anal., l. II, lc. 9, n. 14; ibidem, l. II, lec. 20, n. 11; S.C. Gentes, l. I,cap. 93, n. 4; ibidem, l. II, cap. 24, n. 5; S. Theol., I ps., q. 103, a. 2, ad 1; ibidem, I-II ps., q.16, a. 3, sc; ibidem, q. 21, a. 2, ad 2; ibidem, q. 34, a. 1, ad 3; ibidem, q. 64, a. 3, sc; ibidem,q. 68, a. 4, ad 1; ibidem, II-II ps., q. 134, a. 1, ad 4; ibidem, III ps., q. 32, a. 4, ad 2; etc.

2 Cfr. S. Theol., I ps., q. 82, a. 4, sc.3 De Alejandro de Hales registra que el arte es el «principium faciendi et cogitandi quae sunt

facienda», S. Theol., II, 21 a, Grottaferrata, Roma, ed. Collegii S. Bonaventurae ad ClarasAquas, 1924, vols. I-IV; asimismo que «omnis artifex est sapiens per suam artem», ibidem,I, 649 a; que «potest artifex videre in se rem fiendam et iam factam», ibidem, II, 179 b; etc.Alberto Magno expuso una serie amplia de notas sobre el arte en su obra Super Etica, enOpera Omnia, Monasterii Westfalorum in aedibus Aschendorff, vol. XIV, 1 y 2, 1968-87:que es “virtus”, cfr., 103, 77. Asimismo, que en el hábito hay dos partes, una que dirige«quod est ratio factibilium, et haec est forma artis», y otra que inclina al acto por parte de laejecución de la obra, y en ambos casos se parece a la prudencia, cfr. 109, 58; que las virtu-des morales se distinguen del arte en la parte directiva, no en la inclinativa a la ejecución,cfr. 109, 58. Alude también a que el arte posee medio y fin, cfr. 102, 63; que junto con laprudencia son las dos virtudes medias entre las intelectuales y las morales, cfr. 394, 36; queel fin del arte está en el mismo artífice y la verdad se toma de lo que pertenece a ese arte; lofalso, en cambio, del defecto de la materia, cfr. 418, 79; que lo natural está sujeto a la ope-ración del arte, cfr. 429, 4; que este hábito perfecciona a la razón práctica, cfr. 431, 70. Añadetambién que el arte ayuda a la operación de la naturaleza, cfr. 432, 87, aunque sus operacio-nes no versan sobre lo mismo, cfr. 433, 45. A su operación la llama «factionem», cfr. 439,69; y sabe que tal hábito no es una virtud moral, cfr. 441, 83, describiéndolo como «habitusfactivus cum ratione», 435, 23; etc.

4 Cfr. In III Sent., d. 14, q. 1, a. 3, qc. d, sc. 2; De Ver., q. 10, a. 9, ad 6; In Metaph., l. VI, lect.,1, n. 10; ibidem, l. VII, lect. 8, n. 17; S. Theol., I-II ps., q. 60, a. 5, co; ibidem, q. 64, a. 3, sc;ibidem, II-II ps., q. 134, a. 1, ad 4.

5 Cfr. De Pot., q. 7, a. 1, ad 1; S. Theol., II-II ps., q. 134, a. 4, ad 3.6 Cfr. De Vir., q. 1, a. 7, co; In Ethic., l. I, lect., 1, n. 8; S.C. Gentes, l. III, cap. 25, n. 9.7 S. Theol. I-II, q. 57, a. 4, co; Cfr. asimismo: In Post. Anal., l. I, lect. 44, n. 11; In Metaph., l.

I, lect. 1, n. 34; In Pol., l. I., lect., 6; S. Theol., I-II ps., q. 34, a. 1, ad 3; ibidem, q. 57, a. 4,ad 1; ibidem, q. 68, a. 4, ad 1; ibidem, II-II ps., q. 47, a. 5, co; ibidem, q. 58, a. 3, ad 3; ibi-dem, q. 123, a. 7, co.

8 Cfr L. POLO, Curso de teoría del conocimiento, vol. IV, Primera parte, Eunsa, Pamplona1994, pp. 149 ss.

9 In Metaph., l. XII, lect. 11, n. 20.

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Trasformar significa cambiar de forma. Por “forma” aquí no se entiende estric-tamente la forma sustancial, sino más bien la figura o la configuración externa quepresenta esa causa. Pero para cambiar de conformación se requiere un nuevoimpulso o movimiento, es decir, una nueva eficiencia y, a su vez, se precisa de unanueva finalidad u orden distinto del propio de la naturaleza (el orden cósmico).Eso indica que el hombre no se conforma con el orden del universo, sino que, obien acelera su consecución, o bien lo cambia buscando más orden (o bien lasti-mosamente lo desordena y estropea). Con ello se puede concluir que el hábitoracional del arte es el medio por el cual el hombre añade al universo, y una prue-ba palmaria de que el hombre no es intramundano. Cambiamos el mundo por eltrabajo. De manera que el saber hacer, el hábito de arte, es condición de posibili-dad de todo trabajo. Primero es saber, luego hacer. Consecuentemente, a mássaber práctico, más posibilidad de transformación.

Al entrar en juego el movimiento entra en escena el espacio y el tiempo. Elespacio, porque «bajo el arte no caen sino esas cosas que son determinadas; puesel arte no es propio de las cosas infinitas»10. El tiempo, porque «el arte no sólodetermina que esto sea tal, sino que sea tunc»11, y con vistas al futuro, «pues nosparece hacer lo que está en nuestro arbitrio, lo cual es futuro; de este modo sonlos cuerpos del arte»12. Ello indica que, por estar dotadas de una materia particu-lar, las realidades artificiales son concretas y singulares13. Obviamente todas esasrealidades son contingentes, puesto que son posibles de ser o de no ser14, de serde un modo u otro. Si el arte trasforma lo contingente es porque le dota de otraforma que antes no tenía.

También la naturaleza transforma los seres contingentes, pero la diferenciaentre ambas transformaciones estriba en que «la naturaleza es un principio intrín-seco, y el arte es principio extrínseco»15 del cambio de la realidad física. Éste esel parecido que tienen el arte con la naturaleza, y en este sentido se dice que «elarte imita a la naturaleza»16, a saber, en su operación, pues mientras que la natu-raleza obra como autor principal, el arte lo hace como secundario, pues su misiónes ayudar al agente principal y llegar allá donde el aquél no puede. Por eso suplelos defectos de la naturaleza en esas cosas que pueden ser hechas tanto por natu-raleza como por arte, pero en otras que no puede hacer la naturaleza, el arte la

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10 In Physic., l. V, lect. 1, n. 10.11 S.C. Gentes, l. II, cap. 35, n. 3.12 Res. Ad Lect. Venet., a. 9, ad 9.13 Cfr. In Ethic., l. I, lect. 8, n. 5; De Subst. Separ., cap. 15/75.14 «Omne enim quod generatur vel per artem vel per naturam est possibile esse et non esse»,

In Metaph., l. VII, lect. 6, n. 8; «ars autem et prudentia (sunt) circa contingentia», S. Theol.,II-II ps., q. 47, a. 5, co. Cfr. también: S. Theol., I-II ps., q. 57, a. 6, co.

15 In Physic., l. II, lect. 14, n. 8.16 Cfr. In IV Sent., d. 42, q. 2, a. 1, co; De Ver., q. 11, a. 1, co; In Post. Anal., l. II, lect. 9, n. 14;

In Physic., l. II, lect. 4, n. 6; ibidem, l. II, lect. 13, n. 4; S.C. Gentes, l. II, cap. 75, n. 15; S.Theol., I ps., q. 117, a. 1, co.

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reemplaza porque sí puede. Un ejemplo de lo primero es la salud, que puede serefectuada tanto por la naturaleza como por el arte médico. En este sentido la medi-cina no es una ciencia, sino un arte. Un ejemplo de lo segundo es la edificaciónde una casa. En este sentido la arquitectura tampoco es una ciencia sino un arte.

El arte imita a la naturaleza en aquéllas cosas que pueden ser hechas tanto porarte como por naturaleza, lo cual no significa sólo hacer lo que la naturaleza hace,sino también, y sobre todo, actuar de modo semejante a como actúa la naturaleza,aunque lo que se haga sea distinto de lo que hace la naturaleza17. En aquellascosas que no puede hacer la naturaleza, el arte añade un plus de racionalidad. Asícomo toda la naturaleza se ordena a su fin por algún principio intelectivo, así tam-bién en las obras de arte se advierte que la racionalidad está presente siendo éstael principio, y marcando el fin de las obras de arte.

3. Naturaleza del hábito

El arte es «un hábito operativo»18 que se describe como «ratio recta factibi-lium»19 desde Aristóteles. Es la rectitud que adquiere la razón práctica cuandodirige20 la acción productiva, pues tal rectitud no la posee de entrada. Dirigir laacción productiva no indica sólo iluminar racionalmente las obras que hacemos,sino también y principalmente las mismas acciones. Se trata de atravesar de sen-tido la acción factiva humana21. Con todo, el hábito de arte «no es factivo de laoperación»22, sino que dirige la operación que se encarga de poner en movimien-to otras potencias que efectúan una obra. No es innato, sino que se adquiere. Nose adquiere, en cambio, el hábito de los primeros principios prácticos del que elhábito de arte depende.

Se dice recta ratio porque aunque su fin es perfeccionar la obra externa, ellono se consigue sin el intrínseco incremento que este hábito proporciona a la razón.Es conveniente no olvidar este extremo, pues a pesar de que se sostiene que «el

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17 La referencia más clara en este sentido se encuentra en el Proemio al comentario a la Políticade Aristóteles. Allí Tomás de Aquino explica que el orden que la razón sigue en el procesode construir la ciudad (que no es naturaleza) es similar al orden que la naturaleza sigue en laproducción de las cosas, es decir, de lo más sencillo a lo más complejo.

18 S. Theol., I-II ps., q. 57, a. 3, co.19 Cfr. In Ethic., l. I, lect. 1, n. 8; ibidem, l. II, lect. V, n. 3; ibidem, l. VII, lect., 12, n. 14; In

Metaph., l. I, lect. 1, n. 34; In Post. Anal., l. I, lect. 44, n. 11; ibidem, l. II, lect. 20, n. 11; S.C.Gentes, l. II, cap. 24, n. 5; Resp. Ad Lec. Ven., a. 9, ad. 8; S. Theol., I-II ps., q. 57, a. 3, co;ibidem, I-II ps., q. 57, a. 4, co; ibidem, I-II ps., q. 57, a. 5, ad 1; ibidem, I-II ps., q. 68, a. 4,ad 1. En otros pasajes lo define como «habitus factivus cum vera ratione», In Ethic., l. VI,lect. 3, n. 12; ibidem, l. VI, lect., 3, n. 19.

20 Cfr. In Metaph., l. I, lect. 1, n. 34; ibidem, l. XI, lect. 7, n. 8.21 Cfr. C. LLANO, Sobre la idea práctica, México Cruz O.: Universidad Panamericana, México

D.F. 1998.22 In Ethic., l. VII, lect., 12, n. 14.

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arte importa la rectitud de la razón acerca de las cosas factibles, esto es, acerca deesas cosas que se hacen en una materia exterior»23, lo primero, a saber, la rectitudde la razón, es previa y condición de posibilidad de que la obra hecha sea correc-ta, es decir, adquiera perfección.

La rectitud de la razón es previa sólo porque los actos (operaciones inmanen-tes), a los que este hábito se refiere, cuentan ya con sus objetos propios, a pesarde que éstos no estén todavía realizados en una materia exterior. Es el problemade la llamada idea ejemplar o forma, o arte sin más: «en cualquier artífice pree-xiste la razón de esas cosas que se constituyen por el arte... La razón de esas cosasque se hacen por el arte se llama arte o ejemplar de las cosas artificiales»24.Aquellos autores que no admiten la idea ejemplar previa, y mantienen que laforma del arte sólo se da al final del proceso factivo, se olvidan de esta distincióntomista de la primera época: «no es la misma la cognición de lo artificial segúnque se conozca ex forma artis, y según que se conozca ex ipsa re iam facta. Puesla primera cognición es sólo universal; la segunda puede ser también particular,como cuando veo alguna casa hecha»25.

Además, precisamente porque estos objetos o formas mentales son previos, sepuede decir de ellos que luego actúan como causa26 y medida27 de las cosas arti-

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23 In Post. Anal., l. I, lect., 44, n. 11.24 S. Theol., I-II ps., q. 93, a. 1, co. Cfr. asimismo: In I Sent., d. 27, q. 2, a. 3, ad 2 y ad 4; ibi-

dem, d. 32, q. 1, a. 3, ad 2; In II Sent., d. 18, q. 1, a. 2, co; De Ver., q. 8, a. 11, co; ibidem, q.8, a. 16, ad 7; In Metaph., l. V, lect. 2, n. 2; ibidem, l. VII, lect. 6, n. 24; ibidem, l XII, lect.11, n. 20; S.C. Gentes, l. I, cap. 72, n. 9; ibidem, l. II, cap. 76, n. 19; ibidem, l. II, cap. 92, n.6. Esas formas son “objetos” mentales. En cambio, las “formas” realizadas en lo hecho noson “objetos” intencionales, aunque responden al ejemplar. No son “hechas” sino “educidas”de la potencia de la materia (cfr. In Physic., l. VII, cap. 7), pero no por la propia virtualidadde ésta o de la naturaleza, sino que se imprimen en ella por un principio extrínseco (cfr. InPhysic., l. II, lect. 14, n. 8; In Metaph., l. XII, lect., 3, n. 4). Para la materia estas formas sonaccidentales. No se las puede llamar propiamente “forma”, en el sentido de forma sustancial,porque ésta es principio intrínseco. También las cosas artificiales se distinguen de las natu-rales por el movimiento, ya que no tienen en ellas mismas el principio del cambio (cfr. InPhysic., l. II, lect. 1, nn. 2, 5; ibidem, l. VIII, lect., 5, n. 3; In Ethic., l. VI, lect. 3, n. 16). Noconfundir las formas primeras (objetos) con las segundas supone saber que unas son sinmateria y las otras no, y que por eso una es universal y la otra particular. Además, “las for-mas que induce el artífice no producen similares a sí (cfr. In II Sent., d. 18, q. 1, a. 2, co),mientras que las naturales sí.

25 De Ver., q. 8, a. 16, ad 7. En otro lugar dice: «in egressu artificiorum ab arte est considera-re duplicem processum: scilicet ipsius artis ab artifice, quam de corde suo adinvenit; etsecundo processum artificiatorum ab ipsa arte inventa», In I Sent., d. 32, q. 1, a. 3, ad 2.

26 Nuestro intelecto «se habet ad res dupliciter: uno modo ut causae rerum, sicut formae prac-tici intellectus; alio modo ut causatae a rebus, sicut formae intellectus speculativi, quo natu-ralia speculamur», De Ver., q. 8, a. 11, co. Cfr. también: In Ethic., l. I, lect. 14, n. 7; S.C.Gentes, l. I, cap. 62, n. 5.

27 «Intellectus noster mensuratus est, non mensurans quidem res naturales, sed artificiales tan-tum», De Ver., q. 1, a. 2, co; «ars est mensura artificiorum, quorum unumquodque in tantumest perfectum inquantum arti concordat», S.C. Gentes, l. I, cap. 61, n. 7. Cfr. asimismo: S.C.Gentes, l. I, cap. 62, n. 5.

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ficiales, y en ello se distingue propiamente la razón práctica de la teórica. No porprevios dejan esos objetos o formas pensadas de acompañar a la obra en todo elproceso de su constitución hasta que se presenta consumado. Pero la acción nodepende ni de la forma sustancial ni de la materia a la que se aplican. En estepunto establece Tomás de Aquino una comparación entre este hábito y el intelec-to agente. Dice así: «el intelecto agente se compara a las especies del intelecto enacto, como el arte a las especies de las cosas artificiales, por las cuales es mani-fiesto, que las cosas artificiales no tienen la acción del arte»28. Como esas formasno son abstractos puros, pues se trata del objeto de la simple aprehensión prácti-ca, su intencionalidad no versa sobre la naturaleza, y además, no versan sobre loque es, sino sobre lo va a ser hecho, sobre lo que se puede hacer.

4. La verosimilitud práctica

Como es sabido, la verdad de la razón teórica se toma de la adecuación delentendimiento a la naturaleza. En la razón práctica, en cambio, «las cosas artifi-ciales se dicen verdaderas por orden a nuestro entendimiento»29. Y en otro lugar:«El intelecto práctico causa la cosa. Por eso es medida de las cosas que por él sehacen, pero el intelecto especulativo, ya que toma de las cosas, es en cierto modomovido por esas mismas cosas, y así las cosas miden»30. La falsedad en lo prác-tico vendría de una deficiencia en el obrar por parte de la operación31, que con-llevaría la inadecuación, ausencia de verdad, de la cosa mal hecha a la concepcióndel autor. Hay verdad práctica cuando lo hecho se adecua en su configuración (noen su ser, en su naturaleza), a la forma del entendimiento.

Además, a mi juicio, en lo práctico no se puede hablar propiamente de verdad,sino de verosimilitud32. Al principio tenemos el ejemplar, la forma, pero no la ver-dad práctica, porque todavía no hemos ejecutado nada. Cabría quedarse en merosplanos mentales, propósitos incumplidos o proyectos irrealizados. La razón prác-tica concibe su objeto (ejemplar previo) y tal cual está concebido, ni es verdadcomo adecuación, porque es sólo posible, y sobre el futuro, como declaraAristóteles en el Peri Hermeneias no hay verdad. Sólo es verdad cuando se hace

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28 In De An., l. III, lect. 10, n. 8. Añado dos citas más al respecto para perfilar la comparación:«intellectus agens comparatur ad possibile ut ars movens ad materiam, inquantum facit inte-ligibilia in actu, ad quae est intellectus posibilis in potentia», De Spirit. Creat., q. un., a. 10,ad 11; «licet sit similitudo quaedam intellectus agentis ad artem, non oportet huiusmodisimilitudinem quantum ad omnia extendi», De An., q. un., a. 5, ad 8.

29 S. Theol., I ps., q. 16, a. 1, co.30 Q. D. De Ver., q. 1, a. 2, co.31 Cfr. S. Theol., I ps. q. 17, a. 1, co.32 Cfr. mi trabajo: Razón teórica y razón práctica según Tomás de Aquino, «Cuadernos de

Anuario Filosófico», 101, Servicio de Publicaciones de la Universidad de Navarra,Pamplona 2000.

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la obra y se realiza bien, de acuerdo con lo previsto, aunque en el curso de la ela-boración haya que rectificar (de ahí el hábito) lo previsto.

Si se realizara la obra sin razón verdadera − sin hábito − quedaría una obrahecha, pero estaría realizada en mayor medida por causa de la fortuna33, que esprecisamente lo que se opone al arte. Como es claro, esa falta de razón, sería indi-cio de la carencia del hábito, falta de rectitud de la razón. La fortuna es lo que estáal margen de la razón, lo que no tiene plan lógico en su obrar, y como «el arte obrapor intención..., lo que está al margen de la intención del arte no se hace por elarte propiamente hablando. Y así, el ente per accidens que está al margen de laintención del arte, no se hace por el arte»34. Por lo demás, a pesar de que algo sehaga por arte, debido a que este saber versa sobre lo contingente, sobre lo no nece-sario, sobre lo no enteramente evidente, ahí cabe el error, «pues el defecto, comodice el Filósofo en el libro II de la Física, acontece tanto en esas cosas que sonsegún la naturaleza, como en esas que son según el arte, cuando no se consigue elfin de la naturaleza o del arte, por el cual se obra»35, o también, cuando «algo seopone a las reglas de actuación»36.

Como la verdad práctica es la adecuación última de lo hecho al conocimiento,ésta sólo se da de modo cabal al fin del proceso de elaboración de la obra, es decir,cuando ésta queda cumplimentada37. Y como esa cosa es algo real, es un ciertobien. Por eso, para Tomás de Aquino «el bien del arte se considera no en el mismoartífice, sino más bien en lo construido..., pues el hacer no es perfección del quehace, sino de lo hecho»38. Si eso es así, habrá tantas verdades prácticas y bienescomo obras hechas39, porque «el bien del hombre según que es artífice, es el biendel arte»40.

5. ¿Es el hacer ajeno a la moral?

El hábito de arte perfecciona, decíamos, por una parte a la razón práctica, y porotra, como acabamos de ver, a la obra hecha. Pero según el de Aquino no perfec-ciona al hombre como tal, sino sólo en cuanto a la capacidad racional de tal o cualsaber hacer: «en efecto, no se llama simplemente bueno a un hombre por el sólo

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33 Cfr. In Ethic., l. VI, lect. 3, n. 18.34 In Metaph., l. VI, lect. 2, n. 5.35 De Malo, q. 2, a. 1, co; Cfr. también: In Physic., l. II, lect. 14, n. 3.36 De Malo, q. 2, a. 1, co.37 Cfr. T. MELENDO, La naturaleza de la verdad práctica, «Studium», 26 (1986), p. 74.38 S. Theol., I-II ps., q. 57, a. 5, ad 1.39 «In diversis operationibus et artibus videtur aliud et aliud esse bonum intentum. Sicut in

medicinali arti bonum intentum est sanitas, et in militari victoria et in aliis artibus aliquodaliud bonum», In Ethic., l. I, lect. 9, n. 2; «omnes enim scientiae et artes appetunt quoddambonum», In Ethic., l. I, lect. 8, n. 4; «omne bonum humanum videtur esse opus alicuius artis,quia bonum hominis ex rationis est», In Ethic., l. VII, lect. 11, n. 10.

40 De Vir., q. II, a. 2, co.

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hecho de ser sabio y artífice, sino que se llama bueno relativamente; por ejemplo,buen gramático o buen artesano»41. Sin embargo, ¿cómo puede ser esto posible sise reitera frecuentemente que «la verdad del intelecto práctico se toma por con-formidad con el apetito recto, que no tiene lugar en las cosas necesarias, que nose hacen por la voluntad humana, sino sólo en las contingentes que pueden serhechas por nosotros, ya sea en las cosas agibles interiores, o en las factibles exte-riores»?42 Si la verdad del arte se toma por conformidad con la voluntad recta¿cómo es posible que el hombre no mejore o empeore como tal al ejecutar unaobra externa? Es claro que para que se dé el arte se requiere la voluntad, pues sinel querer no se puede ejecutar una obra. Pero si la voluntad es fuente de esas cosasque se hacen por arte43, ninguna de las acciones que realiza el hombre volunta-riamente le puede dejar a él indiferente, sino que, además de mejorar o empeorarla realidad externa, le modificará constitutivamente a él por dentro; y es claro queesa mejoría o deterioro se llama virtud o vicio.

Tomás de Aquino indica que el hacer no presupone que el apetito sea recto44.Pero como no se realiza nada sin apetito, necesariamente el hacer supone un ape-tito, bien sea éste recto o incorrecto. Por tanto el hábito de arte, como el de la pru-dencia, no puede quedar aislado de la voluntad, y consecuentemente, de las virtu-des o de los vicios. Para Tomás de Aquino el apetito recto lo requiere la pruden-cia, pero no el hábito de arte. Pero si eso es así, entonces ¿cómo decir que la ver-dad del arte se toma por conformidad con el apetito recto? La verdad y el bien delarte no dependen directamente del apetito recto, pero para realizar obras de arte,se precisa que intervenga la voluntad con su querer, y en este caso el hombrenecesita de la prudencia y de otras operaciones que derivan de las virtudes mora-les, y ahí sí interviene la rectitud o falta de ella de la voluntad.

Para el de Aquino el arte es previo y condición de la prudencia45, y ésta es con-dición de posibilidad del buen uso del arte, y por ello superior a él, porque lo diri-ge. Por eso cabe un uso bueno y un uso malo del saber hacer, porque la voluntad,que es de fin, impera al arte, que es de esas cosas que son hacia el fin, y como lavoluntad está dirigida por la prudencia, indirectamente lo está también el arte. Poreso se dice que el arte se conforma con el apetito recto. Pero entonces, ¿por quése sostiene que el arte no perfecciona al hombre como tal mientras que la pru-dencia sí? Tomás de Aquino sostiene que la prudencia se refiere al bien de la vidahumana íntegra mientras que las artes se refieren directamente a los fines propiosde ellas. Sin embargo, aunque directamente el fin del arte no sea la mejora huma-

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41 S. Theol., I-II ps., q. 56, a. 3, co.42 S. Theol., I-II ps., q. 57, a. 5, ad 3.43 «Voluntas est principium productionis eorum quae per artem producuntur in rebus humanis»,

In I Sent., d. 6, q. 1, a. 2, sc. 1.44 «El bien de lo artificial no es el bien del apetito humano, sino el bien de las mismas obras

artificiales, y por esto, el arte no presupone el apetito recto», S. Theol., I-II ps., q. 57, a. 4,co.

45 Cfr. S. Theol., I-II ps., q. 57, a. 3, ad 1.

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na, indirectamente no puede quedar al margen de ella. De manera que sólo bajola luz de la prudencia y en conexión con ella se puede dilucidar cuándo un arte esético o no, bueno para el hombre o perjudicial.

¿Cómo medir, pues, la jerarquía de las artes? De doble modo: uno, en virtuddel fin propio del arte; otro, en virtud del bien humano al que el arte sirve. Encuanto a lo primero, «el arte que versa sobre el fin impera al arte que se dirige alas cosas que miran al fin»46. Las distintas artes son disposiciones para el arte quetrata acerca del fin. Ésta es más universal que las demás. Las artes obran por unfin, y el último fin de la obra es el primer principio de todas las demás artes, puesen vistas a él se desarrollan aquéllas. Obviamente, no se trata del fin último de lavida humana, sino del fin de las artes prácticas. En cuanto a lo segundo, no hayque olvidar que las artes prácticas no son un fin en sí, pues todas ellas se ordenanal bien de la vida humana. Además, lo práctico no es un fin en sí. El interés porel interés carece de interés. El fin del saber práctico es la teoría, la forma más altade vida según el filósofo de Atenas47. En efecto, solucionamos los problemasprácticos para que la contemplación no choque con inconvenientes. De modo quelos hábitos de la razón práctica se deben subordinar y ordenar a la especulacióndel intelecto como a su fin.

De manera que de la mayor o menor racionalidad debemos tomar el más y elmenos del valor artístico. Una obra será tanto más artística cuanto más manifies-te el ingenio del hombre. Esto se formula ordinariamente preguntando cuándosabemos que una obra de arte lo es más que otra. Esa cuestión sólo tiene una posi-ble respuesta: los niveles artísticos dependen de los cognoscitivos de la razónpráctica. Hay que mantener, en consecuencia, que a más racionalidad, más arte, ya la par, que puede medir mejor el estatuto del arte aquel que sabe más teoría delconocimiento. Evidentemente, esto no supone ceder al juicio de gusto o al esteti-cismo; y por ello, se puede objetar que la tesis anterior no es democrática. Enefecto, no lo es; pero sí es coherente, pues si “ars est in ratione”, a más discurso,mejores medios y mejor fin; y, por tanto, más arte, mejor obra hecha, porque elladenota más racionalidad. Pero como el arte se debe subordinar a la prudencia, yésta debe gobernar a aquél, será mejor arte el que mejor sirva para humanizar alhombre. Como el hombre se humaniza según virtud, será mejor arte el que favo-rezca a los ciudadanos la adquisición de las virtudes.

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note e commenti

46 S. Theol., II-II ps., q. 26, a. 7, co. Cfr. la misma expresión en In I Sent., d. 3, q. 4, a. 1, ad 8;In III Sent., d. 27, q. 2, a. 4, qc. c, co; In IV Sent., d. 7, q. 3, a. 1, qc. b, co; ibidem, d. 18, q.2, a. 4, qc. a, ad 1; De Malo, q. 1, a. 5, co; ibidem, q. 8, a. 2, co; S.C. Gentes, l. I, cap. 1, n.2; ibidem, l. II, cap. 92, n. 6; ibidem, l. III, cap. 64, n. 2; ibidem, l. III, cap. 78, n. 5; S. Theol.,I-II, q. 8, a. 2, ad 3; ibidem, q. 9, a. 1, co; ibidem, q. 15, a. 4, ad 1; ibidem, q. 84, a. 3, co; S.Theol., II-II ps., q. 23, a. 4, ad 2; ibidem, q. 26, a. 7, co; ibidem, q. 40, a. 2, ad 3; S. Theol.,III ps., q. 32, a. 4, ad 2.

47 Cfr. ARISTÓTELES, Ética a Nicómaco, l. X, cap. 7 (BK 1178 a 6-7).

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6. El carácter distintivo del hábito de arte

Si comparamos el hábito de arte con los hábitos de la razón teórica cabría pre-guntarse si es inferior o superior a ellos y por qué. Esta cuestión, que afecta tam-bién a la prudencia48, como hábito práctico que es, se suele responder de modogeneral diciendo que conocer por conocer es superior a conocer para obrar; que larazón teórica es superior a la razón práctica, tanto en sus actos como en sus hábi-tos. Por tanto, al menos por su sujeto, su objeto y por su modo de constitución, loshábitos teóricos son superiores a los prácticos.

Por otra parte, conviene distinguir el arte de la experiencia. Esta diferenciaTomás de Aquino la toma del libro I de la Metafísica de Aristóteles, y se cifra enque «el arte versa sobre lo universal, la experiencia sobre lo singular»49. Es com-prensible, por consiguiente, que el que tiene el hábito de arte se equivoque pocoen cuanto al conocer, mientras que es fácil que se equivoque en la aplicación prác-tica de ese hábito. La diferencia entre arte y experiencia se toma in cognoscendotantum, pues aunque en el modo de obrar el arte y la experiencia no se diferen-cian, ya que uno y otro operan sobre lo singular, difieren, en cambio, en la efica-cia de la operación50, pues el que tiene experiencia, el experto, acertará más en lasacciones, aunque conozca menos el por qué de lo que hace. En el obrar, el arte yla experiencia coinciden, pues ambos terminan en lo práctico singular. Pero en elconocer se distinguen, porque el arte toma lo común de las diferentes experien-cias singulares.

En cuanto a lo moral, la primera distinción de ésta con el hábito de arte tam-bién está tomada de Aristóteles: «dice el Filósofo que la virtud es más cierta quetodo arte»51. El argumento que da estriba en que la virtud, como la naturaleza, seinclina a lo uno, no a la certeza del conocimiento. Como la naturaleza, la virtudposee un solo fin. El fin de la naturaleza es el orden del universo; el de la virtud,la felicidad. En cambio, el arte posee multiplicidad de fines. Así, como la moralestá orientada al fin, ésta se parece más a la naturaleza que al arte. La certezamoral no es una certeza esencial, pues ésta sólo se encuentra en la potencia cog-noscitiva (razón teórica), sino una certeza por participación, pues se trata de lacerteza que imprime la potencia cognoscitiva (razón práctica) en tanto que mueveinfaliblemente al fin propio de lo moral52.

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Juan Fernando Sellés

48 Cfr. mi trabajo: La virtud de la prudencia según Tomás de Aquino, «Cuadernos de AnuarioFilosófico», 90, Servicio de Publicaciones de la Universidad de Navarra, Pamplona 1999.

49 In Metaph., l. I, lect. 1, nn. 18 y 22.50 In Metaph., l. I, lect. 1, n. 20.51 In III Sent., d. 26, q. 2, a. 4, sc. 2. Cfr. también el corpus del artículo de la cita anterior y

estas otras referencias: De Ver., q. 10, a. 20, ad 9 y S. Theol., II-II ps., q. 18, a. 4, co. En laprimera de ellas se toma a Cicerón como autoridad.

52 S. Theol., II-II ps., q. 18, a. 4, co, donde concluye que «per hunc modum virtutes moralescertius arte dicuntur operari, inquantum per modum naturae moventur a ratione ad suosactus».

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¿Por qué se parece la moral en su inclinación más a la naturaleza que al arte?Porque «en las cosas artificiales la razón se ordena al fin particular, que es algopensado por la razón. Pero en la morales se ordena al fin común de toda la vidahumana»53, que es ser feliz. El error en una y otra deriva de esta doble finalidad.El arte yerra cuando no consigue el fin particular que pretende. En cambio, unaacción moral es mala en la medida en que no apunta, desdice, no lleva al fin delhombre. El primer error se da en el hombre en cuanto artífice, mientras que en elsegundo el hombre yerra en cuanto hombre. «De ahí que el filósofo diga, en ellibro VI de la Ética a Nicómaco, que en el arte es preferible el que peca querien-do; en cambio, lo es menos acerca de la prudencia, como en las virtudes moralesde las que la prudencia es directiva»54. Es distinto también el influjo que ejercenlas circunstancias sobre el arte o sobre la virtud moral, pues «hay algunas cir-cunstancias que son pertinentes para el acto moral que no lo son para el arte, y alrevés»55.

Es precisamente lo que separa al arte de la virtud, lo que acerca al hábito dearte al de ciencia: «la ciencia y el arte, según su razón propia, importan orden aalgún bien particular, no, en cambio, al fin último de la vida humana, como lasvirtudes morales, que hacen bueno al hombre simpliciter»56. Decir que el arte y laciencia se refieren a bienes particulares, a objetos determinados y no al fin últimode la vida humana, es hacerlos coincidir en cuanto a la razón de hábito, pues loshábitos se distinguen por sus actos, y éstos por sus objetos. Si bien el sujeto (razónpráctica) y la materia (lo contingente) del hábito de arte es de la misma naturale-za que el de la prudencia, y en eso se separa de los hábitos especulativos, convie-ne más con aquéllos que con la prudencia por la razón de hábito57.

En efecto, la distinción de los hábitos especulativos y del arte con la pruden-cia viene determinada por la precedencia de la voluntad o por seguir a la misma.Todos los hábitos de la razón − teóricos o prácticos − a excepción de la pruden-cia, preceden a la voluntad, mientras que ésta la sigue58. Ello indica que la pru-dencia es más cercana a la denominación de virtud en sentido propio que las otras,pues ésta toma de la voluntad su principio, mientras que las demás sólo dependenen su uso. Pero ello no indica que la prudencia sea más hábito que los demás.

En cuanto a la distinción entre el hábito de arte y los hábitos de la razón teóri-

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note e commenti

53 S. Theol., I-II ps., q. 21, a. 2, ad 2.54 Ibidem. De ahí que «el bien del arte se considera, no en el artífice, sino en la misma obra

producida... Pero el bien de la prudencia está en el mismo agente, cuya perfección consisteen la acción misma», S. Theol., I-II ps., q. 57, a. 5, ad 1. Cfr. asimismo: In Ethic., l. 6, lect.4, n. 13.

55 De Malo, q. 8, a. 2, co.56 S. Theol., II-II ps., q. 23, a. 7, ad 3.57 «Prudentia magis convenit cum arte quam habitus speculativi, quantum ad subiectum et

materiam. Utrumque enim est in opinativa parte animae, et circa contingens aliter se habe-re. Sed ars magis convenit cum habitibus speculativis in ratione virtutis, quam cum pruden-tia», S. Theol., I-II ps., q. 57, a. 4, ad 2.

58 Cfr. De Vir., q. 1, a. 7, co.

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ca, la separación entre ellos también es neta. El arte se distingue de la ciencia enque el primero se refiere a lo contingente y la segunda a lo universal y necesario.Del hábito de los primeros principios se separa el arte por lo mismo, porque ésteversa sobre lo contingente y aquél sobre lo necesario, al igual que el de sabidu-ría59. Los primeros principios teóricos son el fundamento de la demostración,como los primeros principios prácticos lo son de lo agible, ¿pero tiene el hábitode arte como fundamento unos primeros principios prácticos distintos de los quefundamentan la prudencia? Seguramente no, por eso tampoco conviene separar enexceso la prudencia del saber hacer.

7. Conclusiones

Se exponen a continuación sintéticamente algunas de las conclusiones que sepueden sacar de la lectura del tratamiento tomista del hábito de arte: El saberhacer se da con el hacer, lo acompaña, pero no se da por el hacer, es decir, el hacerno es previo y condición de posibilidad del saber hacer, sino a la inversa, el saberposibilita el hacer.

El hacer es espacio−temporal. En cambio, el saber hacer es extraespacial yextratemporal. Por eso puede modificar el espacio y el tiempo físicos, es decir, elorden del universo.

El saber hacer acelera el orden de la realidad física o le dota a ésta de másorden del que tiene, y lo lleva a cabo mediante el trabajo.

El arte, y consecuentemente la belleza, no es un asunto de gustos, sino de máso menos racionalidad práctica.

Este hábito factivo permite perfeccionar (o deteriorar) la naturaleza sensible,pero no es ajeno al perfeccionamiento (o deterioro) de la naturaleza humana.

El hábito de arte no es ajeno a la voluntad. Por tanto, no admite una separacióntajante de la prudencia y de las virtudes morales.

Este hábito es distinto de los teóricos de la razón tanto por su tema como porsu sujeto. La distinción estriba en que es inferior (menos cognoscitivo) que ellos.En consecuencia, se pueden deducir dos cosas: a) los hábitos teóricos deben sercondición de posibilidad de este hábito; b) este hábito debe subordinarse a aqué-llos, es decir, debe tener a aquéllos como su fin.

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Juan Fernando Sellés

59 Cfr. S. Theol., II-II ps., q. 47, a. 5, co.

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IGNACIO YARZA

LA RAZIONALITÀDELL’ETICA DI ARISTOTELEUno studio su Etica Nicomachea I

Collana: Studi di filosofia - 23a cura della Facoltà di Filosofia della PontificiaUniversità della Santa Croce

L’opera si propone di avvicinare il lettore alladimensione scientifica dell’etica di

Aristotele, avvalendosi delle principali novità della recente letteratura,attenta alla rivalutazione della dialettica nei suoi trattati etici e al recu-pero della prospettiva personale che permette l’elaborazione delloscritto, alla ricerca di una completa riabilitazione del sapere praticoaristotelico. Con questo intento lo studio si volge in particolare all’a-nalisi del processo inventivo che determina e definisce le caratteristi-che specifiche e l’universalità di tale sapere, che per il grande filosofogreco merita il titolo di scienza.

pp. 208 € 16,53

studi di filosofia

IGNACIOYARZA

LA RAZIONALITÀDELL’ETICADI ARISTOTELE

Uno studio suEtica Nicomachea I

ARMANDO EDITORE

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L’ontologia di Tommaso d’Aquino e le scienze naturali

G. TANZELLA-NITTI*

1. Introduzione

Scopo di questo contributo è richiamare alcuni aspetti del rapporto fra Dio e lanatura alla luce della metafisica e della filosofia della natura di San Tommasod’Aquino (1224-1274). Cercheremo di mostrare quali siano, a nostro avviso, lecaratteristiche principali dell’ontologia tomasiana in tale ambito, avendo comeprincipale intento quello di valutarne le potenzialità di dialogo e di chiarimentoepistemologico nei confronti delle scienze naturali, specie in merito alle loro pos-sibili implicazioni per la filosofia e per la teologia. Dato lo specifico oggetto dellanostra analisi, lo faremo in modo sintetico, limitandoci ad esporre alcune tesi sche-matiche corredandole da brevi commenti. Il lettore interessato ad una più ampiatrattazione del rapporto fra Dio e natura e ad un approfondimento del pensiero diSan Tommaso in proposito potrà avvalersi di numerosi studi già esistenti1.

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ACTA PHILOSOPHICA, vol. 13 (2004), fasc. 1 - PAGG. 139-157

* Facoltà di Teologia, Pontificia Università della Santa Croce, Piazza Sant’Apollinare 49,00186 Roma

1 Per una introduzione bibliografica ad una filosofia della natura di ispirazione tomista si vedaad es. E. AGAZZI, Filosofia della natura. Scienza e cosmologia, Piemme, Casale Monferrato1995; M. ARTIGAS - J.J. SANGUINETI, Filosofia della natura, Le Monnier, Firenze 1989; J.MARITAIN, La filosofia della natura, Morcelliana, Brescia 1974; J.-H. NICOLAS, L’originepremière des choses - L’univers ordonné à Dieu pour Dieu - Être créé, «Revue Thomiste»,91 (1991), pp. 181-218, 357-376, 609-641; M.J. NICOLAS, L’idée de nature dans la penséede St. Thomas d’Aquin, Téqui, Paris 1979; F. SELVAGGI, Filosofia del mondo, Pont. Univ.Gregoriana, Roma 1993.Più in generale, sul rapporto fra Dio e natura in un contesto storico-filosofico, cfr. La risco-perta della natura, «Per la Filosofia», 9 (1994), n. 3; J.J. CLARKE (a cura di), Nature inQuestion. An Anthology of Ideas and Arguments, Earthscan, London 1993; É. GILSON, Lospirito della filosofia medioevale (1932), Morcelliana, Brescia 19885: in particolare, Ilmedioevo e la natura, pp. 441-465; D.C. LINDBERG - R.L. NUMBERS (a cura di), Dio e natu-

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Dopo aver riassunto gli elementi di originalità dell’ontologia di SanTommaso (paragrafo 2), ci occuperemo di tre aspetti di maggiore interesse peril rapporto fra Dio e natura, ovvero: a) il modo di comprendere la nozionemetafisica di creazione (paragrafo 3), b) il rapporto esistente fra Causa primae cause seconde (paragrafo 4), e c) le virtualità contenute nella nozione meta-fisica di “natura”, intesa questa volta come principio operativo dell’ente corri-spondente alla sua specifica essenza (paragrafo 5). Di tali considerazioniriprenderemo poi alcuni concetti allo scopo di dedurne applicazioni per un dia-logo con la visione del cosmo come ci viene presentata dalle scienze naturali(paragrafo 6).

2. I principali elementi di originalità dell’ontologia di San Tommasod’Aquino

Come è noto, il pensiero di Tommaso d’Aquino intende operare una sintesioriginale fra platonismo e aristotelismo, componendo le virtualità filosofiche diuna causalità fondata sia sulla forma (Platone), sia sull’atto (Aristotele). Taleoperazione risulterà possibile comprendendo la nozione di Essere come atto epredicandola di Dio come Puro e assoluto Atto di Essere. Dio non è più coltosolo come Bene, Pensiero o Vita supremi, come essere necessario o come primoagente non mosso; né solo come primo Principio, di cui Aristotele aveva già pre-dicato la realtà di puro atto senza mescolanza di potenza: San Tommaso indicaDio come Colui la cui essenza è il Suo atto di esistere, cioè Essere fontale, total-mente in atto.

Ne risulta così la possibilità di accostarsi all’Essere come causa, e di farlo inmodo radicale, autenticamente ontologico. Per Aristotele Dio era sì l’origine del-l’essere universale, ma solo in quanto origine del moto universale. Lo Stagiritacomprende la causalità solo nell’ordine del divenire, al livello delle trasformazio-ni che accadono in natura; egli non si interroga sul motivo dell’esistenza dellecose, che dava per scontata: lo stesso Primo motore viene postulato per risolverel’origine del moto, non la causa dell’esistenza.

Platone aveva sviluppato una causalità di tipo verticale, nella linea della par-tecipazione graduale delle perfezioni degli esseri, perfezioni formali che esisteva-no in modo separato. Aristotele aveva invece sviluppato una causalità di tipo oriz-zontale, legata alla capacità di causare e di generare secondo la propria formanaturale. Per il primo le forme esistono separate dalla natura, per il secondo soloin quanto causa della composizione degli enti naturali (composizione ilemorfica,cioè di materia e forma).

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note e commenti

ra. Saggi storici sul rapporto fra cristianesimo e scienza, La Nuova Italia, Firenze 1994;W.A. WALLACE, The Modeling of Nature: Philosophy of Science and Philosophy of Naturein Synthesis, The Catholic Univ. of America Press, Washington 1996. Più recentemente, R.MARTÍNEZ - J.J. SANGUINETI (a cura di), Dio e la natura, Armando, Roma 2002.

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Come lucidamente messo in luce da Cornelio Fabro nel suo studioPartecipazione e causalità (1960)2, San Tommaso giunge così ad una dottrinadella causalità capace di legare con continuità l’aspetto trascendentale e quellopredicamentale. La causalità trascendentale si realizza nella linea della partecipa-zione dell’esse, ovvero della costituzione di un effetto che è soggetto di un atto diessere e di una specifica essenza. La causalità trascendentale è l’origine, il fonda-mento dell’essere e dell’operare dell’effetto, in quanto ne possiede le ragioni ulti-me. San Tommaso la deriva dall’intuizione aristotelica dell’esse, ma la sviluppaservendosi principalmente di elementi platonici. La causalità predicamentale,diversamente, si realizza mediante l’azione della forma, di cui segue le proprietà,riproducendole nell’effetto. San Tommaso la deriva dalla intuizione platonica del-l’esemplarità della forma, ma la sviluppa servendosi principalmente di elementiaristotelici3.

L’originalità tomasiana risalta anche tenendo presente che nel platonismo lapartecipazione giungeva ad annullare la causalità (in ambito trascendentale per-ché la separazione dell’idea esemplare dal mondo naturale trasformava l’esse par-tecipato in una sorta di prima creatura; in ambito predicamentale perché la sepa-razione dell’idea-forma poteva causare al più una somiglianza, ma non una verae propria causazione di origine). Nell’aristotelismo, invece, la causalità giungevaad annullare la partecipazione (in ambito trascendentale perché l’Atto posseden-do e comprendendo sé stesso non lasciava spazio alla pensabilità di oggetti diver-si da Sé; nell’ordine predicamentale perché causa ed effetto stanno sullo stessopiano ontologico, secondo una causazione legata ad una identità di specie, senzapossibilità di graduazione). Secondo una linea platonica, i partecipanti ottengonoal più una somiglianza dell’atto partecipato e non una partecipazione che sia unareale derivazione dell’atto stesso. In una linea aristotelica, l’effetto ha una identi-tà di natura con il causante e dunque non ammette una scala gerarchica di perfe-zioni se non a livello di cause.

Nella sintesi proposta da San Tommaso, come opportunamente segnalato nelgià citato saggio di Fabro, partecipazione e causalità non si annullano a vicenda.Ad essere partecipato è infatti proprio l’Atto di Essere, non la forma o l’idea.L’actus essendi è principio totale e adeguato dell’ente partecipato, causa trascen-dentale di esso ma anche sorgente ultima di ogni sua causa predicamentale, per-ché a questo atto si deve il sostegno ontologico dell’essenza o della forma. Daquesta impostazione dipenderanno le principali tesi ed intuizioni della dottrinadell’Aquinate sulla creazione e sul rapporto fra Creatore e creature. Cominciamocon il richiamare sinteticamente la prima.

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Giuseppe Tanzella-Nitti

2 Cfr. C. FABRO, Partecipazione e causalità secondo San Tommaso d’Aquino, SEI, Torino1960.

3 Cfr. C. FABRO, Partecipazione e causalità secondo San Tommaso d’Aquino, op. cit., pp. 316-318. Sul tema, cfr. anche R. FISICHELLA, Oportet philosophari in theologia, «Gregorianum»,76 (1995), p. 252.

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3. La dottrina metafisica sulla creazione

Proprio in vista di un chiarimento con le scienze naturali, come vedremo piùavanti, la dottrina sulla creazione risulta della massima importanza. Basterebbe unsemplice sguardo ai titoli di alcuni articoli delle questioni della Prima Pars dellaSumma Theologiae dedicate a questo tema per convincersi dell’attualità del pen-siero dell’Aquinate. Vi leggiamo ad esempio: «Se la materia prima sia stata crea-ta da Dio» (q. 44, a. 2); «Se l’universo sia sempre esistito» (q. 46, a. 1); «Se lacreazione delle cose sia avvenuta all’inizio del tempo» (q. 46, a. 3); «Se la mol-teplicità e la distinzione delle cose derivino da Dio» (q. 47, a. 1); «Se esista unmondo solo» (q. 47, a. 3). Non poche opere contemporanee di divulgazione scien-tifica, o saggi di scienziati contenenti riflessioni sul rapporto fra filosofia ecosmologia fisica, presentano le medesime domande nei titoli di vari loro capito-li. È sufficiente ricordare, ad esempio, le problematiche contemporanee circa laragionevolezza di modelli cosmologici che intendono descrivere le fasi inizialidell’universo prescindendo dalla variabile “tempo”, o il dibattito sulla plausibili-tà di quei modelli che danno origine a molteplici universi, fra loro indipendenti4.

Ci si può accostare alla nozione di “creazione” secondo tre accezioni: in sensoattivo, cioè come atto del Creatore che chiama in essere tutte le cose partecipan-do loro l’actus essendi; in senso passivo, intendendovi il creato, come effetto del-l’atto creatore; ed infine comprendendola come relazione che fonda la creatura nelsuo legame costitutivo con il Creatore. Per San Tommaso è quest’ultima accezio-ne ad avere la maggiore pregnanza metafisica e ad illuminare maggiormente laverità della creazione stessa. «La creazione determina una entità nella cosa crea-ta soltanto secondo la categoria della relazione; poiché ciò che è creato non vieneprodotto per mezzo di un moto o di una mutazione [...]. La creazione nelle crea-ture non è altro che una certa relazione verso il Creatore, causa del loro essere»5.

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note e commenti

4 Per un’esposizione in merito alle loro implicazioni filosofiche, cfr. G. GALE, CosmologicalFecundity: Theory of Multiple Universes, in Physical Cosmology and Philosophy, a cura diJ. LESLIE, Macmillan, New York 1990, pp. 189-206; G. ELLIS, Major Themes in the Relationbetween Philosophy and Cosmology, «Memorie della Società Astronomica Italiana», 62(1991), pp. 553-605; C.J. ISHAM, Quantum Theories of the Creation of the Universe, inQuantum Cosmology and the Laws of Nature, a cura di R. RUSSELL - N. MURPHY - C. ISHAM,Vatican Observatory and The Center for Theology and the Natural Sciences, Città delVaticano - Berkeley (CA) 1993, pp. 49-89; J.J. SANGUINETI, La creazione nella cosmologiacontemporanea, «Acta Philosophica», 4 (1995), pp. 285-313; J. ZYCINSKI, Metaphysics andEpistemology in Stephen Hawking’s Theory of the Creation of the Universe, «Zygon», 31(1996), pp. 269-284.

5 «Creatio ponit aliquid in creato secundum relationem tantum. Quia quod creatur, non fit permotum vel per mutationem. Quod enim fit per motum vel mutationem, fit ex aliquo prae-existenti, quod quidem contingit in productionibus particularibus aliquorum entium; nonautem potest hoc contingere in productione totius esse a causa universali omnium entium,quae est Deus. Unde Deus, creando, producit res sine motu. Subtracto autem motu ab actio-ne et passione, nihil remanet nisi relatio, ut dictum est. Unde relinquitur quod creatio in crea-

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In senso stretto, Dio non ha creato il mondo, bensì lo crea. La creazione non è unmoto, né un mutamento, né un passaggio dalla potenza all’atto, in quanto è chia-ro che il nulla non è l’essere in potenza e che l’atto stesso della creazione è un attotrascendente, la cui causa è fuori del tempo e il cui effetto è costituito nel tempo,insieme al tempo. La creazione, in quanto relazione, non “si aggiunge” ad un sog-getto (la creatura), ma piuttosto, in certo modo, lo “costituisce”: tale relazione èessa stessa una determinata realtà, la realtà appunto dell’ente ut creatura6.

Da questa particolare concezione deriva un importante chiarimento sulla natu-ra del tempo. Per San Tommaso il tempo non può essere una misura della crea-zione: «Si dice che le cose furono create all’inizio del tempo, non perché l’iniziodel tempo sia misura dell’atto creativo medesimo: ma perché il cielo e la terrasono stati creati insieme col tempo. [...] Ora la creazione non è un moto e neppu-re termine di un moto»7. La creazione, sostiene Tommaso, non è un atto che leghidue termini equivalenti o compossibili, ma qualcosa di radicalmente nuovo, per-ché non esiste alcun sostrato comune fra il non essere e l’essere. Con un’affer-mazione che susciterebbe certamente l’interesse dei cosmologi contemporanei,aggiungerà che un certo sostrato comune fittizio, puramente funzionale e dicomodo, può darsi solo nella nostra immaginazione. Ecco le parole dell’Aquinatenel De Potentia Dei: «Si trova che ci sia un sostrato comune soltanto rispetto alla

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Giuseppe Tanzella-Nitti

tura non sit nisi relatio quaedam ad creatorem, ut ad principium sui esse» (SummaTheologiae, I, q. 45, a. 3, resp.). Si consideri un testo parallelo della Summa Contra Gentiles:«La creazione infatti non è una mutazione, ma è la dipendenza stessa dell’essere creato inrapporto al principio che lo fa esistere. Quindi è nella categoria della relazione» (ContraGentiles, II, c. 18); cfr. anche De Potentia, q. 3, a. 3.

6 Da queste considerazioni non va dedotta l’idea che tutto l’essere si riduca a relazione: siafferma soltanto che la creaturalità è una relazione. Ogni relazione certamente inerisce in unsoggetto costituito, e dunque lo segue, ma l’atto che pone quel soggetto in essere inaugurauna relazione che, in certo modo, lo precede. San Tommaso ne offre chiarimenti nel citatoarticolo della Summa (cfr. I, q. 45, a. 3, ad 3um). Sul tema dell’essere della relazione creatu-rale, non facile da affrontare a motivo della peculiarità della relazione stessa, riportiamo ilcommento di Carlos Cardona: «La creazione, intesa formalmente, non pone nulla nel sog-getto, se non la sua relazione col Creatore; relazione che, quanto all’essere che ha nel pro-prio soggetto, è un accidente conseguente allo stesso soggetto creato. Ma in quanto fine del-l’azione creatrice divina questa relazione ha una certa natura di priorità. Come accidente èposteriore, benché non derivi dai principi del soggetto (al contrario di ciò che accade con lepotenze operative), ma in quanto nasce dall’azione dell’Agente divino, e precisamente dal-l’azione con la quale costituisce il soggetto stesso o creatura, in questo senso ha una certapriorità. In quanto la creazione è una relazione, la creatura (non assoluta, relativa) è il suosoggetto ed è anteriore alla relazione nell’essere, come il soggetto è precedente all’acciden-te. Ma ha una certa natura di priorità da parte del termine al quale si riferisce, che è ilPrincipio stesso della creatura: Dio nella sua eternità» (C. CARDONA, Metafisica del bene edel male, Ares, Milano 1991, p. 58). Fra i luoghi tomisti di interesse, cfr. De Potentia, q. 3,a. 3, ad 3um e Resp. ad Ioann. Vercell., decl. 108, dub. q. 95.

7 «Non dicuntur in principio temporis res esse creatae, quasi principium temporis sit creatio-nis mensura sed quia simul cum tempore caelum et terra creata sunt» (Summa Theologiae,I, q. 46, a. 3, ad 1um). «Creatio autem neque est motus neque terminus motus» (ibidem, ad2um). Testi paralleli in Summa Theologiae, I, q. 45, a. 2, ad 3um; De Potentia, q. 3, a. 2.

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nostra immaginazione, in quanto ci immaginiamo un tempo comune a quando nonc’era il mondo e a dopo che il mondo è stato portato nell’essere. Nello stessomodo in cui, infatti, non c’è un’estensione reale al di fuori dell’universo e pos-siamo tuttavia immaginarla, così prima del principio del mondo non c’era untempo, benché sia possibile immaginarlo. E da questo punto di vista la creazionenon è un mutamento, ma lo è soltanto rispetto ad una nostra immaginazione»8.

Nel contesto della comprensione della creazione come relazione e della “filo-sofia del tempo” che vi soggiace, va ricordato che per San Tommaso anche unmondo esistente ab aeterno, da un tempo infinito, sarebbe per questo, nondime-no, un mondo creato9, e che la ragione non è in grado di dimostrare l’esistenza omeno di un inizio del tempo10. La creazione ab initio temporis va considerata unaconclusione consegnataci dalla Sacra Scrittura, di per sé inaccessibile al pensierofilosofico: «Che il mondo non sia sempre esistito è tenuto soltanto per fede, e nonpuò essere provato con argomenti dimostrativi. La ragione è che l’inizio delmondo non può essere dimostrato partendo dal mondo stesso»11. Notiamo che ilmotivo appena segnalato dall’Aquinate ricorda da vicino i moderni problemi diincompletezza incontrati dalla logica matematica e dalla filosofia del linguaggio,i quali, per comprendere in modo esauriente un certo sistema, segnalano la neces-sità di ricorrere a principi primi o a un metalinguaggio esterni al sistema stesso.

Aver sottolineato l’aspetto della creazione come relazione, consente a SanTommaso di impostare il rapporto fra creazione e conservazione nell’essere.Ambedue possono, a rigore, considerarsi ex parte Creatoris aspetti del medesimoatto di partecipazione dell’essere12. Se vi è un primo istante dell’essere del

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8 «Invenitur tamen aliquod commune subiectum esse secundum imaginationem tantum, proutscilicet imaginamur unum tempus commune dum mundus non erat, et postquam mundus inesse productus est. Sicut enim extra universum non est aliqua realis magnitudo, possumustamen eam imaginari; ita et ante principium mundi non fuit aliquod tempus, quamvis sit pos-sibile ipsum imaginari: et quantum ad hoc creatio secundum veritatem, proprie loquendo,non habet rationem mutationis, sed solum secundum imaginationem quamdam» (DePotentia, q. 3, a. 2, resp.).

9 Cfr. Summa Theologiae, I, q. 46, a. 2; spec. ad 1um e ad 2um.10 Ampi sviluppi della problematica saranno offerti dall’Aquinate nella Contra Gentiles, II, cc.

31-38. Occorre però precisare che anche se il mondo fosse esistito da un tempo infinito, ciònon potrebbe equipararsi con l’eternità di Dio: il primo è la successione infinita di eventi diun tempo creato, la seconda non appartiene al tempo, ma all’eterno presente della vitaimmanente di Dio (cfr. Summa Theologiae, I, q. 46, a. 2, ad 5um).

11 «Quod mundum non semper fuisse, sola fide tenetur, et demonstrative probari non potest,sicut et supra de mysterio trinitatis dictum est. Et huius ratio est, quia novitas mundi nonpotest demonstrationem recipere ex parte ipsius mundi» (Summa Theologiae, I, q. 46, a. 2,resp.).

12 Cfr. Summa Theologiae, I, q. 104, a. 1. «Dio non conserva le cose con una nuova azione, macontinuando l’azione con la quale dà l’essere, azione che non è soggetta né al moto né altempo. Come anche la conservazione della luce nell’aria si attua per un influsso continuatodel sole» (ibidem, ad 4um). Sul rapporto fra creazione e conservazione, cfr. anche DePotentia, q. 5, a. 1, ad 2um; In I Sententiarum, d. 37, q. 1, a. 1 resp.

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mondo, questo non dipende da Dio più di tutti gli altri istanti, sebbene, a diffe-renza di tutti gli altri, questo dipenda da Dio solo, non ammettendo cioè il con-corso di altre cause.

Nel cuore della metafisica tomista della creazione vi è la nozione di “atto diessere”, un atto causato da Dio che fa “essere” una creatura, atto dal quale dipen-dono l’esistenza attuale della creatura – ovvero il fatto che essa adesso esista – ela sua specifica essenza – ovvero il fatto che essa sia proprio ciò che è13. Mediantetale atto, che è ciò che fa essere la creatura sé stessa, il Creatore può essere pre-sente nella creatura in modo intimo e costitutivo, non rimuovendo bensì fondan-do la sua autonomia14. L’atto in virtù del quale le cose esistono è il primo effettodi Dio, atto intimo che appartiene simultaneamente tutto al Creatore, in quantocausa, e tutto alla creatura, in quanto effetto: atto che risulta essere più intimo allacreatura di quanto questa non lo sia a se stessa15.

Alla luce dell’inclusione della creazione nel genere della relazione e dellametafisica dell’actus essendi come effetto proprio di Dio che “costituisce” nel-l’essere la creatura insieme alla sua specifica essenza, si può ora affrontare il temadell’agire divino nella natura, ovvero il rapporto fra l’azione di Dio e l’azionedelle creature.

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13 «Tommaso d’Aquino ama ripetere: “La prima delle cose create è l’essere”. Con queste paro-le Tommaso vuole dire che l’essere stesso non presuppone nessun altro effetto di Dio, men-tre, poiché tutti gli altri effetti di Dio presuppongono l’essere (altrimenti non sarebberonulla), l’atto in virtù del quale le cose sono, o esistono, deve essere considerato, in tutte,come il primo effetto di Dio. Questo è solo un altro modo, però particolarmente evidente, didire che questo atto – cioè l’esse – sta alla radice di tutte le caratteristiche e le determina-zioni che sono in qualsiasi senso costitutive di qualsivoglia ente finito dato. Questa conclu-sione implica l’ulteriore corollario che, l’atto esistenziale (esse) essendo il primo e imme-diato effetto della creazione, si trova proprio al centro dell’essere. In altri termini, dato qua-lunque ente particolare, la sua analisi metafisica raggiunge infine, come suo elemento piùprofondo e intrinseco, proprio questo esse che è, al tempo stesso, il punto di ricezione del-l’efficienza creativa di Dio, il principio interiore per il quale la cosa è un ente, e l’energiaesistenziale a causa della quale tutto il resto della cosa può entrare nella sua struttura e con-tribuire alla sua completa individuazione» (É. GILSON, Elementi di filosofia cristiana,Morcelliana, Brescia 1964, pp. 256-257).

14 Cfr. De Veritate, q. 8, a. 16, ad 16um; Summa Theologiae, I, q. 105, a. 5.15 «Essendo Dio l’Essere stesso per essenza, bisogna che l’essere creato sia l’effetto proprio di

lui [...]. E questo effetto Dio lo causa nelle cose non soltanto quando cominciano ad esiste-re, ma fin tanto che perdurano nell’essere: come la luce è causata nell’aria dal sole finchél’aria rimane illuminata. Fin tanto che una cosa ha l’essere è necessario che Dio le sia pre-sente in proporzione di come essa possiede l’essere. L’essere è poi ciò che nelle cose vi è dipiù intimo e di più profondamente radicato, poiché è l’elemento formale rispetto a tutti iprincipi e i componenti che si trovano in una data realtà. Quindi Dio necessariamente è intutte le cose, e in maniera intima» (Summa Theologiae, I, q. 8, a. 1, resp.). Ancora: «Deusest propria et immediata causa uniusquisque rei et quodammodo magis intima cuique quamipsum sit intimum sibi» (De Veritate, q. 8, a. 16, ad 12um. Cfr. anche In II Sententiarum, d.1, q. 1, a. 4, sol. 1). Si noti l’affinità con un noto passo parallelo agostiniano: «Deus interiorintimo meo et superior summo meo» (Confessiones, III, 6, 11).

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4. La differenza fra Causa prima e cause seconde

Causare è produrre in qualche modo l’essere di qualcosa: ciò vale per ogni tipodi causalità. Anche partendo da qualcosa di preesistente, la natura ci pone di fron-te a vere novità, che prima non erano e adesso sono. Orbene, se l’essere è l’ef-fetto proprio di Dio, come è possibile che le creature siano davvero causa di qual-cosa, che esista cioè un’autentica nozione di causalità di cui Dio non sia l’unicosoggetto? La domanda era stata già posta in epoca medioevale, con diverse sfu-mature, dall’ebreo Mosé Maimonide (1135-1204) e dagli arabi Avicenna (980-1037), Avicebron (1020-1069) e Averroé (1126-1198). In epoca moderna saràaffrontata da Malebranche (1638-1715).

L’idea di una vera causalità delle creature non fu sviluppata da questi pensato-ri medioevali perché temevano di attribuire alla creatura più di quanto gli spet-tasse, ponendo a rischio la trascendenza di Dio. Avicebron pensava che fosse soloDio ad agire negli enti, mediante un suo influsso di natura spirituale; Avicennaipotizzava invece che le creature limitassero la loro causalità al divenire e alle tra-sformazioni dell’ente, senza mai interessare l’ordine dell’essere; MoséMaimonide sosteneva che tutte le forme naturali fossero accidenti, e che pertantofosse soltanto Dio ad agire nell’ordine sostanziale. In epoca moderna, conMalebranche, compare la dottrina dell’occasionalismo: le operazioni degli entifiniti darebbero a Dio “occasione di agire” attraverso di essi, ma tali operazioni,di fatto, non apparterrebbero in modo convincente alla creatura, in quanto si ritie-ne che Dio solo possa agire come causa.

La critica di San Tommaso verso quei pensatori che diminuivano il valoredella causalità creaturale è chiara e inequivoca: «È senza dubbio vero che Dio agi-sce nell’attività della natura e della volontà. Ma alcuni, non comprendendo cosaquesto realmente significhi, caddero in errore, attribuendo a Dio ogni attività dellanatura, in modo tale che una cosa interamente naturale non farebbe niente percapacità sua propria»16.

San Tommaso affronta il tema della causalità creaturale quasi come corollariodella metafisica della partecipazione dell’atto di essere, suggerendo la nota distin-zione fra Causa prima e cause seconde17.

L’Atto puro di Essere, che partecipa l’actus essendi dando origine all’esseredegli enti finiti, è chiamato anche “Causa prima”, perché ogni ente, anche inquanto sorgente di causalità, da tale Causa dipende nell’essere e da essa riceve lasua essenza. Le “cause seconde” agiscono sì in virtù di quanto hanno ricevuto

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16 «Concedendum est Deum operari in natura et voluntate operantibus. Sed quidam hoc nonintelligentes, in errorem inciderunt: attribuentes Deo hoc modo omnem naturae operationemquod res penitus naturalis nihil ageret per virtutem propriam» (De Potentia, q. 3, a. 7, resp.).Cfr. anche Summa Theologiae, I, q. 115, a. 1.

17 Cfr. Contra Gentiles, III, cc. 66-70, part. c. 69; Summa Theologiae, I, q. 45, aa. 5 e 8; q. 47,a. 2bis; q.105, a. 5; De Potentia, q. 3, a. 7.

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dalla Causa prima, ma lo fanno come vere cause, sia nell’ordine del divenire siain quello dell’essere, sebbene, evidentemente, non nel senso di causare il primumesse, ma l’essere di qualcosa che comincia ad esistere come tale (come i genitori,ad esempio, sono vere cause della vita del figlio, del suo nuovo essere, sebbenel’actus essendi della nuova creatura, quello della sua anima spirituale, dipendasolo da Dio). Più precisamente, mentre Avicenna aveva radicalizzato la distinzio-ne secondo cui la Causa prima è causa nell’ordine dell’essere e le cause secondelo sono nell’ordine del divenire, per Tommaso d’Aquino le cause seconde posso-no essere cause essendi, in quanto queste possono causare l’essere attraverso lamediazione di una forma, a differenza di Dio che, evidentemente, è l’unico a poter“creare” in senso proprio, dal nulla, senza limitazione o mediazione alcuna. Soloil Puro e Infinito Atto di Essere può comunicare l’essere e crearlo/parteciparlocome effetto. La causa efficiente finita può invece edurre la forma dalla materia,facendo passare in atto qualcosa che sia già in potenza. Inoltre, a motivo dellapeculiare comprensione che Tommaso ha della metafisica della creazione, eglipotrà chiarire che Causa prima è causa trascendente rispetto ad ogni possibileserie di cause seconde. Ed è proprio nella luce di tale trascendenza che va colto ilrapporto fra causalità creatrice e causalità creata, e colto parimenti il modo concui la prima non vanifica, ma piuttosto fonda la seconda18.

Commentando l’Aquinate, potremmo dire che la Causa prima causa permodum creationis, le cause seconde per modum informationis. La Causa primacostituisce le cause seconde in quanto cause. La causa seconda non produce l’en-te in quanto ente, bensì in quanto ente “concretato” da una specifica natura. Lacausa seconda determina l’azione della Causa prima secondo ciò che è propriodella causa seconda, ovvero in base al suo modo finito e specifico di informare.La causa seconda produce l’ente (e in certo modo lo crea in quanto causa la com-parsa di un nuovo essere concreto) determinandone la natura essendi; la Causaprima, invece, lo produce conferendogli l’actus essendi. Tuttavia, anche la natu-ra essendi dipende ontologicamente dalla Causa prima, sia perché solo quest’ul-tima conosce tutte le forme come Dator formarum, sia perché la causa seconda haricevuto dalla Causa prima la capacità di produrre un nuovo essere nell’ordinedelle forme. Una causa seconda non causa l’essenza o la natura di un ente, masemplicemente la determina, educendola dalle potenzialità della materia. La causaseconda lo fa con le restrizioni che derivano dalla sua essenza limitata, in quantola sua capacità di edurre, informare o concretare, non è infinita.

Fra i motivi che spinsero l’Aquinate a sviluppare una vera causalità nell’ordi-ne creaturale vi fu probabilmente la dottrina biblica dell’autonomia del creato, la

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18 Proprio perché la creazione non è un semplice fatto storico nel divenire reale, ma la “situa-zione metafisica” continuamente in atto della creatura, sulla quale si fonda l’essere e l’agiredi ogni causa creata, la presenza della causa prima nella causa seconda non rappresenta unsemplice accostamento di causalità a causalità, ma un fondamento, nel senso intensivo diogni causalità creaturale (cfr. C. FABRO, Partecipazione e causalità, cit., p. 461).

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sua consistenza ontologica di fronte a Dio. Lungi dall’essere viste come una sortadi controllo strumentale o meccanicista del Creatore sulle cose, le proprietà, leleggi di natura o le essenze delle creature, sono possedute da queste come “pro-prie”19. La dipendenza originaria ed originante di ogni cosa dal Creatore implicache si debba parlare di “autonomia relativa” e non “assoluta”; ma un simile agget-tivo non deve intendersi in modo riduttivo o limitativo. Per San Tommaso, l’es-senza e la natura delle cose create, sebbene dichiarate “contingenti rispetto a Dio”,vengono nondimeno ritenute come “necessarie nel loro ordine specifico” e dun-que, sempre in questo medesimo ordine, soggetto di necessità assoluta, senza cheper questo Dio debba dirsi debitore ad alcuno20. Una volta donato l’essere almondo, Dio non riprende il suo dono, ma rispetta l’autonomia che a quel dono eranecessariamente legata.

Uno snodo importante è rappresentato dalla differenza che intercorre fra “cau-salità seconda” e “causalità strumentale”. Lo strumento non è il soggetto di un’a-zione che gli appartenga, ma deve tutta la sua causalità operativa all’azione diret-ta dell’agente principale; la causa seconda, al contrario, è soggetto vero ed auto-nomo di effetti che da essa dipendono, e per la cui produzione essa possiede tuttoil necessario21. Una causa mere instrumentalis non comunica una forma, né educealcuna forma dalla materia, ma semplicemente trasferisce, prolunga la causalitàprincipale in ordine a produrre un certo effetto. Se lo strumento fa pensare ad unadipendenza transitiva e immediata, quasi meccanica, dall’agente principale, la

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19 Il tema ammette uno sviluppo in chiave antropologica, come lascia intendere lo stessoTommaso, parlando dell’agire di Dio nella natura e nella volontà (umana). Qui l’autonomiasi chiama libertà e l’atto di essere con cui Dio fonda e sostiene la libertà umana e le sue scel-te è quello mediante il quale Dio crea un essere personale. In altro luogo abbiamo offertoalcuni spunti in proposito: cfr. G. TANZELLA-NITTI, Autonomia, in DizionarioInterdisciplinare di Scienza e Fede, a cura di G. Tanzella-Nitti e A. Strumia, Urbaniana Univ.Press - Città Nuova, Roma 2002, vol. I, pp. 153-168.

20 «Affermando che Dio ha prodotto le cose per volontà e non per necessità, non si esclude cheegli abbia voluto che certe cose esistessero in modo necessario ed altre in modo contingen-te, così da produrre nelle cose una diversità ordinata. Perciò niente impedisce che alcunecose causate dalla volontà divina siano necessarie. […] Che queste realtà naturali venisseroprodotte da Dio fu una cosa volontaria, ma una volta così stabilito è assolutamente necessa-rio che ne nascano e che esistano certe conseguenze» (Contra Gentiles, II, c. 30; si veda inproposito il contesto dei cc. 29-30). Può valer la pena ricordare che il mondo delle creaturemateriali è certamente complesso, includendo una mescolanza di necessità e contingenza. Inparticolare, proprio le creature materiali sono contingenti anche nel senso di poter essere onon essere a motivo della loro corruttibilità, mentre le creature spirituali sono necessarie,senza possibilità di non essere, sebbene il loro essere dipenda da Dio.

21 Nelle opere di San Tommaso si trova a volte un accostamento terminologico fra “causaseconda” e “strumento”. Quando ciò accade, egli sembra voler sottolineare la condizione diDio come Agente dal quale dipende in modo radicale ogni cosa, non una diminuzione del-l’autonomia o dell’autenticità della causalità creaturale (cfr. Contra Gentiles, III, c. 70). Sipuò anche trovare la dizione “Prima causa agente” e “cause agenti inferiori” (cfr. ContraGentiles, III, cc. 66 e 69).

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causalità seconda rimanda ad una dipendenza legata alla trascendenza dell’atto diessere con il quale la creatura, con l’esistenza, ha ricevuto da Dio anche un’es-senza ed una natura che fondano la propria autonomia. Grazie alla trascendenzadella causalità divina, tutto appartiene alla creatura e tutta la creatura appartiene aDio. Non si tratta però di due azioni diverse, ma di un’unica azione, la cui artico-lazione non è subordinazione cronologica, né logica, bensì ontologica; azionedella quale sono soggetti, su due piani diversi, la Causa prima e la causa secon-da22.

Così il riepilogo di Tommaso in due celebri testi: «Dunque Dio è causa dell’a-zione di qualsiasi cosa in quanto le dà la capacità di agire, in quanto la conserva,in quanto la applica nell’azione, e in quanto ogni altra capacità della creatura agi-sce grazie a Lui. E se aggiungiamo a queste considerazioni che Dio è la capacitàdella creatura e che egli è all’interno di ogni cosa, non nel senso che sia una partedella loro essenza, ma nel senso che mantiene le cose nell’essere, si ha la conse-guenza che egli agisce direttamente nell’attività di ogni cosa, ivi comprese le atti-vità della natura e della volontà»23. «L’agire di Dio in ogni agente fu inteso daalcuni nel senso che nessuna virtù creata possa compiere qualcosa nel mondo eche sia Dio solo direttamente a fare tutto, per cui non sarebbe il fuoco a riscalda-re, ma Dio nel fuoco, e così in tutti gli altri casi. Ma questo è impossibile. Primo,perché sarebbe tolto dal creato il rapporto tra causa ed effetto. Fatto, questo, chedenoterebbe l’impotenza del Creatore: poiché la capacità di operare deriva neglieffetti dalla virtù di chi li produce. Secondo, perché le facoltà operative che si tro-vano nelle cose sarebbero state loro conferite inutilmente, se le cose non potesse-ro fare nulla per loro mezzo. Anzi, tutte le realtà create, in certo qual modo nonavrebbero più ragione di essere se fossero destituite della loro attività: poiché ogni

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22 Circa l’errore di una supposta conflittualità fra Causa prima e causa seconda, segnalavaCornelio Fabro: «Interpretazioni di questo genere sono state avanzate da preoccupazioni diuna teologia troppo empirica e maldestra nelle nozioni metafisiche, la quale ha scambiatoper rapporti metafisici atteggiamenti empirici e situazioni di derivazione puramente psico-logica, quali l’impossibilità che la creatura sia libera quando si ammetta che Dio è causatotale in senso autentico, o viceversa l’impossibilità che Iddio non possa essere causa totalese la creatura è veramente libera. Quest’alternativa sul piano metafisico non esiste, perché laCausa Prima, in quanto è la causa dell’esse, è la causa dell’effetto non solo in quanto è lacausa della causa, ma anche di conseguenza perché è causa della causalità della causa e inultimo dello stesso essere in atto dell’effetto; vale a dire, prima e oltre l’attività diretta dellacausa seconda c’è la potenzialità radicale di questa causa seconda e la potenzialità della suacausalità e la potenzialità infine dell’effetto che ne segue, le quali potenzialità sono “colma-te” ovvero mosse all’atto e sostenute in atto dalla Causa Prima» (C. FABRO, Partecipazionee causalità, cit., p. 465).

23 «Sic ergo Deus est causa actionis cuiuslibet in quantum dat virtutem agendi, et in quantumconservat eam, et in quantum applicat actioni, et in quantum eius virtute omnis alia virtusagit. Et cum coniunxerimus his, quod Deus sit sua virtus, et quod sit intra rem quamlibet nonsicut pars essentiae, sed sicut tenens rem in esse, sequetur quod ipse in quolibet operanteimmediate operetur, non exclusa operatione voluntatis et naturae» (De Potentia, q. 3, a. 7,resp.).

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ente è per la sua operazione [...]. Quindi l’affermazione che Dio opera in tutte lecose va intesa in modo da non pregiudicare il fatto che le cose stesse hanno unapropria attività»24.

Dunque, l’attività della natura come causa seconda, o come ricco e complessoinsieme di cause seconde, risponde per San Tommaso anche a un motivo di sensogenerale del mondo. Poiché Dio non ha bisogno di nulla e potrebbe fare ogni cosadirettamente come Causa prima e agente principale, sarebbe assurdo che, crean-do Egli qualcosa, non rendesse la creatura capace di azioni proprie, che agli entinaturali, cioè, non appartenesse alcun effetto reale. Dio vuole agire insieme eattraverso la mediazione delle cause seconde, e da questo deriva l’armonia, il reci-proco ordinamento e la perfezione di un cosmo creato25.

5. La nozione metafisica di natura come principio interno di operazionedell’ente

Un terzo aspetto di interesse riguarda la discussione riservata da San Tommasoal concetto di “natura”, di tradizione aristotelica, che indica il principio operativopresente in ogni ente, grazie al quale ogni creatura, in quanto dotata di una speci-fica essenza, agisce secondo ciò che essa è. In quanto legata all’essenza,Aristotele ne introduce la nozione nella sua Metafisica (ens ut ens)26, ma ne offreun’esposizione particolareggiata nel Libro II della Fisica (ens ut mobile). Il pen-siero di San Tommaso in proposito si trova sia nel suo Commento alla Fisica ari-stotelica, sia in altri luoghi, specie quando affronta il rapporto fra l’agire di Dio el’agire della creatura27.

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24 «Respondeo dicendum quod Deum operari in quolibet operante aliqui sic intellexerunt, quodnulla virtus creata aliquid operaretur in rebus, sed solus Deus immediate omnia operaretur;puta quod ignis non calefaceret, sed deus in igne, et similiter de omnibus aliis. hoc autem estimpossibile. Primo quidem, quia sic subtraheretur ordo causae et causati a rebus creatis.Quod pertinet ad impotentiam creantis, ex virtute enim agentis est, quod suo effectui det vir-tutem agendi. Secundo, quia virtutes operativae quae in rebus inveniuntur, frustra essentrebus attributae, si per eas nihil operarentur. Quinimmo omnes res creatae viderentur quo-dammodo esse frustra, si propria operatione destituerentur, cum omnis res sit propter suamoperationem. [...] Sic igitur intelligendum est Deum operari in rebus, quod tamen ipsae respropriam habeant operationem» (Summa Theologiae, I, q. 105, a. 5, resp.).

25 Cfr. anche De Potentia, q. 3, a. 7, ad 16. Su tutto il tema può vedersi il saggio di J.J.SANGUINETI, La filosofia del cosmo secondo San Tommaso d’Aquino, Ares, Milano 1986.

26 Cfr. ARISTOTELE, Metafisica, Libro V, c. IV, 1014b-1015a.27 Sul concetto aristotelico-tomista di natura come principio operativo dell’ente, cfr. A.

GHISALBERTI, La concezione della natura nel Commento di Tommaso d’Aquino allaMetafisica di Aristotele, «Rivista di Filosofia Neoscolastica», 66 (1974), pp. 533-540; S.O’FLYNN BRENNAN, Physis. The Meaning of Nature in the Aristotelian Philosophy of Nature,«The Thomist», 24 (1961), pp. 247-265; J.J. SANGUINETI, La naturaleza como principio deracionalidad, «Sapientia», 41 (1986), pp. 55-66; G. TANZELLA-NITTI, The Aristotelian-Thomistic Concept of Nature and the Contemporary Scientific Debate on the Meaning of

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La “natura” è un’inclinazione naturale (valga la ridondanza) che regola lemodalità con cui quel determinato ente può interagire con quanto lo circonda. Sipresenta pertanto sia come principio attivo dell’ente (capacità di informare), siacome principio passivo (capacità di venire informato). Essa appartiene all’entecome qualcosa di sostanziale (per se) e non di accidentale.

La natura è sì principio di moto, ma anche di quiete: fa cioè riferimento nonsolo alla regolarità delle interazioni nei loro aspetti dinamici in atto, ma anche allastabilità delle proprietà intrinseche dell’ente, ovvero a quegli aspetti potenzialiche regolano anch’essi il comportamento fisico dell’ente nel suo insieme28. Nellinguaggio contemporaneo diremmo che la natura di una massa gravitazionaleoppure di una carica elettrica è quella di attrarre, ma anche di essere attratta. Invari luoghi San Tommaso la chiamerà «virtus activa et conservativa»29.

Sia Aristotele che San Tommaso legano la nozione di natura in modo sponta-neo alla regolarità del comportamento degli enti corporei, tanto in ambito fisicoquanto biologico. Essere “secondo la propria natura” vuol dire per un ente rive-larsi secondo le sue proprietà più intrinseche, al punto da ritenere che un com-portamento che si discosti da quanto previsto da quella specifica natura è certa-mente dovuto all’intrusione di altre cause che ne impediscono l’esplicarsi30.

Per il tema che qui ci occupa – il rapporto filosofico-teologico fra Dio e natu-ra in dialogo con il contesto delle scienze naturali – l’importanza di tale nozionesta nel fatto che, per quanto prima detto, la “natura” ha ragione di forma e di fine:essa opera come una “causalità formale”, ma con interessanti collegamenti anchecon la “causalità finale”. Fra i testi più chiari in proposito, sempre dal commentoal II Libro della Fisica, si consideri il seguente: «La natura non è altra cosa che laconcezione di un artista divino impressa nelle cose, grazie alla quale le stesse cosesi muovono verso il loro fine determinato; come se il costruttore di una navepotesse attribuire al legname che la compone la capacità di muoversi, da sé stes-so, per giungere a formare la struttura stessa della nave. [...] È pertanto chiaro chela natura sia una causa, e che agisca in vista di un fine»31.

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Giuseppe Tanzella-Nitti

Natural Laws, «Acta Philosophica», 6 (1997), pp. 237-264; J.A. WEISHEIPL, The Concept ofNature, in Nature and Motion in the Middle Age, a cura di W.E. CARROLL, The CatholicUniversity of America Press, Washington 1985, pp. 1-23 (ristampato da «The NewScholasticism», 28 (1954), pp. 377-408).

28 Cfr. In II Physicorum, lec. 1, nn. 145-146; lec. 14, n. 267; cfr. anche Summa Theologiae, I-II, q. 6, a. 5, ad 2um.

29 Cfr. ad esempio Summa Theologiae, I-II, q. 85, a. 6, resp.30 «Si dicono essere secondo natura quelle cose che sono continuamente mosse da un princi-

pio ad esse intrinseco, mediante il quale esse pervengono ad un certo fine; non in modo con-tingente, né da un qualsivoglia principio ad un qualsivoglia fine, ma da un principio deter-minato verso un fine determinato. Esse procedono sempre dallo stesso principio verso lostesso fine, a meno che non intervenga qualcosa ad impedirlo» (In II Physicorum, lec. 14, n.267).

31 «Unde patet quod natura nihil est aliud quam ratio cuiusdam artis, scilicet divinae, inditarebus, quae ipsae res moventur ad finem determinatum: sicut si artifex factor navis possetlignis tribuere, quod ex se ipsi moverentur ad navis formam inducendam. [...] Manifestum

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Se è vero che nel suo aspetto di causalità formale, la natura indica solo la pre-disposizione e la capacità di compiere una certa azione, e che l’attualizzarsi del-l’azione sarà dovuto all’intervento di una causa efficiente la quale, nell’attualiz-zarsi, manifesta l’esistenza di una finalità, è tuttavia altrettanto vero che tale fina-lità è già insita in quella regolarità, stabilità e legalità di comportamento, che hannola loro ragione nella natura dell’ente intesa come forma. La causa finale è già pre-sente e come nascosta nell’operatività dinamica della forma-natura, perché“impressa” dalla Causa prima, origine dell’essere, dell’essenza e della progettuali-tà di tutto ciò che esiste. Per affermare che l’universo creato abbia un fine non c’èbisogno di invocare in prima istanza uno scopo imposto dall’esterno, ma ci si puòaccostare alla nozione di finalità anche dall’interno, affermando semplicementeche in natura esistono proprietà stabili, formalità specifiche e comportamenti lega-li. Un principio metafisico di legalità (o di naturalezza, se si preferisce) non impli-ca un meccanicismo determinista, né una predicibilità matematica, cose che com-porterebbero una forzatura riduzionista del reale, identificandolo prima con ilmisurabile, e poi con quanto si può trattare in modo computazionalmente finito.

La natura è dunque un sostrato di intelligibilità, qualcosa che l’ente ricevedalla Causa prima, qualcosa che chi studia l’universo naturale scopre e non crea,qualcosa che non cade sotto l’analisi della scienza, ma rende la scienza possibile.

Infine, il rapporto fra Dio e la natura specifica di un ente, è anch’esso un luogodi articolazione del rapporto fra Causa prima e causa seconda, e aiuta a compren-dere l’agire di Dio nella creazione. Ecco un testo riassuntivo dal già citato artico-lo del De Potentia Dei: «La capacità naturale che è conferita alle cose naturaliall’atto della loro creazione è in esse come una forma che ha l’essere fisso e sta-bile della natura: ma ciò che viene fatto da Dio nella cosa naturale, perché essaagisca effettivamente, è solo come un’intenzione, che ha un essere in un certosenso incompleto, come l’essere dei colori nell’aria e la capacità dell’arte nellostrumento dell’artigiano [...]. Alla cosa naturale poté essere conferita la capacitàsua propria come forma permanente in essa, ma non la forza con cui compiereazioni finalizzate quale strumento di una causa prima, a meno di concederle diessere il principio universale dell’essere. Inoltre, alla capacità naturale non potéessere data la possibilità di mettere in movimento sé stessa, né di conservare séstessa nell’essere. Per cui, come allo strumento dell’artigiano non poté evidente-mente essere concesso di agire senza il movimento dell’arte, così alla cosa natu-rale non poté essere concesso di agire senza l’attività divina»32.

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note e commenti

esse quod natura sit causa, et quod agat propter aliquid» (In II Physicorum, lec. 14, n. 268).Esiste un interessante passo, quasi parallelo, nel Commento alla Metafisica: «La natura diuna cosa è una certa inclinazione impressa in essa dal primo movente ed ordinata così ad undebito fine. Risulta chiaro che le cose naturali agiscano in vista di un fine, anche se non loconoscono, perché dalla prima causa intelligente hanno ricevuto tale inclinazione verso illoro fine» (In XII Metaphysicorum, lec. 12, n. 2634).

32 «Virtus naturalis quae est rebus naturalibus in sua institutione collata, inest eis ut quaedamforma habens esse ratum et firmum in natura. Sed id quod a Deo fit in re naturali, quo actua-

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6. Le virtualità dell’ontologia tomasiana per il dialogo con le scienzenaturali

Da alcuni anni siamo ormai abituati a trovare espliciti riferimenti alla nozionedi “Dio” in non pochi libri di divulgazione scientifica33. I motivi che hanno deter-minato questo stato di cose sono molteplici. Si potrebbero citare l’impatto dellacosmologia contemporanea con il problema dei fondamenti dell’essere, la rifles-sione sulla razionalità e l’intelligibilità della natura, il persistere di tematiche“classiche” che reclamano una spiegazione dell’agire divino nella natura, come ilrapporto fra intenzionalità creatrice ed evoluzione biologica o l’interpretazione dadare ai miracoli. Può essere significativo osservare che un intero ciclo diConvegni organizzati lungo gli anni 1990 dal Centro di Studi Interdisciplinaridella Specola Vaticana, con la collaborazione di vari scienziati e filosofi di areaanglosassone, abbia avuto come titolo Scientific Perspectives on Divine Action, atestimonianza dell’interesse che lo studio dell’agire divino nel creato, e l’even-tuale realismo con cui debba essere compreso, continua a suscitare negli uominidi scienza34. Una delle principali difficoltà in tale ambito di riflessione interdisci-plinare resta, a nostro avviso, proprio quella di individuare una corretta ontologiain grado di raccordare azione di Dio e azione creaturale e di dare ragione di tuttolo spessore ontologico insito nel concetto di causalità. Coloro che si occupano di

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Giuseppe Tanzella-Nitti

liter agat, est ut intentio sola, habens esse quoddam incompletum, per modum quo coloressunt in aere, et virtus artis in instrumento artificis. [...] Ita rei naturali potuit conferri virtuspropria, ut forma in ipsa permanens, non autem vis qua agit ad esse ut instrumentum primaecausae; nisi daretur ei quod esset universale essendi principium: nec iterum virtuti naturaliconferri potuit ut moveret se ipsam, nec ut conservaret se in esse: unde sicut patet quodinstrumento artificis conferri non oportuit quod operaretur absque motu artis; ita rei natura-li conferri non potuit quod operaretur absque operatione divina» (De Potentia, q. 3, a. 7, ad7um). O ancora: «Tutto ciò che è causato secondo una determinata natura non può essere lacausa prima di codesta natura, ma solo causa seconda [...]. – L’azione stessa della natura èanche azione della capacità divina, come l’azione dello strumento avviene sempre grazie allacapacità della causa agente principale. E non c’è nessun ostacolo a che le azioni della natu-ra e di Dio abbiano uno stesso oggetto a causa dell’ordine che c’è tra Dio e natura» (ContraGentiles, II, c. 21; De Potentia, q. 3, a. 7, ad 3um).

33 La notorietà del fenomeno ci esime dal darne qui puntuale notazione bibliografica.Rimandiamo il lettore interessato a due voci riassuntive: J.F. HAUGHT, God in ModernScience, in New Catholic Encyclopedia, The Catholic Univ. of America Press, Washington1989, vol. 18, pp. 178-183; G. TANZELLA-NITTI, Dio, in Dizionario Interdisciplinare diScienza e Fede, cit., pp. 404-424.

34 Cfr. R. RUSSELL - N. MURPHY - A. PEACOCKE (a cura di), Caos and Complexity. ScientificPerspectives on Divine Action, LEV and Center for Theology and The Natural Sciences,Città del Vaticano - Berkeley 1995; R.J. RUSSELL - W.R. STOEGER - F.J. AYALA (a cura di),Evolutionary and Molecular Biology. Scientific Perspectives on Divine Action, VaticanObservatory Publications and Center for Theology and the Natural Sciences, Vatican City -Berkeley (CA) 1998; R.J. RUSSELL et al. (a cura di), Neuroscience and the Person. ScientificPerspectives on Divine Action, Vatican Observatory Publications - Center for Theology andthe Natural Sciences, Vatican City-Berkeley (CA) 1999.

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scienze naturali sono di solito inconsciamente portati a studiare il rapporto fraazione di Dio e azione della creatura in un quadro causale implicitamente confi-nato, almeno in linea generale, alla sola causalità efficiente, tendendo così a com-prendere la stessa causalità secondo uno schema principalmente cronologico35.Non sorprende che in un simile quadro riduttivo risulti penalizzata la stessa meta-fisica aristotelico-tomista. Di conseguenza, al momento di affrontare il rapportofra Dio e natura alcuni avvertono la necessità di rivolgersi ad ontologie ritenutepiù flessibili e dinamiche, come quelle deducibili a partire da una filosofia delprocesso36, sottostimando il “dinamismo” insito nella metafisica dell’actus essen-di o nella nozione di natura, come prima discussa.

Alla luce di questo stato di cose può dunque riguadagnare attualità chiedersiquali siano le implicazioni della prospettiva ontologica tomasiana ai fini di un dia-logo con il pensiero scientifico e se essa sia in grado di favorire una corretta impo-stazione del rapporto fra Dio e natura. Ritenendo di poter rispondere affermativa-mente a quest’ultima domanda, proponiamo qui in forma schematica alcuni sug-gerimenti in proposito37.

a) Un Dio Creatore che sia causa dell’atto di essere e della specifica essenza(natura) di tutti gli enti creati non interferisce con la descrizione empirica delmondo naturale. L’essere e la natura delle cose, la cui causalità appartiene solo esoltanto a Dio, costituiscono in fondo quel sostrato ontologico che rappresenta ilpresupposto filosofico di ogni conoscenza scientifica. La scienza si accosta a talesostrato quando percepisce il problema dei fondamenti (quando, ad esempio, siimbatte in paradossi di incompletezza logica oppure ontologica, dalla matemati-ca fino alla cosmologia).

b) L’articolazione fra Causa prima e cause seconde e, soprattutto, l’autenticitàdi una vera causalità creaturale autonoma, è ciò che consente di “fare scienza”,ovvero di intraprendere un’analisi scientifica che sia un reale scire per causas.

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note e commenti

35 Ne offre un esempio paradigmatico uno dei primi saggi di P.C. DAVIES, Dio e la nuova fisi-ca (1983), Mondadori, Milano 2002. Va comunque osservato che nelle opere successivel’Autore mostrerà una più matura comprensione filosofica di questo rapporto.

36 La filosofia del processo deve la sua origine al pensiero del matematico e filosofo A.N.WHITEHEAD: cfr. Il processo e la realtà (1929), Bompiani, Milano 1965. Per un’applicazio-ne in ambito teologico, J.B. COBB - D.R. GRIFFIN, Teologia del processo. Una esposizioneintroduttiva, Queriniana, Brescia 1978. Paralleli fra un’ontologia di ispirazione aristotelico-tomista ed una visione ispirata alla filosofia del processo nel contesto del rapporto fra teolo-gia e scienze naturali sono offerti, seppure con evidenti limiti e qualche inadeguatezza, inI.G. BARBOUR, Religion and Science: Historical and Contemporary Issues, Harper & Row,San Francisco 1997. Buona parte degli studiosi di ambito anglosassone che si dedicano alrapporto fra scienze e teologia impiegano e sviluppano le istanze di una filosofia del pro-cesso, come ad es. A. Peacocke.

37 Il lettore interessato al contributo del pensiero di San Tommaso in alcuni ambiti specificidelle scienze naturali, potrà trovarne spunti di sviluppo nelle seguenti voci del DizionarioInterdisciplinare di Scienza e Fede, cit.; A. STRUMIA, Analogia, pp. 56-70; G. TANZELLA-NITTI, Creazione, pp. 300-321; IDEM, Leggi naturali, pp. 783-804; IDEM, Miracolo, pp. 958-978; M. ARTIGAS, Finalità, pp. 652-664; G. MONASTRA, Natura, pp. 1027-1043.

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c) L’intimità dell’atto di essere, nel garantire l’autonomia e la relativa indi-pendenza della creatura, fa sì che il “concorso” divino nell’agire si collochi su unlivello più fondante, non sullo stesso piano della creatura. Un’interferenza fra Dioe le creature è così esclusa non solo a livello di descrizione del mondo, ma anchesul piano operativo, consentendo alle scienze di approfondire continuamente lalinea delle cause seconde.

d) La proposta tomasiana consente di leggere il rapporto fra filosofia e scien-za, più precisamente fra ontologia e scienza, non più (o non principalmente) asse-gnando alla filosofia il compito di evidenziare i “limiti” della scienza, quantopiuttosto quello di mostrarne i veri fondamenti. La scienza può riguadagnare inpieno, e lecitamente, la completezza del suo oggetto materiale che, nel suo ordi-ne, è appunto illimitato38.

e) La comprensione della creazione come un particolare tipo di relazione,come atto continuo che trascende il tempo, chiarisce molte “questioni di frontie-ra” fra cosmologia fisica e teologia della creazione, specie quando sorge la falsadialettica di voler stabilire se l’azione di un Creatore sia qualcosa di necessario odi superfluo. La causazione con cui l’Atto puro di Essere dà ragione dell’esisten-za del mondo non riguarda l’ordine del moto o del cambiamento, e dunque sor-passa il «problema della prima mossa»39.

f) Tanto sul piano gnoseologico quanto su quello operativo (fondati ambeduesul piano ontologico), la causalità divina non implica un mondo meccanicista, néun mondo retto da leggi deterministicamente predicibili, ma solo un mondo reale,ove esistano delle formalità, delle proprietà naturali specifiche e stabili. In pro-spettiva teologica, se si sottolinea la stabilità delle leggi di natura è perché questaè immagine della fedeltà/alleanza di Dio nei confronti del suo creato. Egli,mediante le leggi autonome della natura, conduce ogni cosa soavemente verso ilsuo fine (cfr. Sap. 8,1), senza bisogno di “interferire” nei processi che sono pro-pri del mondo fisico o biologico, né di correggerne in modo estrinsecista il cam-mino evolutivo. In un mondo retto da un Creatore le proprietà più elementari efondanti possono certamente essere anche delle relazioni o dei processi, ma il sog-

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Giuseppe Tanzella-Nitti

38 Il rapporto fra scienza ed etica meriterebbe qui alcune precisazioni. Se in questo caso si puòparlare di “limiti della scienza”, non è perché questi vengano imposti “dall’esterno” dellaricerca scientifica, ma vengono percepiti come appartenenti alla verità dell’oggetto, e ulti-mamente riconducibili alla “natura” dell’oggetto, normativa anche della sua verità e del suosignificato. Una corretta comprensione della libertà di ricerca rimanderebbe poi, in ambitoteoretico, alla relazione fra verità e libertà, e in ambito pratico al porre in luce che la libertàè atto della persona (ricercatore) e non della scienza (ricerca), traendone come conseguenzala corrispondente responsabilità ad esso legata. Sul tema, cfr. G. TANZELLA-NITTI,Autonomia, cit., specialmente pp. 162-168.

39 Cfr. S. MURATORE, Dalla ricerca delle origini alla questione del principio: Tommasod’Aquino, in La creazione. Oltre l’antropocentrismo?, a cura di P. GIANNONI, Messaggero,Padova 1993, pp. 239-270. Una trattazione più ampia, in dialogo con diversi aspetti dellacosmologia contemporanea, nel saggio dello stesso autore, L’evoluzione cosmica e il pro-blema di Dio, AVE, Roma 1993.

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getto ultimo delle relazioni o dei processi non può essere ultimamente un proces-so, né un divenire che sfugga a qualsiasi ontologia. Di fatto, l’ontologia tomasia-na non si presenta come una “ontologia fissista”, un giudizio che viene talvoltaavanzato, ma che la concezione dinamica di natura o la verità della causazionecreaturale basterebbero a smentire. Trovano qui il loro limite quelle presentazio-ni le quali, al fine di favorire il dialogo con le scienze naturali, si propongono disuperare tale ontologia con il ricorso ad una process philosophy perché ritenutamaggiormente adatta a rappresentare un mondo in evoluzione, e sostituisconocosì alla nozione di ente quella di evento e alla nozione di essere quella di pro-cesso.

g) Il fatto che in Dio vi sia piena identità fra il suo Puro Atto di Essere e il suoperfetto Atto di conoscere, Sé stesso e ogni cosa in Sé, chiarisce anche le residueincertezze circa la conoscibilità del futuro da parte del Creatore. La proposta diuna sorta di “ignoranza di Dio” circa il futuro nasce proprio dall’impiego di unafilosofia del processo: un universo in continua evoluzione, e perciò filosofica-mente aperto, perché complesso e impredicibile – e dunque in qualche modoanch’esso creativo – sfuggirebbe nei suoi sviluppi futuri alla piena conoscenza delsuo Creatore40. In realtà, impredicibilità scientifica dello sviluppo del cosmo epiena dipendenza da Dio non sono, in una ontologia tomasiana, concetti in oppo-sizione dialettica. È facile riconoscere che la proposta di una ignoranza, seppurrelativa, del Creatore, oltre a svelare una contraddittoria filosofia di Dio e deltempo, è in verità il passo finale di un cammino filosofico nel quale la stessa natu-ra di Dio viene “storicizzata”, una natura che Egli svilupperebbe insieme al pro-cedere del mondo.

h) La nozione aristotelico-tomista di “natura” favorisce un chiarimento episte-mologico circa la necessaria distinzione fra leggi naturali e leggi scientifiche. Ledue espressioni non sono identiche. Noi possiamo maneggiare soltanto le secon-de, ma non le prime. Le leggi scientifiche hanno una portata conoscitiva limitatae sono sempre soggette a perfezionamento e a revisione sperimentale; la loroconoscibilità ed intelligibilità rimanda però ad un substrato “invariante”, di carat-tere squisitamente meta-fisico, che in prima approssimazione è rappresentatoappunto dalle “leggi di natura”. Tale substrato andrebbe ancorato alla natura meta-fisica di un ente, cioè a quel principio operativo che esprime le proprietà formalie le possibilità di interazione attiva e passiva di un ente fisico, manifestative dellasua essenza.

i) Infine, il “governo” del mondo naturale viene realizzato da Dio attraverso lanatura di ogni ente, che ha ragione di causalità formale, il cui esplicarsi ordinato,anche negli aspetti che ne regolano l’interazione con gli altri enti, esprime nel suo

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note e commenti

40 È la conclusione cui perviene A. PEACOCKE, God’s Interaction with the World: TheImplications of Determinstic Chaos and of Interconnected and Independent Complexity, inCaos and Complexity. Scientific Perspectives on Divine Action, a cura di R. RUSSELL - N.MURPHY - A. PEACOCKE, cit., pp. 263-287.

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complesso la tensione verso una causalità finale. Ne risulta in certo modo risoltosia il rapporto fra creazione ed evoluzione, sia l’apparente conflittualità fra ununiverso di enti e di forme, e un universo di eventi e di processi. La trascendenzadella Causa prima, soggetto della progettualità dell’universo, e in prospettiva teo-logica l’appartenenza di questa all’ordine dell’intenzionalità personale, fa sì chel’ordine empirico non possa accedere, strictu sensu, al motivo ultimo di tale fina-lità, ma ne colga solo gli aspetti di livello inferiore, come la coerenza, l’ordine, ilcoordinamento funzionale o la teleologia dei processi.

Concludiamo segnalando che il dialogo della teologia e della filosofia conogni vera fonte di conoscenza implica anche un efficace ed intelligente impiegodei risultati delle scienze da parte della riflessione filosofica e teologica. Al chia-rire al pensiero scientifico modalità filosoficamente più corrette di impostare ilrapporto fra Dio e il creato, la prospettiva tomasiana educa anche ad un ascoltoattento delle verità conosciute dalle scienze, valorizzandole. Un fecondo dialogofra queste diverse forme di conoscenza viene esplicitamente incoraggiato dallaFides et ratio (1998) proprio in riferimento all’opera di Tommaso d’Aquino (cfr.nn. 43-44). Proponendo agli studiosi di oggi l’esempio della mentalitàdell’Aquinate, afferma Giovanni Paolo II: «Intimamente convinto che “omneverum a quocumque dicatur a Spiritu Sancto est”, San Tommaso amò in manieradisinteressata la verità. Egli la cercò dovunque essa si potesse manifestare, evi-denziando al massimo la sua universalità. In lui, il Magistero della Chiesa ha vistoed apprezzato la passione per la verità; il suo pensiero, proprio perché si manten-ne sempre nell’orizzonte della verità universale, oggettiva e trascendente, rag-giunse “vette che l’intelligenza umana non avrebbe mai potuto pensare”. Conragione, quindi, egli può essere definito “apostolo della verità”. Proprio perchéalla verità mirava senza riserve, nel suo realismo egli seppe riconoscerne l’ogget-tività. La sua è veramente la filosofia dell’essere e non del semplice apparire»(Fides et ratio, n. 44).

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MARIO CASTAGNINOJUAN JOSÉ SANGUINETI

TEMPO E UNIVERSOUn approccio filosofico e scientifico

Collana: Studi di filosofia - 22a cura della Facoltà di Filosofia della PontificiaUniversità della Santa Croce

Gli autori affrontano il problema del tempocombinando peculiarmente, in modo

separato ma integrato, la visione della fisica e quella della filosofia,allargando il campo della riflessione anche ad alcuni accenni teolo-gici. Tale impostazione permette di affrontare i grandi interrogativilegati alla direzione del tempo, alla sua dimensione fisica e storica,all’unificazione delle scienze, all’eternità, con un approfondimentonotevole nella comprensione dell’uomo e del mondo attraverso ilsuo plurivalente dispiegarsi temporale, dalla sua origine ed evolu-zione, fino alla questione ultima del destino definitivo. Rivolgendosiad ogni persona interessata allo studio della metafisica, dellacosmologia e della antropologia, senza richiedere conoscenzescientifiche specialistiche, l’opera si propone nei fatti come unariflessione vasta e dettagliata su tutta l’esistenza umana.

pp. 416 € 23,24

studi di filosofia

MARIOCASTAGNINO

JUAN JOSÉSANGUINETI

TEMPO EUNIVERSO

Un approccio filosoficoe scientifico

ARMANDO EDITORE

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cronache di filosofiaa cura di Francisco FERNÁNDEZ LABASTIDA

Il “Fondo Fabro”

Il Fondo Fabro rappresenta l’intera biblioteca del prof. Cornelio Fabro (1911-1995), la quale è stata affidata nel 1998 alla biblioteca della Pontificia Universitàdella Santa Croce dalla Congregazione degli Stimmatini di cui il compianto p.Fabro era membro. Si tratta manifestamente di una notevole risorsa per gli studifilosofici sia per la quantità sia per la qualità del materiale conservatovi. Sononote agli studiosi di san Tommaso e di Kierkegaard l’acuta esegesi e l’acribìa filo-logica dei lavori del filosofo friulano. Pure è nota ai lettori dell’Introduzione all’a-teismo moderno la rara erudizione che sostiene la sua originale riflessione specu-lativa. A ciò si potrebbe aggiungere la vasta estensione della sua opera: dal pen-siero classico al pensiero contemporaneo, dalla psicologia alla metafisica.

Il Fondo, con la varietà dei suoi testi, corrispondenti per gran parte degli auto-ri all’intera stratificazione della ricerca, dalle fonti alla letteratura critica, testipieni di annotazioni e di fogli manoscritti, rappresenta una testimonianza sensibi-le dello straordinario lavoro condotto da Fabro dai primi anni della sua attivitàfino alla fine (come testimonia la professoressa Rosa Goglia che fu sua collabo-ratrice, Fabro lasciò la scrivania piena di testi, appunti e vocabolari). Sulla basedello stato attuale della catalogazione (16.000 su 20.000 titoli circa) possiamo for-nire a titolo introduttivo qualche dato, contando di poter fornire ulteriori raggua-gli in uno dei prossimi fascicoli di «Acta Philosophica».

Le lingue più rappresentate sono, oltre all’italiano, il tedesco e il francese. Tragli autori maggiormente presenti, nell’ordine: Kierkegaard, san Tommaso,Aristotele, Hegel, Kant, Heidegger. Specialmente per questi autori è da segnalarela completezza del materiale presente.

Ne sono un esempio la presenza di tutte le edizioni delle opere complete diHegel dall’edizione di Berlino del 1832 all’edizione Lasson-Hoffmeister, dall’e-dizione Glockner, fino alle più recenti edizioni delle Vorlesungen come quelle difilosofia del diritto edite da Ilting nel 1973. Un altro esempio è l’edizione com-pleta delle opere di Kierkegaard, l’edizione Ibsen-Himmelstrup del 1920 (laseconda e più completa), a cui si aggiungono tutte le edizioni dei Papirer com-prese tra l’edizione Reitzel del 1869 e l’edizione Thulstrup del 1968. Alle edizio-ni critiche si accompagna l’ampia varietà di studi, repertori e traduzioni: tra que-ste ultime, per limitarci al francese, figurano le traduzioni hegeliane di Verra,Hyppolite, Jankélévitch, Gibelin.

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Notevole è la presenza di testi rari e preziosi come un’edizione del 1525 delleopere di Pomponazzi, la traduzione di Pacio della Fisica di Aristotele del 1608,diverse edizioni settecentesche delle opere di Wolff e di Leibniz, la vita di Proclodi Marino del 1703, l’edizione di Cousin delle opere del maestro ateniese, l’edi-zione del 1812 delle opere di Jacobi e così via per molti altri autori come MarsilioFicino, Malebranche, Voltaire, Fries, Cabanis, von Baader, Feuerbach e altri.

Sono stati rinvenuti inoltre alcuni testi inediti dello stesso Fabro, soprattutto ledispense dei suoi corsi universitari. Questi testi si vanno ad aggiungere al mate-riale inedito già reperito e conservato in fotocopia grazie alla generosa disponibi-lità delle professoresse Anna Giannatiempo e Rosa Goglia.

Era volontà espressa di Fabro che la sua biblioteca fosse conservata nellaforma originale e che essa fosse destinata alla ricerca filosofica al servizio dellaChiesa. Alla prima istanza si sta dando piena soddisfazione grazie alla costituzio-ne del Fondo, conservando il materiale in un apposito locale della Bibliotecadell’Università della Santa Croce, in via dei Farnesi 82 (Roma) e rispettando ilcomplesso sistema di collocazione elaborato dallo stesso Fabro (un originalesistema alfanumerico che dovrebbe ordinare logicamente tutto l’eterogeneo mate-riale). Il paziente lavoro di catalogazione portato avanti dalla bibliotecadell’Università segue inoltre lo standard internazionale di catalogazione RICA-ISBD il quale permette di consultare i dati da una qualunque postazione esternavia internet presso l’indirizzo della stessa biblioteca (www.pusc.it/bib). È poi incantiere un link dove potranno essere raccolti tutti i dati che riguardano gli studisu Fabro.

La seconda istanza è il compito attuale per tutti coloro che si stanno costi-tuendo in gruppi di ricerca intorno al Fondo. L’idea che li anima è di mettere afrutto la preziosa eredità di Fabro, cercando di seguire la sua traccia e — ciò ch’e-gli avrebbe maggiormente desiderato — cercando di seguire personalmente il suoesempio di studioso di formazione classica particolarmente aperto al confrontocon il pensiero moderno e contemporaneo, sempre sollecito a rispondere nellafede e con generoso impegno alle sfide dell’epoca presente.

Ariberto ACERBI

CONVEGNI E SOCIETÀ FILOSOFICHE

• A Cividale del Friuli, dal 4 al 7 settembre 2003, l’Associazione DocentiItaliani di Filosofia (A.D.I.F.) ha organizzato il XIX Convegno Nazionale diFilosofia dal titolo Filosofia e arte. Hanno partecipato al convegno i seguentirelatori: A. Molinaro (L’arte come problema filosofico), C. Vigna (Il senso delbello), B. Mondin (Il bello e l’arte in S. Agostino e S. Tommaso), M. Pagano(L’immagine del mondo moderno nella letteratura: l’interpretazione di Hegel), P.Viotto (Il problema della bellezza in J. Maritain), C. Valenziano (Il bello e l’arte

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nell’universo simbolico cristiano), M. Monaldi (Vecchi e nuovi simulacri: leimmagini virtuali tra cinema e video art). Nell’ultima giornata si è svolta unatavola rotonda dal titolo La bellezza salverà il mondo?

• In occasione del quinto anniversario della pubblicazione dell’enciclica Fideset Ratio di Giovanni Paolo II, nei giorni 9-11 ottobre 2003, la Pontificia UniversitàLateranense ha promosso un convegno internazionale intitolato Il desiderio diconoscere la verità. Le relazioni di queste giornate sono state di Enrico Berti(L’istanza metafisica nella Fides et Ratio), Antonio Livi (Le premesse razionalidella fede secondo la Fides et Ratio), Andrea Milano (Ragione storica e ragioneteologica nella Fides et Ratio), Max Seckler (Sapere filosofico e sapere teologico),Ralph McInerny (Tradizione e ragione critica nella Fides et Ratio), Remo Bodei(Cristianesimo e modernità alla luce della Fides et Ratio), Bernard Schumacher(Libertà e valori nella Fides et Ratio), Giovanni Sala (La filosofia nel contesto del-l’epistemologia teologica), Hermann Joseph Pottmeyer (Fides et Ratio e la storiadella teologia dell’Ottocento), Lukasz Kamykowski (Filosofia e teologia oppureun’unica “Sophia” di fronte alle scienze?), Salvador Pié i Ninot (Filosofia e teo-logia nel contesto spagnolo), Gilbert Narcisse (Tomismo e Magistero dopo la Fideset Ratio), César Izquierdo (Tradizione ecclesiale e tradizioni culturali secondoFides et Ratio), Eilert Herms (Una lettura della Fides et Ratio nella prospettivadella teologia evangelica), Giuseppe Lorizio (Fides et Ratio e la teologia fonda-mentale), David Tracy (Fides et Ratio e il dialogo interreligioso) e BogdanLubardic∆ (Una lettura della Fides et Ratio nella prospettiva della teologia orto-dossa). L’ultima giornata è stata dedicata a una tavola rotonda su Filosofia e teo-logia a partire da Fides et Ratio, moderata da Marcelo Sánchez Sorondo, cuihanno partecipato Francesco Botturi, Dario Antiseri, Vittorio Possenti e AntonioStaglianò. La sintesi conclusiva di Antonio Sabetta (Una bibliografia ragionata suFides et Ratio) ha chiuso i lavori del convegno.

• Nei giorni 23-24 ottobre 2003 si è svolto presso il Centro Studi Filosofico-religiosi «Luigi Pareyson» di Torino il convegno internazionale Lo Spirito nelconfronto delle culture. Il programma prevedeva, dopo la relazione introduttivadi Maurizio Pagano, gli interventi di Mario Piantelli (Possibili echi indiani dellopneuma), Attilio Andreini (Le categorie dello spirito nella Cina antica),Alessandro Bongioanni (Modalità dello spirito nell’antico Egitto), AngeloScarabel (Aspetti dello spirito nel testo e nell’esegesi coranica), Aldo Magris (Lo“spirito” e l’eredità dei greci), Wolfhart Pannenberg (Spirito e coscienza). Unatavola rotonda con la partecipazione di tutti i relatori ha concluso le due giornatedi relazioni e dibattiti.

• La Canadian Jacques Maritain Association quest’anno ha svolto il suo con-vegno annuale presso la Saint Paul University di Ottawa, sul tema Maritain andImmortality nei giorni 24-25 ottobre 2003. Il programma prevedeva nel pome-riggio di venerdì 24 la Public lecture di Fred Wilson (Università di Toronto) into-tolata Socrates’ Argument for Immortality: Socrates, Maritain, Grant and theOntology of Morals. Il sabato 25 si dovevano invece svolgere le relazioni restan-ti: Lawrence Dewan (Christian Philosophy, Immortality, and Human Dignity),

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David Bellusci (Self, God and Immortality in Josiah Royce), Richard Feist(Maritain on the Infinite and the Ethical), Bharathi Sriraman (Leibniz andMaritain on the question of immortality), Leslie Armour (Reflection, Goodnessand Immortality), Elizabeth Trott (Must Souls be Immortal?: The GaiaHypothesis and Scientific Souls).

• Nel programma delle attività del Centro Italiano di RicercheFenomenologiche (Roma) sono state previste per il secondo semestre del 2003due tavole rotonde: il 15 novembre Mauro Carbone, Giovanni Invitto e ChiaraZamboni hanno parlato su Esistenza, estetica, etica in Merleau-Ponty. Il 13dicembre, invece, hanno discusso su Fede e nichilismo in un pensatore dialogi-co: F.H. Jacobi Marco M. Olivetti, Alberto Iacovacci, Pierluigi Valenza e MarcoIvaldo.

• Il Dipartimento di filosofia dell’Università degli studi di Verona in collabo-razione con la Società italiana per gli studi kierkegaardiani ha indetto per i gior-ni 1-3 dicembre 2003 il convegno internazionale Kierkegaard contemporaneo:ripresa, pentimento, perdono. Il programma prevedeva i seguenti interventi:Umberto Regina (Perché questo Convegno) Virgilio Melchiorre (Il tempo del pen-timento [Qohélet e Kierkegaard]), Leonardo Amoroso (Buber, Kierkegaard e laprova di Abramo), Arne Grøn (Temporality of Repentance – Temporality ofForgiveness), Simonella Davini (Agnese e il tritone: una storia di redenzione?),Giovanni Ferretti (Pentimento e perdono in Scheler, Lévinas e Ricoeur), NielsJørgen Cappelørn (Imitation, Sin, Forgiveness), Umberto Curi (Il mancato penti-mento di Don Giovanni), Isabella Adinolfi (Verità storiche e verità di ragione inPascal e Kierkegaard), Alessandro Cortese (“Anger/pentimento”. Dall’avvio del-l’attività di scrittore sino ad Enten-Eller), Poul Lübcke (Remorse, Forgivenessand the Absence of Generosity in Kierkegaard’s Works), Adriana Cavarero (Il pen-timento in Hannah Arendt), François Bousquet (Repentir et devenir-sujet devantDieu), Roberto Garaventa (Angoscia, colpa, redenzione. Kierkegaard a confron-to con l’antropologia e la psicanalisi), Ettore Rocca (La coscienza del peccato.Per un’estetica teologica).

VITA ACCADEMICA

Attività

• Per la festa della patrona della Facoltà, Santa Caterina d’Alessandria, il 25novembre 2002, dopo la concelebrazione eucaristica nella Basilica diSant’Apollinare, il Prof. Carmelo Vigna, Ordinario di Filosofia Morale pressol’Università Ca’ Foscari di Venezia, ha tenuto la prolusione sul tema Desiderio emetafisica.

• La nostra Università, il 26 novembre 2002, per la prima volta nella sua vitaaccademica, ha conferito il Dottorato Honoris Causa in tre diverse discipline: al

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Cardinale Dionigi Tettamanzi in Sacra Teologia, al Prof. Javier Hervada Xibertain Diritto Canonico e al Prof. John Michael Rist in Filosofia. Si è voluto dare unmeritato omaggio e una manifestazione di gratitudine al contributo che i tre neo-dottori hanno reso alla scienza e allo sviluppo di questa Università.

Nell’Aula Card. Höffner, dopo l’indirizzo di saluto del nostro Gran Cancelliere,S.E.R. Mons. Javier Echevarría, e l’introduzione del Rettore Magnifico, Mons.Mariano Fazio, il Prof. Mons. Ignacio Carrasco de Paula ha pronunciato laLaudatio del Card. Dionigi Tettamanzi che, ricevuto il diploma, ha tenuto la suaLectio magistralis su Attualità dell’Enciclica Veritatis Splendor. Il rapportoverità e libertà. Successivamente, il Rev. Prof. Juan Ignacio Arrieta ha tenuto laLaudatio del Prof. Javier Hervada Xiberta che, dopo la consegna del diploma, hasvolto la Lectio magistralis dal titolo Confessioni di un canonista. Infine, il Rev.Prof. Juan José Sanguineti ha fatto la Laudatio del Prof. John Michael Rist, il qualeha pronunciato la sua Lectio magistralis intitolata Fondamentalismi. Gli inter-mezzi corali eseguiti dal Coro da camera di Mons. Pablo Colino e gli intermezzistrumentali del Quartetto “Gli amici dell’Armonia” hanno scandito i momenti piùsignificativi durante lo svolgimento della cerimonia.

• La nostra Università, il 9 dicembre 2002, ha conferito per la prima volta il“Premio Internazionale di Filosofia Antonio Jannone”, assegnandolo allo studio-so di filosofia antica, Prof. Giovanni Reale, che nell’ambito della cerimonia hatenuto la Lezione magistrale sul tema Platone e Aristotele nella filosofia cri-stiana.

• La Facoltà, dal 27 al 28 febbraio 2003, ha organizzato l’XI Convegno diStudio dal titolo Tommaso d’Aquino e l’oggetto della metafisica.Approfondimenti e dibattiti, con l’intento di riunire studiosi autorevoli per unaggiornamento sull’interpretazione del concetto tomasiano di metafisica, e peruna discussione sia del suo significato storico che della sua validità filosofica. Ilavori sono stati articolati in quattro aree.

Dopo il saluto di benvenuto del Rettore, Mons. Mariano Fazio, e la presenta-zione del Convegno da parte del Rev. Prof. Stephen Brock, Presidente delComitato organizzativo, nella 1ª Area avente per tema La determinazione del-l’oggetto della metafisica, sono intervenuti il Rev. Prof. Lawrence Dewan, O.P.,del “Dominican College of Philosophy and Theology” di Ottawa su Che signifi-ca studiare l’ente “in quanto ente”? e il Rev. Prof. Miguel Pérez de Laborda,della Pontificia Università della Santa Croce su In che senso la metafisica va“oltre” la fisica. Nella 2ª Area dal tema La costituzione dell’ente sono interve-nuti il Prof. David Twetten, della “Marquette University” di Milwaukee su Comedistinguere realmente tra essere ed essenza. Spunti aristotelici e il Prof. Mons.Mario Pangallo, della Pontificia Università Gregoriana su Il nulla ha un postonella metafisica?

Nella 3ª Area dal titolo Le condizioni della scienza dell’ente hanno parlato ilProf. Jan A. Aertsen, Direttore del “Thomas-Institut” di Colonia su Come si cono-sce l’oggetto della metafisica? e il Prof. Pasquale Porro, dell’Università di Barisu Tommaso, Avicenna e la struttura della metafisica. Nella 4ª Area dal tema

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Aldilà dell’ente sono intervenuti il Rev. Prof. Luis Romera, della PontificiaUniversità della Santa Croce su L’oggetto della metafisica include Dio? e il Rev.Prof. Stephen Brock, della Pontificia Università della Santa Croce su L’analogiadell’ente è “platonismo”? Le tavole rotonde pomeridiane hanno concluso i lavo-ri di entrambe le giornate del Convegno.

• L’11 aprile 2003 si è svolto un Colloquio per docenti e studenti sul tema Chiera veramente il filosofo greco? È stato tenuto dal Prof. Stamatios Tzitzis,Direttore di Ricerca presso il CNRS e Presidente dell’Equipe InternationaleInterdisciplinaire de Philosophie Pénal dell’Université de Paris II.

Seminari per professori

Durante l’anno accademico 2002-2003, nei seminari per professori della facol-tà di Filosofia sono intervenuti come relatori:

– 16 gennaio 2003: Rev. Prof. Juan José Sanguineti, Pontificia Università dellaSanta Croce, su La filosofia di Leonardo Polo.

– 20 febbraio 2003: Rev. Prof. Martin Rhonheimer, Pontificia Università dellaSanta Croce, su Liberalismo politico, democrazia moderna e laicità delloStato.

– 13 marzo 2003: Rev. Prof. Francisco Fernández Labastida, PontificiaUniversità della Santa Croce, su Lo stato attuale della fenomenologia.

– 27 marzo 2003: Prof.ssa Olimpia Lombardi, Università di Buenos Aires, suIl problema dell’oggettività scientifica. Verso un’ontologia stratificata.

– 10 aprile 2003: Prof. Lucio Cortella, Università Ca’ Foscari di Venezia, suHegel: la libertà moderna come Ethos.

– 15 maggio 2003: Rev. Prof. José Angel Lombo, Pontificia Università dellaSanta Croce, su Persona, individuazione, libertà.

– 18 giugno 2003: Rev. Prof. Russel Hittinger, University of Tulsa, suRediscovering Natural Law in a Post-Christian World.

Nomine

Nell’anno accademico 2002-2003, nella Facoltà di Filosofia sono stati nomi-nati: il Prof. Juan Andrés Mercado, Professore Aggiunto; il Rev. Prof. MarcoPorta, Professore Associato; il Prof. Flavio Keller, Professore Visitante.

Nuove pubblicazioni curate dalla Facoltà

– GABRIEL CHALMETA, Introduzione al personalismo etico, Edizioni Universitàdella Santa Croce, Roma 2003, pp. 176.

– ANTONIO MALO, Introduzione alla Psicologia, Le Monnier, Firenze 2002, pp.172.

– RAFAEL MARTÍNEZ – JUAN JOSÉ SANGUINETI (a cura di), Dio e la natura,Armando, Roma 2002, pp. 191.

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– FRANCESCO RUSSO - RODERRICK ESCLANDA (a cura di), “Homo patiens”:prospettive sulla sofferenza umana, Armando, Roma 2003, pp. 256.

Nella “Series Philosophica” della collana Dissertationes sono state pubblicatenell’anno accademico 2002-2003 le seguenti tesi:

– B. AUGUSTIN, Ethische Elemente in der Anthropologie Edith Steins, EdizioniUniversità della Santa Croce, Roma 2003, pp. 302.

– F. BERGAMINO, La razionalità e la libertà della scelta in Tommaso d’Aquino,Edizioni Università della Santa Croce, Roma 2002, pp. 294.

– M.M. FERREIRO, Lenguaje y realidad en Wittgenstein. Una confrontacióncon Tomás de Aquino, Edizioni Università della Santa Croce, Roma 2003, pp.300.

– M.C. REYES LEIVA, Las dimensiones de la libertad en “Sein und Zeit” deMartin Heidegger, Edizioni Università della Santa Croce, Roma 2003, pp. 448.

Altre pubblicazioni dei docenti della Facoltà

– GABRIEL CHALMETA, Ética social. Familia, profesión y ciudadanía, Eunsa,Pamplona 2003, 2º ed., pp. 224.

– ANTONIO MALO (a cura di), La dignità della persona, in Atti del Congressointernazionale “La grandezza della vita quotidiana”, Edizioni Università dellaSanta Croce, Roma 2003, pp. 270.

– JUAN JOSÉ SANGUINETI, La antropología educativa de Clemente Alejandrino.El giro del paganismo al cristianismo, Eunsa, Pamplona 2003, pp. 493.

Corsi monografici di dottorato

Nell’anno accademico 2002-2003 si sono svolti presso la Facoltà di Filosofiai seguenti corsi monografici:

Prof. Luca Tuninetti: L’epistemologia della fede in John Henry NewmanProf. Mariano Artigas: La strategia di GalileoProf. Juan José García-Noblejas: Poetica, retorica e filosofiaProf. Flavio Keller: Il problema mente-corpo: un tentativo di sintesi interdi-

sciplinare

Studenti

Nell’anno accademico 2002-2003 gli studenti iscritti alla Facoltà sono stati123, così suddivisi: 1º Ciclo: 29; 2º Ciclo: 37; 3º Ciclo: 57. Gli studenti che hannoottenuto il baccellierato in filosofia al termine del primo ciclo di studi sono stati17, quelli che hanno ottenuto la licenza sono stati 17 (12 studenti nellaSpecializzazione in Etica e Scienze, e 5 nella Specializzazione in Metafisico-noe-tica) ed altri 13 hanno discusso la tesi dottorale. Le tesi pubblicate nel periodo set-tembre 2002 - giugno 2003 sono state 20.

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Tesi dottorali discusse

AIELLO, ANDREA, “Notule de scientia theologie” (mss Paris, Nat. lat. 15355,f. 40r mg. inf. - Paris, nat. lat. 16297, ff. 231v-232v): edizione critica, cronologiae paternità (Relatore: Prof. Robert Wielockx).

AYUGI, THOMAS MBOYA, Political Order, Complementarity and HumanEquality: a Thomistic Defence of Their Compatibility (Relatore: Prof. RobertGahl).

BAZÓ CANELÓN, ABELARDO, La Eternidad de Dios en Santo Tomás de Aquino.Una visión filosófica (Relatore: Prof. Juan José Sanguineti).

BELLEY, ANTOINE, L’originalité du concept de connaissance par connaturalitédans les oeuvres de Jacques Maritain (Relatore: Prof. Marco D’Avenia).

BELTRÁN, ORLANDO GUMIRÁN JR., Edith Stein’s Notion of HumanConsciousness (Relatore: Prof. Francisco Fernández Labastida).

BERGAMINO, FEDERICA, La razionalità e la libertà della scelta in Tommasod’Aquino (Relatore: Prof. Stephen L. Brock).

BRITTO, THARCIUS, Intersubjectivity in the Ethical Personalism of Max Schelerand Karol Wojtyla (Relatore: Prof. Antonio Malo).

DÍAZ GALLINAL, ANÍBAL A., La Polémica sobre la Norma Moral en el Tomismo(1890-1950) (Relatore: Prof. Ángel Rodríguez Luño).

KIRANGA, DAVID NJUGUNA, Aristotle’s Rhetoric and Public Morality (Relatore:Prof. Juan Andrés Mercado).

MARTÍNEZ ACEVES, RODRIGO, Charles Taylor: la identidad del hombre moder-no (Relatore: Prof. Juan Andrés Mercado).

MIYAM, PAUL LAURENT, Meilaender’s Philosophy of Friendship: anAristotelian Analysis (Relatore: Prof. Robert A. Gahl Jr.).

MORA MARTÍN, RAFAEL MANUEL, La teoría del signo y la “suppositio” en lafilosofía de Guillermo de Ockham (Relatore: Prof. Rafael Jiménez Cataño).

PEGUERA POCH, JOSEP, Las dimensiones de la libertad en Romano Guardini(Relatore: Prof. Luis Romera).

PEREPPADAN, VARGHESE, God’s Action in the World. Peacockean Perspective ofNew Biology (Relatore: Prof. Rafael Martínez).

PORTOCARRERO DE ALMADA, GONÇALO NUNO, A razão dialéctica emAristóteles. Introdução ao estudo da sua natureza (Relatore: Prof. Miguel Pérezde Laborda).

REYES LEIVA, MARÍA CRISTINA, Las dimensiones de la libertad en “Sein undZeit” de Martin Heidegger (Relatore: Prof. Luis Romera).

VITORIA SEGURA, MARÍA ANGELES, Las relaciones entre la filosofía y cienciasen la obra de J. Maritain (Relatore: Prof. Juan José Sanguineti).

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bibliografia tematica

La famiglia e l’amore coniugale

In concomitanza con il “quaderno” monografico sulla famiglia contenuto nelpresente fascicolo, pubblichiamo una bibliografia tematica sullo stesso argomen-to curata dal prof. Gabriel CHALMETA.

Un buona introduzione storico-teoretica al tema dell’amore coniugale e dellafamiglia è quella di L. PIZZOLATO, L’idea di amicizia nel mondo antico classico ecristiano, Einaudi, Torino 1993, pp. 345. Il libro, come appare chiaramente indi-cato nel titolo, considera questi argomenti alla luce del rapporto amicale, assu-mendo una prospettiva che personalmente ritengo la più idonea. L’autore comin-cia dai “poemi omerici” e arriva fino ad Agostino, sintetizzando generalmente confedeltà il pensiero degli autori che vengono volta per volta esaminati. Meno indo-vinate mi sembrano invece alcune delle sue valutazioni (per esempio, quelle fon-date sulla distinzione tra “amicizia” e “amore” in Aristotele e altri autori; oppure,in generale, quelle basate sull’opposizione tra l’amore erotico e quello disinteres-sato).

Del periodo “antico classico” si possono leggere i dialoghi Fedone e Simposiodi PLATONE, anche se si troveranno insieme passi di valore straordinario ed altri diinteresse minore (trad. it. in Tutti gli scritti, Bompiani, Milano 2000). In ognicaso, sono sicuramente “i libri dell’amicizia” di ARISTOTELE gli scritti più degnidi attenzione di questo periodo storico. Mi riferisco, in particolare, al libro VIIdell’Etica Eudemia (trad. it. in Opere: 8, Laterza, Roma-Bari 1999), nonché ailibri VIII e IX dell’Etica Nicomachea (trad. it. con testo greco a fronte: Bompiani,Milano 2000). Per meglio capire il senso del testo aristotelico è utile il commen-to di TOMMASO D’AQUINO, Sententia Libri Ethicorum (trad. it.: Commentoall’Etica Nicomachea di Aristotele, Edizioni Studio Domenicano, Bologna 1998).Sul ruolo dell’amicizia nella concezione etica di Aristotele si veda l’ottimo sag-gio di R. SOKOLOWSKI, Phenomenology of Friendship, «The Review ofMetaphysics» 55 (March 2002), pp. 451-470.

Nel trattatello di M.T. CICERONE, Laelius de amicitia (trad. it.: L’amicizia,Armando, Roma 1996), la tradizione aristotelica s’incontra con la più profondariflessione della cultura romana sull’amicizia.

Tra i pensatori dell’“antichità cristiana”, suggerirei la lettura di due autori.Anzitutto AMBROGIO, nelle cui opere (per esempio nel De officiis) rivive con tuttala sua forza l’ideale di amicizia dell’antichità classica, che coesiste pacificamen-

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te con il nuovo messaggio cristiano. L’altro autore è, evidentemente, AGOSTINO.Ritengo però che molto difficilmente si potrà capire il vero significato del testoagostiniano senza l’aiuto di qualche sussidio introduttivo, come quello di E.SAMEK LODOVICI, Sessualità, matrimonio e concupiscenza in sant’Agostino, inAA.VV. (a cura di R. Cantalamessa) Etica sessuale e matrimonio nel cristianesi-mo delle origini, Vita e pensiero, Milano 1976, pp. 212-272. Tra le tante opere diAgostino sull’amore coniugale e la famiglia, la mia preferenza va a De bonoconiugali (trad. italiana con testo latino a fronte: La dignità del matrimonio, CittàNuova, Roma 1978, vol. VII/1).

Un’utile introduzione alla riflessione filosofica sulla famiglia in TOMMASO

D’AQUINO è quella di F. GALEOTTI, Amore ed amicizia coniugali secondoTommaso d’Aquino, «Doctor Communis», 25 (1972), I, pp. 39-59, e II, 129-163.Di Tommaso stesso, l’autore senz’altro più importante del periodo medievale,consiglierei la lettura dei seguenti testi: Scriptum super libros Sententiarum, l. IV,distinzioni 26-42 (trad. italiana con testo latino a fronte: Commento alle Sentenzedi Pietro Lombardo, Edizioni Studio Domenicano, Bologna 2001); Summa con-tra gentiles, l. III, capitoli 122-126 (trad. italiana con testo latino a fronte: Lasomma contro i gentili, Edizioni Studio Domenicano, Bologna 2001); e, soprat-tutto, Summa theologiae, I-II, qq. 26-28 (De amore), e II-II, qq. 23-26 (De cari-tate) (trad. italiana con testo latino a fronte: La somma teologica, Edizioni StudioDomenicano, Bologna 19842). Un ottimo commento di questi ultimi testi è statoproposta da J. MCEVOY, in Amitié, attirance et amour chez S. Thomas d’Aquin,«Revue Philosophique de Louvain», XCI (1993), pp. 383-407.

La riflessione filosofica rinascimentale e moderna sull’amicizia, l’amoreconiugale e la famiglia è «dolorosamente squallida» (J. McEvoy). In età modernail tema generale dell’amore è confinato nell’orizzonte del soggetto senziente e sirisolve quasi sempre nel mero fatto psichico del sentimento o passione e nell’ideacorrispondente; nel migliore dei casi, non si va al di là della sua definizione come«un compiacersi di un’altra persona per pregi suoi personali o per servigi presta-tici» (D. Hume).

Per questo motivo (e fintanto che non ci arrivi qualche segnalazione contrariadi uno dei nostri eruditi lettori), dalla fine del Medioevo dobbiamo passare diret-tamente all’Ottocento; in particolare; fino al momento in cui V. SOLOVIEV, ripren-dendo criticamente le istanze ultrasensibili e trascendentali della filosofia ideali-stica, e riallacciandosi alla tradizione classica (specialmente Platone), non pub-blicherà il suo Smysl ljubvi (1892-1894) (trad. italiana: Il significato dell’amore,in Opere, vol. I: Il significato dell’amore e altri scritti, La Casa di Matriona,Milano 1988, pp. 53-107; sono ottime l’introduzione e le note di A. Dell’Asta).

Il Novecento è stato invece un secolo ricco di studi filosofici interessanti sul-l’amore e la famiglia (un po’ meno, purtroppo, sull’amicizia nel senso classico).Per esempio quello, molto noto di C.S. LEWIS, The Four Loves, Harcourt Brace &World, New York 1960, pp. 192 (trad. italiana: I quattro amori. Affetto, Amicizia,Eros, Carità, Jaca Book, Milano 19902): né la scarsa sistematicità di quest’opera,né i dilemmi non risolti e le non poche ambiguità, né tutti gli altri limiti già nota-

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bibliografia tematica

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ti al momento della pubblicazione impediscono di attribuirle l’aggettivo di genia-le. Sono anche ben noti i molti meriti del saggio di J. PIEPER, Über die Liebe,Kösel, München 19722 (trad. italiana: Sull’amore, Morcelliana, Brescia 1974). Èinvece molto meno conosciuta, anche se altrettanto interessante, l’opera di uncanonista spagnolo appartenente all’ambito della Filosofia del Diritto, di cui èstata pubblicata recentemente in italiano una raccolta dei principali articoli sulmatrimonio: mi riferisco a J. HERVADA, e al volume Studi sull’essenza del matri-monio, Giuffrè, Milano 2000.

Ovviamente, ci sono motivi più che giustificati per indicare molti altri autori eopere del Novecento. Ma forse un pensatore che dovrebbe sicuramente esserepresente in ogni elenco è K. WOJTYLA. Il lettore che affronti i saggi di K. Wojtylasenza una preparazione filosofica (fenomenologica) specifica è più che probabileche possa inciampare qua e là in alcuni passi di non facile comprensione. Perovviare queste difficoltà sarà molto utile la lettura propedeutica delle lezioni di R.BUTTIGLIONE raccolte in L’uomo e la famiglia, Dino, Milano 1991.

L’opera principale di K. Wojtyla sull’amore coniugale e la famiglia è Milosc iodpowiedzialnosc (trad. italiana: Amore e responsabilità. Morale sessuale e vitainterpersonale, Marietti, Genova 19834). Di quest’opera, non difficilissima, hafatto una sintesi chiara e originale C. CAFFARRA, in Etica generale della sessuali-tà, Ares, Milano 1992. Più difficoltà presenta la lettura di The Acting Person (tito-lo del testo definitivo), Reidel, Dordrecht 1980, specialmente capitoli V-VII (trad.italiana: Persona e atto, Rusconi, Milano 1999). Si potrebbero indicare, infine,due articoli di questo filosofo polacco, particolarmente interessanti per il caratte-re sintetico e gli spunti teologici: La famiglia come «communio personarum»(Ateneum Kaplanskie, 83-1974), e Paternità-maternità e la «communio persona-rum» (Ateneum Kaplanskie, 84-1975), entrambi raccolti in Perché l’uomo. Scrittiinediti di antropologia e filosofia, Leonardo, Milano 1995, pp. 197-234.

La società politica giusta ha bisogno di famiglie buone e queste sono possibi-li soltanto all’interno di una società giusta. Questo reciproco rapporto di dipen-denza, studiato dalla Filosofia politica, è stato ben esaminato da autori come A.MACINTYRE, After Virtue. A Study in Moral Theory, Duckworth, London 19852

(trad. it.: Dopo la virtù. Saggio di teoria morale, Feltrinelli, Milano 1988); D.L.NORTON, Democracy and Moral Development. A Politics of Virtue, University ofCalifornia Press, Berkeley-Los Angeles-Oxford 1991; S. BELARDINELLI, Il giocodelle parti. Identità e funzioni della famiglia in una società complessa, AVE,Roma 1996.

Ci sono inoltre alcune opere che, pur adoperando la metodologia tipicamentesociologica, offrono degli ottimi spunti e punti di riferimento per il filosofo. Adesempio, il ben noto saggio di B. BERGER e P.L. BERGER, The War over the Family.Capturing the Middle Ground, Anchor Press/Doubleday, Garden City-New York1983; trad. italiana: In difesa della famiglia borghese, Il Mulino, Bologna 1994.Ancora più completo, valido e ricco di spunti normativi è il libro di P. DONATI,Manuale di sociologia della famiglia, Laterza, Roma-Bari 1998; richiede però nellettore una buona preparazione sociologica. Giudico “stupendo” — non trovo

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bibliografia tematica

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modo migliore di qualificarlo — il breve saggio di S. BELARDINELLI, La normali-tà e l’eccezione. Il ritorno della natura nella cultura contemporanea, Rubbettino,Soveria-Mannelli (Catanzaro) 2002.

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bibliografia tematica

STEPHEN L. BROCK(a cura di)

L’ATTUALITÀ DI ARISTOTELE

Scritti di: A. Berti, A. Campodonico, Ll. Clavell,K.L. Flannery, F. Inciarte, R. McInerny, C. Natali,W.A. Wallace, I. Yarza, H. Zagal Arreguin

Collana: Studi di filosofia - 21a cura della Facoltà di Filosofia della PontificiaUniversità della Santa Croce

pp. 192 € 14,46

studi di filosofia

STEPHEN L.BROCK(a cura di)

L’ATTUALITÀDI ARISTOTELE

ARMANDO EDITORE

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recensioni

Michel HENRY, Paroles du Christ, Éditions du Seuil, Paris 2002, pp. 155.

On ne peut manquer, en lisant Michel Henry, d’être impressionné par la viveperception qu’il a de l’originalité phénoménologique de la vie. Il y a, chez lui,sans doute, beaucoup de cette intense admiration que l’on dit être aux origines dela réflexion philosophique alors qu’il considère «la merveilleuse condition d’êtrevivant» (p. 136).

Le questionnement qui en résulte mène à de rigoureuses analyses que l’auteureffectue à partir des principes de sa critique envers la phénoménologie classique,de Husserl à Merleau-Ponty, par lesquels il s’efforce de penser la préséance de lavie. À cet égard, Paroles du Christ, publié quelques trois mois après la mort deMichel Henry, se trouve en parfaite continuité avec son ouvrage fondamental inti-tulé Incarnation. Une philosophie de la chair (Paris, 2000), auquel nous avonsconsacré, dans cette même Revue (vol. 12, fasc. I, 2003), un commentaire, oùnous avons tenté de relever la portée et les limites de la distinction de cette autreforme d’apparaître qu’est le pathos de la vie, une cogitatio sans cogitatum, parrapport à l’apparaître du monde, comme conscience de. En reconnaissant ce dou-ble apparaître – ignoré par la réduction méthodologique et thématique de la phé-noménologie, de Husserl à Merleau-Ponty – Henry espère opérer un élargisse-ment et même un renversement par rapport à la phénoménologie classique, selonqu’il estime que: «Toute conscience n’est pas conscience de».

L’auteur nous demande ainsi de commencer par admettre qu’il y a ce doubleapparaître originaire. Encore que les deux types de cogitationes ne sont pas sim-plement symétriques. C’est la réalité poignante de l’affectivité – qui tient de l’in-visible par rapport au monde, qui lui se situe dans le champ de vision du sujet –,qui est primaire. Voilà le principe auquel tiennent solidement les vigoureuses ana-lyses développées au long de dix brefs chapitres qui composent l’ouvrage, où ilsse trouvent arrangés autour de diverses modalités ainsi que de la portée des paro-les du Christ en rapport avec les hommes auxquels elles s’adressent.

L’opposition entre l’extériorité vanifiée du monde et l’immanence radicale dela vie est la distinction fondamentale à partir de laquelle l’auteur déploie tous lesriches développements d’une pensée qui ne manque pas d’intérêt. Si la distinction

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en question semble heurter le sens commun, Michel Henry s’explique en disantque «la pensée philosophique est capable de s’élever contre la tentation du senscommun, [de] situer toute la réalité dans le monde visible. Avec le cogito deDescartes par exemple, avec le “Moi transcendantal” de Kant ou Husserl, ouencore avec l’âme de la tradition, c’est bel et bien au domaine de l’invisible quecette réalité est confiée» (p. 35), précise l’auteur. Il s’inscrit alors volontiers danscette optique car, estime-t-il, «du point de vue philosophique, la définition del’homme comme puisant sa réalité dans l’Affectivité de la vie, et ainsi commevivant qui ne cesse de s’éprouver lui-même dans la souffrance ou dans la joie aune portée révolutionnaire. Sur le plan historique, renchérit-il, elle a ébranlé l’ho-rizon de pensée qui était celui des Grecs pour lesquels l’homme est un être ration-nel. C’est justement par la Raison – en tant que “pourvu de Logos” – que l’hom-me se différencie de l’animal» (p. 19).

Le grand bouleversement, selon Henry, s’est opéré par le christianisme,notamment à la faveur des paradoxes apparents du sermon de Béatitudes, quipourtant sollicitent instamment quelque chose en nous, dans notre cœur. Par rap-port à l’horizon conceptuel grec, la notion du “cœur” dans les Écritures fut unedécouverte anthropologique. Pour l’auteur, « l’identification de la réalité humai-ne au “cœur” a une signification inouïe, elle atteste que, à la différence des cho-ses de l’univers, qui ne sentent et n’éprouvent rien – et qui pour cette raison nesauraient être ni bonnes ni mauvaises – l’homme est celui qui s’éprouve soi-même. C’est pour cette raison précise qu’il se trouve capable d’éprouver et desentir tout ce qui l’entoure, le monde et les choses qui s’y montrent. Mais s’é-prouver soi-même constitue le propre de la vie» (pp. 18-19).

En ce sens, Michel Henry est sans doute à mettre au nombre des témoins de lapuissance fécondante du christianisme pour la pensée. Sa prédilection pour Jeannous rappelle par ailleurs que la fascination de cette articulation harmonieuseentre révélation chrétienne et pensée philosophique – si transparente dans le pro-logue du quatrième Évangile – a une tradition qui remonte loin dans l’histoire, quiva d’Irénée de Lyon à Clément d’Alexandrie, d’Augustin d’Hippone à JeanDamascène, de Boèce à Duns Scot, et même de Descartes à Hegel. L’auteur adonc le mérite de relever que le christianisme fut un événement philosophique-ment significatif, surtout en ce moment où l’on se pose des questions sur la perti-nence d’une affirmation explicite de son importance dans la conformation actuel-le de l’Europe “encore” en cours de constitution. Selon qu’observe Henry, «laprise en considération de certains thèmes religieux fondamentaux nous permet dedécouvrir un immense domaine inconnu de la pensée dite rationnelle. Loin des’opposer à une réflexion véritablement libre, le christianisme placerait la philo-sophie traditionnelle et son corpus canonique devant leurs limites, pour ne pasdire devant leur aveuglement» (p. 87). Toutefois, le mérite d’avoir tenté cetteexaltante entreprise n’immunise pas de soi l’auteur contre toutes les ambiguïtés.Il nous faudra en relever quelques unes.

La question décisive serait de savoir: «Si le Christ a deux natures (…), l’unehumaine, l’autre divine, n’a-t-il pas également deux paroles, l’une propre aux

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hommes, l’autre divine, celle qui lui revient en tant qu’il est le Verbe de Dieu: laparole de Dieu lui-même? La signification dernière des ultimes paroles du Christ,n’est-ce pas dans sa parole en tant que celle du Verbe de Dieu qu’elle réside?»(p. 85, souligné par l’auteur). C’est au fil des paroles du Christ contenues dans lesquatre Évangiles que Michel Henry cherche à comprendre la condition humaine.Sa théodicée est construite à partir d’une exégèse singulière, qui ne s’embarrassepas toujours d’interprétations traditionnelles, soupçonnées probablement d’uneallégeance excessive à l’univers conceptuel grec, par rapport auquel l’originalitédu christianisme est, selon l’auteur, une pure et simple solution de continuité.

Le Verbe n’a plus rien à voir avec le Logos grec puisqu’il s’est fait chair. Laparole humaine efficace n’est pas la parole du monde, celle par laquelle l’hommedésigne les choses de ce monde, notamment dans les diverses disciplines scienti-fiques, mais la parole de la vie, dans le pathos de la chair. Michel Henry nousexplique ainsi en quoi consiste cette dernière: «La vie, telle que nous l’éprouvonsen nous, qui est notre vie, est en elle-même une révélation – ce mode unique derévélation en lequel ce qui révèle et ce qui est révélé ne font qu’un et que, pourcette raison, nous avons appelé auto-révélation. Un tel mode de révélation n’ap-partient qu’à la vie et constitue proprement son essence. Vivre en effet consiste enceci “s’éprouver soi-même”, “se révéler à soi”. Tel est le trait décisif et incontes-table de la condition humaine, qui la différencie invinciblement de toute autre» (p.93).

Il est superflu de relever la dépendance de cette affirmation du principe dudouble apparaître, que nous avons indiqué plus haut, et la négation – y contenue– de toute distance par rapport à soi, quant à la vie, qui interdit du coup tout accèsà l’analogie de l’être. Pour l’auteur, «la vie (…) n’est pas une chose, un être ouun genre particulier, un ensemble de phénomènes spécifiques dits “biologiques”et que la biologie d’aujourd’hui réduit à des processus naturels insensibles et sansinitiative» (ibid.). Certainement, cette vigoureuse réaction contre l’objectivismeet qui plaide en faveur d’une au-delà de la pensée est fort opportune. Toutefois,force est de constater qu’elle dépend encore étroitement du principe de l’explora-tion du réel du seul point de vue du sujet transcendantal et donc à partir des prin-cipes d’une ontologie phénoménologique, sans que pour autant l’intéressant élar-gissement thématique qu’on vient de dire ne soit réduit à rien.

Michel Henry situe ce que nous sommes en vérité dans une immanence radi-cale. L’immanence est « affectivité primitive en laquelle la vie s’éprouve soi-même immédiatement et jamais dans un monde, elle est au contraire réalitéimpressionnelle et affective, chair pathétique. C’est uniquement parce qu’elle s’é-prouve elle-même et se révèle à soi de façon pathétique, dans l’immanence decette Affectivité primitive, que la Vie est une Parole et une Parole qui parle d’el-le-même. C’est uniquement parce, à son tour, chacune de nos tonalités affectivesest donnée à elle-même dans l’auto-révélation pathétique de la Vie, c’est parceque la parole de la Vie parle en elle, qu’elle nous parle à son tour, de la façon dontelle le fait, dans sa souffrance et dans sa joie. Une parole dont tous les caractèresdépendent des caractères de la parole de la Vie» (pp. 98-99). Or c’est à ce niveau

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que se place – en fait l’intention qui traverse toutes les pages de ce livre – la cri-tique de l’auteur envers la philosophie contemporaine du langage, qu’elle partedes présupposés analytiques, psychanalytiques ou phénoménologiques. «Parcequ’elle vise unilatéralement le langage des hommes, observe-t-il, la philosophiedu langage présenterait une lacune béante, elle ne saurait rien de la parole qui, enfin de compte, importe seule – la Parole de Dieu, c’est-à-dire la façon dont Dieunous parle. Il ne s’agirait pas seulement d’une simple lacune d’ailleurs, maisd’une occultation aussi désastreuse que définitive» (p. 10) car, et c’est le pointcapital, elle empêcherait la compréhension de la parole de la vie, en ramenant laparole des hommes à la parole du monde. La philosophie du langage ne concerneque la parole du monde. Cette critique, qui nous rappelle instamment que «laparole des hommes ne se réduit nullement à une parole du monde, c’est d’abordcelle de la vie» (p. 129) est sans doute intéressante dans la mesure où elle nousreplace dans le nécessaire contexte pratique où s’effectuent nos actes de désigna-tion face aux débordements du positivisme logique.

Or, dans ce livre, c’est tout le «système de l’humain» qui se trouve renversé, àla faveur de la Parole de la Vie, qui n’est pas du monde mais parle au cœur del’homme dans son intériorité, par laquelle il se rattache intimement à Dieu, alorsmême que ce qu’elle dit rebute le sens commun ainsi qu’on l’a vu à propos desparadoxes apparents du sermon de Béatitudes, par exemple. Par un déplacementsémantique qu’il ne se donne pas la peine de justifier, Henry utilise le terme“transsubstantiation” pour désigner la radicale subversion des relations humainesselon une nouvelle “réciprocité”, qui n’est plus celle des termes équivalents dumonde vanifié mais celle de ceux qui sont de la même façon pré-destinés à unerelation unique avec le Père de la Vie. Mais il en résulte alors qu’à confondre cettecommunication des êtres avec leur continuité, on se retrouve dans une sorte demilieu homogène de la Vie – du moins au point de vue vertical de la communica-tion avec Dieu en tant qu’origine de celle-ci –, symétriquement opposé à l’homo-généisation des êtres dans le spectacle du monde, dénoncée par l’auteur commele principe même de leur vanification et de leur réduction au rang d’objets. Il sepose alors la question de l’ipséité.

«L’auto-génération de la Vie est ainsi sa venue dans la condition qui est la sien-ne, celle de s’éprouver soi-même. Or aucune épreuve de soi n’est possible si n’ad-vient en elle l’Ipséité en laquelle la vie se révèle à soi – de telle façon que danscette révélation, dans cette auto-révélation, elle devient Vie. Mais la Vie absoluen’est pas un concept, une abstraction: c’est une vie réelle qui s’éprouve réellementsoi-même. C’est pourquoi l’Ipséité en laquelle elle s’éprouve est elle aussi uneIpséité effective et réelle: c’est un Soi réel, le Premier Soi Vivant en lequel la Vieabsolue s’éprouve effectivement et se révèle à Soi. Parce qu’en lui s’accomplitcette auto-révélation, ce Premier Soi Vivant est son Verbe, sa Parole» (p. 106).Puisque, à la faveur de la consécration définitive du principe du double apparaît-re, aucune distance par rapport à la vie n’est admise à partir de quelque chosecomme la conscience de soi, l’ipséité dont il est question ici n’est pas à confond-re avec l’idée de personne qui fut la résolution du problème théologique de la dis-

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tinction de la nature et de l’hypostase dans la Trinité divine et en Christ. Et ellene semble même pas résoudre le problème – qui serait pertinent ici – de la réduc-tion de tout Soi à une simple modalité de la Vie absolue, à un simple moment deson procès d’auto-génération éternelle.

D’autre part, la caractérisation du mal comme «illusion de la gloire dans lespectacle du monde» ne résout pas non plus, à notre avis, le problème de sonimputation au Soi, dont l’identité est ramenée exclusivement à l’intériorité pathé-tique de la chair, qui reste comme telle innocente et toujours inaccessible de l’ex-térieur. Cela n’est en un sens pas étonnant, puisque le monde et les relations deréciprocité qui s’y établissent sont désormais disqualifiés au profit de la seulerelation “qui procède de l’intérieur”; mais il reste que cette possibilité d’imputa-tion de ce qui est en jeu dans nos relations mondaines, malgré le risque de simu-lation et de mensonge qui y subsiste – et qu’il ne revient pas proprement à la phi-losophie de conjurer en tant que possibilité –, nous importe précisément en tantque “nous vivons en ce monde”. Le Verbe de vie étant aussi la lumière qui brilleen ce monde, chez les siens (cf. prologue de l’Évangile selon st Jean).

L’auteur soutient encore qu’il y a une double nature en Christ mais la “naturehumaine” est, elle aussi, selon la généalogie divine, qui concerne à présent toutVivant venu à soi, tout homme en tant que tel. Or la généalogie divine du Christne devrait pas supposer, nous semble-t-il, l’absorption de son humanité dans ladivinité avec laquelle elle s’articule – sans confusion – dans l’union hypostatique,unitate personae Verbi. De la même manière, notre adoption filiale en Christ – pargrâce – n’implique pas le déplacement de l’humanité vers une condition naturel-lement divine, pour ne plus constituer qu’un milieu homogène de Vie avec Dieu.L’humanité demeure, et tout humanisme n’est pas à vilipender.

C’est pourtant ce qui semble bien être l’intention ultime du livre. Tout se passecomme si le Genitum non factum du Credo s’adressait maintenant à tout Vivant,à tout homme. L’identité du Christ n’apparaît plus alors que comme une vastehyperbole de l’identité gnostique de l’homme, de sa condition originairementdivine, dont il prend enfin conscience. L’exégèse détaillée des Écritures que l’au-teur effectue à partir de ces présupposés est riche en parallélismes saisissants eten images fascinantes mais qui n’ont finalement qu’une valeur heuristique. Enfait, le mystère pascal – le drame du Golgotha et son incroyable dénouement aumatin de la Résurrection – n’est pas pris en compte. Même pas pour la compré-hension des affirmations du Christ à la synagogue de Capharnaüm sur l’analysedesquelles se clôt l’ouvrage. Il est tout de même étonnant que dans un livre, dontles thèses centrales gravitent autour de la pensée de la vie, la question fort perti-nente de la mort – de la fin de la vie – n’ait pas été sérieusement soulevée. Il estvrai que pour la Vie qui vient à soi selon une opération de « génération intempo-relle » la mort pourrait n’être qu’une “apparence mondaine”, mais il reste que laquestion mériterait un peu plus d’attention, sans compter que la solution implici-te que nous supposons ne serait au surplus qu’une échappatoire.

Il n’y a aucun doute que souligner la distinction du double apparaître – la cogi-tatio comme vision dans la conscience du sujet et la cogitatio sans cogitatum de

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l’affectivité radicale de la vie – est de la plus haute importance, dans la mesure oùelle permet d’échapper au dessèchement d’une raison moderne “non située”, sousses divers avatars. Seulement, ainsi qu’on l’a dit dernièrement à propos de l’ac-tion (Stephen L. Brock, Action and Conduct, Edimburg 1998), nous aurions beau-coup à gagner, sans les confondre avec elle à élargir la compréhension de la viequi est la nôtre à la lumière des analyses d’autres formes de vie, inférieures soient-elles, précisément dans l’esprit de l’élargissement thématique préconisé parHenry lui-même, lorsqu’il critique pertinemment la phénoménologie classique etla réduction thématique à laquelle elle a conduit – sous couvert du critère métho-dologique de la clara et distincta perceptio –, déjà chez Husserl lui-même.

En ce sens, nous semble-t-il, il faudrait admettre qu’il y a quelque chosecomme la “vie consciente”, qui, quoique apparemment paradoxale, ne seraitcontradictoire et impensable que si l’on se refusait à franchir le seuil des présup-posés phénoménologiques, selon lesquels il y a autant d’être qu’il y a d’apparaît-re. Il n’est pas certain que Michel Henry y consentirait. C’est à cette conditionpourtant que le problème du double apparaître se résolverait effectivement dansl’unité métaphysique de l’être de la personne en tant qu’articulation ontologiquedu divers, en l’occurrence l’extériorité par rapport à l’intériorité d’un être donné,celle-là n’étant ce qu’elle est qu’en vertu de celle-ci, selon la distinction qui s’é-tablit déjà au niveau de l’instinct comme tel. Il serait ainsi fécond de considérerla vie consciente comme l’unité analogique à partir de laquelle nous comprenonsla vie en général, sans qu’une telle compréhension nous empêche derechef depenser l’au-delà de la pensée ni de savoir que de fait nous n’atteignons le soi quedans la vie que nous vivons avec son affectivité caractéristique.

Si la terminologie employée peut être déroutante pour le lecteur qui n’a pasl’habitude de la phénoménologie ou de l’auteur, le texte apparaît à la fois profondet limpide pour celui qui connaît un tant soi peu la pensée de Michel Henry, chezqui l’expression sied remarquablement bien à la pensée qu’elle exprime, ce qui luidonne une indéniable et fascinante élégance de style.

Paulin SABUY

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Armando RIGOBELLO, L’estraneità interiore, Studium, Roma 2001, pp. 190.

Questo volume presenta una nuova tappa della ricerca di Armando Rigobello,avviata già da diversi anni e ricca di altre pubblicazioni, sull’autenticità e sulladifferenza. L’obiettivo finale è quello di elaborare un vero e proprio modelloantropologico imperniato su questi due concetti cardine: «un’autenticità del sog-getto umano che nella differenza si costituisce e nella estraneità interiore trova lasua struttura portante, la genesi stessa del suo agire» (p. 153). Non si vuole com-porre un trattato, ma offrire alcune indicazioni prospettiche ritenute fondamenta-li.

La riflessione è inserita nel contesto della filosofia contemporanea, in dialogosoprattutto con Husserl, Heidegger e Ricoeur, ma non mancano sia i collegamen-ti con altri filosofi precedenti, tra cui Platone, Kant, Fichte, Hegel e Croce, sia ilconfronto con Gadamer, Stefanini e Lévinas. La contestualizzazione rafforza l’o-riginalità della proposta speculativa, perché segna i punti di contatto e le distan-ze. L’autore, inoltre, ha cercato con impegno di svolgere l’argomentazione inmodo graduale, ribadendo i passaggi e riassumendo i punti acquisiti di volta involta; ciò ha obbligato a qualche ripetizione, ma ha reso più agevole seguire il di-scorso.

Modello di estraneità interiore più volte richiamato è l’agostiniano “intimiorintimo meo”: questa espressione di “vertiginosa profondità” indica che nel fondodi noi vi è un “proprio più proprio a noi” di noi stessi, che si presenta come “estra-neità interiore”, un altro che fonda l’avvertimento dell’infinito e l’avvertimentoconnesso della nostra finitudine (cfr. pp. 28, 106 e 135). Qui l’esperienza misticafa da riferimento all’itinerario speculativo e aiuta a capire la nozione di autentici-tà non solo come realizzazione autoreferenziale, bensì anche come tensione e con-fronto con un’alterità trascendente.

Il richiamo al suddetto modello, intrecciato con i richiami alle istanze dellafilosofia contemporanea, aiuta a mettere in evidenza che Rigobello non intendeesaurire il suo discorso in un’antropologia presuntamente autonoma, ma stabilireil rapporto tra le riflessioni antropologiche e l’ontologia, che a sua volta rinvia alla

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metafisica (cfr. pp. 41-42). In effetti, l’antropologia dell’autenticità viene svilup-pata su tre livelli o gradi, che costituirebbero rispettivamente un’estetica dell’au-tenticità, un’analitica dell’autenticità e una dialettica dell’interiorità: c’è innanzi-tutto il livello della corporeità propria, quale prima e inalienabile forma di auten-ticità, connessa all’avvertimento dell’identità organica; vi è poi il livello dellarappresentazione del soggetto, il quale conosce tramite immagini e concetti ecerca personalmente di conferire o scoprire un senso comunicabile; si arriva, infi-ne, al grado della scoperta del nucleo di senso, del significato di ogni significato,che «è l’essenza stessa dell’autenticità ed insieme la connotazione più propria del-l’interiorità» (p. 30).

Sulla scorta non solo dei pensatori già citati, ma anche di Dostoevskij eGuardini (cfr. p. 38), la fenomenologia dell’autenticità è elaborata seguendo ilmetodo fenomenologico indicato da Husserl fino al punto in cui è necessaria unarottura metodologica per arrivare alla comprensione della coscienza: non si puòrestare sul terreno husserliano di una obiettivazione dell’io trascendentale se sivuole comprendere l’enigmatica interiorità da cui proviene la richiesta di senso.In fitto dialogo con Husserl (cfr. pp. 70 ss.) Rigobello mostra come si renda neces-saria una concezione metafenomenologica della soggettività, che interrompa ilfluire ininterrotto del tempo e si avvalga appunto della nozione di differenza inte-riore e della trascendenza metafisica.

Come si è accennato, il libro non intende essere un trattato di antropologia filo-sofica, ma indicare le feconde direzioni prospettiche che possono scaturire dalmodello ermeneutico dell’autenticità nella differenza, di ispirazione platonico-agostiniana. Tra questi orientamenti propositivi, oltre a quanto già rilevato, si puòsottolineare che lo studio dell’autenticità mostra la connessione tra morale e onto-logia, ben al di là di una riduzione dell’autentico allo spontaneo (cfr. p. 75). Nederiva, inoltre, un’adeguata interpretazione della storicità, giacché emergono cri-teri perenni che rendono la persona, nel suo divenire storico, autentica nella dif-ferenza (cfr. p. 85). A ciò si aggiunge che il tempo storico appare così attraversa-to dal rinvio escatologico: l’uomo vive nel tempo, protendendosi al di là delle sin-gole realizzazioni della sua esistenza; l’attesa escatologica si basa sull’attestazio-ne dell’uomo interiore che non è risolvibile in storia (cfr. pp. 95-98).

Rigobello dichiara che il compito centrale della proposta speculativa di questovolume era quello della “ripetizione del problema fondamentale” della scepsi pla-tonica (cfr. p. 111). Come lui stesso spiega, il «percorso della scepsi non è linea-re e trova, negli accorgimenti metodologici del rimando allusivo e quindi dell’a-nalogia, gli strumenti per superare l’arresto» (p. 23) dinanzi all’enigma; la scepsidà quindi luogo a rappresentazioni, ad “immagini”, nell’impegno per rappresen-tare ciò che non è mai del tutto rappresentabile. Questo è l’itinerario scelto dal-l’autore: un tragitto certo faticoso, che però offre efficaci “immagini” per una filo-sofia della persona aperta alla trascendenza.

Francesco RUSSO

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John M. RIST, Real Ethics: Reconsidering the Foundations of Morality,Cambridge University Press, New York 2002, pp. 295.

Real Ethics is a hard-hitting critique of contemporary moral theory from arealist point of view by John M. Rist, Professor Emeritus of philosophy and clas-sics at the University of Toronto. His previous works include Plotinus: The Roadto Reality, The Mind of Aristotle, and Augustine: Ancient Thought Baptized.Addressing what he calls the deception, equivocation, outright lying, and humbugthat pass for contemporary moral discourse – humbug that extends from the uni-versities into the marketplace, legislative assemblies, and juridical bodies – Ristoffers a defense of traditional Christian morality grounded in classical meta-physics. In rather forceful language he writes that there is «no need to look in thepublic lavatory for the lowest common denominator». The habits of what was lowlife morality have become the norms of moral and political discourse. «In thewake of any clear sense of what “low life” might suggest, intellectuals are becom-ing “downwardly mobile” and while losing their grip on an overall concept ofvirtue, often see such a direction as in itself virtuous and high minded or senti-mentally as solidarity with the marginalized or dispossessed».

Despairing of any principled agreement on the foundations of moralitybetween theist and non-theist, Rist takes the position that upholders of the realisttradition must recover its history, learning from the skills and insights of thosewho advance it and from those who reject it. «Those who reject it must be forcedto acknowledge their own Nietzschean parentage, a lineage that gives license toforce majeure, lies, hypocrisy, and intellectual dishonesty or triviality which makeit palatable to a credulous and largely pre-philosophic public». For Rist the real-ist tradition begins not with Aristotle but with Plato, a tradition unashamedly the-ological. Platonism or deception are the only moral and political alternativesavailable. If morality is to be more than enlightened self-interest, it has to berationally justified, that is, established on metaphysical principles. Rist believesthat in Western societies we are confronted with ubiquitous and ill-definedappeals to the priority of choice, freedom, and human dignity, all unanchored in a

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coherent account of nature and human nature. Moral obligation, the only obliga-tion clearly separable from prudence or self-interest, remains a utopian dreamapart from an acknowledged theistic context. A theistic or religious context andits accompanying moral sense can only be achieved by regaining a perspectivewhich lays bare its classical and Christian roots. Appeals to comradeliness, fra-ternity, and community are illusory apart from an inherited culture, symbolizedfor Rist by attachment to «land, village and the local churchyard where one’sancestors have lain for generations». Community entails a common commitmentto the rule of law and all that such law entails – viz., due process, habeas corpus,and trial by jury. Absent an historical sense we are prisoners of our own time. Onewho is ignorant of the past, is likely «to assume the persona put upon him by thecurrent fashions and pressures, which in the present age will most often meanreduction to economic man».

Rist foresees a bleak future for the West. In losing its grip on its Christian pastand in the absence of a clear sense of civic virtue, Western society is preparingitself for a totalitarian democracy. Unable to choose between conflicting claims tothe good and the resulting propensity to tolerate all, it is subverting the principleof toleration itself. Unfortunately, recovering a sense of the past may not be aneasy task. The past can be clouded by the authoritarian or ideological mentality ofacademics and humanists or be rewritten or invented to promote a political agen-da. Moreover, history is only one vehicle for transmitting the inherited. Whateverwisdom a society has acquired can be passed on only if it is instantiated in insti-tutional structures designed to maintain inherited practices, beliefs, and intellec-tual acumen. As for the individual caught in an unrooted modernity, those apt tokeep their wits in a godless future are those who possess a knowledge – howeveracquired – of their roots, that is, their own past and traditions.

The overarching thesis of Real Ethics is that God cannot be excluded from dis-cussions about the foundation of morality. Rist offers a brief discussion of “natu-ral law” as a common ground between theist and non-theist but discounts itsrhetorical effectiveness. Clearly for him Platonic realism is the same thing as nat-ural law, «for there is no doubt that Aquinas is a Platonist in that he believes in an“eternal law” which is roughly the Platonic Forms seen in an appropriate manneras God’s thoughts». Rist is suspicious of claims that natural law can be defendedwithout reference to the existence of God. Here he stands in contrast to contem-porary philosophers such as Henry Veatch, Alexander d’Éntrèves, and morerecently Anthony Lisska, all of whom have presented natural law stripped of itsreligious and realist associations as a common ground for discourse with the sec-ular mind. Rist holds that anyone who maintains with Aquinas that natural lawparticipates in the eternal law must necessarily acknowledge its theistic roots andthat such an acknowledgment matters. “Natural happiness” in the Aristoteliansense is not the “perfect happiness” of Aquinas that is to be found in the contem-plation of God as the ultimate end of human life. In considering two possible ver-sions of natural law theory, secular and theistic, Rist argues that «making roomfor knowledge of God will affect our understanding of the nature and ordering of

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other goods which right reason can discover». If there is no God, one is not mis-taken in the pursuit of natural good without reference to the eternal.

Anyone who holds for a natural order to which man is accountable, theist ornot, will recognize the force of Rist’s trenchant criticism of contemporary moraltheory and agree with him about the cultural malaise to which it leads. To say thatthis work is profound is almost an understatement. Real Ethics is the work of amature scholar steeped in history who is also an acute observer of contemporarymanners and morals.

Jude P. DOUGHERTY

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FRANCESCO RUSSO

LA PERSONA UMANAQuestioni di antropologia filosofica

Collana: Scaffale aperto - Filosofia

L’autore esorta a comprendere e a consi-derare a fondo la dignità della personaumana, intesa non come un’onorificenza di

cui fregiarsi, ma come un impegno libero e consapevole alla realiz-zazione di un’esistenza autenticamente compiuta.

pp. 128 € 9,30

FRANCESCORUSSO

A R M A N D O E D I T O R E

LA PERSONAUMANA

QUESTIONI DIANTROPOLOGIA

FILOSOFICA

LA PERSONAUMANA

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María de las Mercedes ROVIRA REICH, Ortega desde el humanismo clási-co, Eunsa, Pamplona 2002, pp. 404, Prologo di Antonio Millán-Puelles.

«Come intende – Ortega – l’eccellenza umana e l’interezza della persona»,ecco la questione fondamentale dell’opera di Rovira, secondo Millán-Puelles.L’individuazione del tema non è banale per capire la prospettiva con la quale laprofessoressa uruguaiana spazia nel pensiero di un autore assai noto ma pochevolte presentato con rigore e completezza. Il libro presenta una visione panora-mica della filosofia di Ortega attraverso la sua concezione della persona, per spie-garne poi le conseguenze estetiche, sociali e culturali. In questo percorso l’autri-ce trova i punti di contatto e gli spunti critici di Ortega con la tradizione umani-stica occidentale senza separare gli elementi greco-romani dalla eredità cristiana.Da questo confronto emergono valutazioni, integrazioni e critiche opportune allaproposta orteguiana.

Rovira affronta in maniera coerente i problemi dello studio di un pensatoreaffascinante quanto contradditorio – «più giornalista che filosofo», diceva lui disé stesso – senza lasciarsi sedurre dalla bellezza stilistica degli scritti di Ortega masenza negarne i pregi.

Nello sviscerare l’armamentario linguistico di Ortega, l’autrice segue le indica-zioni di altri autori che hanno tentato di presentare il pensiero del filosofo spagno-lo, cercando di superare alcuni dei loro limiti. Nel caso di Cerezo (La voluntad deaventura, 1984), prendendo in considerazione il carattere trascendente della perso-na umana, e nel caso di Julián Marías, facendone una presentazione più distaccata.

Il libro è diviso in dieci capitoli, sette dei quali nella «Primera parte. Analíticadel humanismo orteguiano» e il resto nella seconda. Al prologo di Millán-Puellesfa seguito una brevissima introduzione dell’autrice.

Il primo capitolo è una presentazione di alcuni dei concetti fondamentalidell’antropologia di Ortega e nello stesso tempo una introduzione all’uso dellefonti sulla vita e le opere del filosofo. Si sottolinea che l’attività vitale intesa comebiografia e come dramma è la celebre ragione vitale della proposta orteguiana,che comparirà diverse volte nelle pagine del libro (cfr. anche p. 252).

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I concetti fondamentali dell’etica orteguiana sono presentati nel secondo capi-tolo. Fra questi spicca la presentazione della sua nozione di autenticità e lo spiri-to sportivo dell’agire umano, un atteggiamento positivo di fronte alle sfide quoti-diane, come elemento essenziale per portare avanti ogni tipo di impresa persona-le. Nel quadro etico orteguiano mancano una formulazione della coscienza mora-le e una teleologia della sofferenza (pp. 71-72) e della morte (p. 100). Forse unodei punti di disaccordo più seri dell’autrice nei confronti del filosofo è la manca-ta giustificazione del senso della eroicità di una morale spiegata soltanto entro ilimiti della vita terrena, che rammenta la posizione nietzscheana (pp. 74-77).

Il capitolo terzo è dedicato alla politica e il quarto all’estetica. Nel quinto sistudiano alcuni aspetti letterari dell’opera di Ortega. Già nei capitoli precedenti sispiegava la struttura vitale come rivolta verso gli altri e bisognosa della vita insocietà («il mio vivere è con-vivere», p. 42), che è una piattaforma di perfeziona-mento del singolo (p. 111).

Il sesto capitolo è un tentativo di strutturazione del pensiero più prettamentefilosofico di Ortega, tramite l’esposizione della sua concezione della metafisica,dell’essere, della verità e dell’integrazione fra ragione e vita. È molto interessan-te la sua comprensione di Dio, associata a quella della verità (cfr. pp. 225-228).Nella fine analisi di alcuni testi orteguiani riguardanti i rapporti fra coscienza edintenzionalità si possono scorgere meglio alcuni dei limiti della speculazione delfilosofo: la presentazione di concetti elaborati da Brentano e da Husserl nel con-testo della filosofia moderna e contemporanea, mette in luce come le qualità espo-sitive del pensatore spagnolo fossero superiori alla sua capacità di «fermarsi apensare» con gli altri filosofi o sui loro testi (cfr. pp. 240-245; 258). Il capitoloche chiude la prima parte spiega i rapporti fra scienza e verità.

Nella seconda parte («Síntesis de la vida en la cultura») si presenta la naturadel linguaggio e i suoi rapporti con la cultura, per passare nel capitolo nono allaspiegazione del programma educativo di Ortega. Il capitolo decimo integra il rap-porto vita-ragione del capitolo sesto, con la cultura. Nella presentazione dell’uo-mo come animale etimologico che assegna significati alle parole nell’usarle, sicondensano molte delle idee spiegate precedentemente sul carattere dinamico edevolutivo di tutte le realtà umane (pp. 274-276). L’epilogo è un ottimo saggio rias-suntivo di tutto il lavoro.

La bibliografia è molto curata e l’indice alfabetico delle opere di Ortega è unprezioso data base per chi vorrà proseguire lo studio dell’opera del filosofo, esarebbe ancora più proficuo se messo a disposizione su internet. È un peccato chemanchino all’opera gli indici dei nomi e delle materie.

Mercedes Rovira lavora presso l’Università di Montevideo, «la mia amabilecircostanza», come la chiama nella dedica del libro.

J.A. MERCADO

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STUDI DI FILOSOFIA

a cura della Facoltà di Filosofia della Pontificia Università della Santa Croce

1. SANGUINETI J.J., Scienza aristotelica e scienza moderna, pp. 2402. RUSSO F., Esistenza e libertà. Il pensiero di Luigi Pareyson, pp. 2563. CHALMETA G. (a cura di), Crisi di senso e pensiero metafisico, pp. 1204. RHONHEIMER M., La prospettiva della morale. Fondamenti dell’etica filosofi-

ca, pp. 360 5. MALO A., Certezza e volontà. Saggio sull’etica cartesiana, pp. 2006. MARTÍNEZ R., Unità e autonomia del sapere. Il dibattito del XIII secolo, pp. 2007. MARTÍNEZ R., La verità scientifica, pp. 1368. RUSSO F. - VILLANUEVA J. (a cura di), Le dimensioni della libertà nel dibatti-

to scientifico e filosofico, pp. 1929. CLAVELL L., Metafisica e libertà, pp. 20810. MARTÍNEZ R., Immagini del dinamismo fisico. Causa e tempo nella storia del-

la scienza, pp. 28811. YARZA I. (a cura di), Immagini dell’uomo. Percorsi antropologici nella filoso-

fia moderna, pp. 19212. RHONHEIMER M., La filosofia politica di Thomas Hobbes. Coerenza e contrad-

dizioni di un paradigma, pp. 27113. LIVI A., Il principio di coerenza. Senso comune e logica epistemica, pp. 22114. GAHL R.A. jr. (a cura di), Etica e politica nella società del duemila, pp. 17615. FAZIO M., Due rivoluzionari: Francisco De Vitoria e J.J. Rousseau, pp. 28816. MALO A., Antropologia dell’affettività, pp. 30417. ROMERA L. (a cura di), Dio e il senso dell’esistenza umana, pp. 20818. MCINERNY R.M., L’analogia in Tommaso d’Aquino, pp. 19219. CHALMETA G., La giustizia politica in Tommaso d’Aquino, pp. 16020. FAZIO M., Un sentiero nel bosco. Guida al pensiero di Kierkgaard, pp. 14421. BROCK S.L. (a cura di), L’attualità di Aristotele, pp. 19222. CASTAGNINO M. - SANGUINETI J.J., Tempo e universo. Un approccio filosofico

e scientifico, pp. 42423. YARZA I., La razionalità dell’etica di Aristotele. Uno studio su Etica Nicoma-

chea I, pp. 20824. RHONHEIMER M., Legge naturale e ragione pratica. Una visione tomista del-

l’autonomia morale, pp. 57625. MARTÍNEZ R. - SANGUINETI J.J. (a cura di), Dio e la natura, pp.19226. ESCLANDA R. - RUSSO F. (a cura di), Homo patiens, pp. 15227. ROMERA L., Introduzione alla domanda metafisica, pp. 251

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Marco IVALDO, Introduzione a Jacobi,Laterza, Roma-Bari 2003, pp. 202.

L’apparizione di questo testodev’essere salutata con favore, innanzi-tutto perché colma una lacuna in que-st’importante collana di introduzione alpensiero dei grandi filosofi, che ormaiLaterza promuove da più di trent’anni; esecondariamente perché rende final-mente accessibile, in maniera diretta edefficace, a coloro che sono interessatialla filosofia, specialisti o meno, il pro-filo di un pensatore atipico, quale èJacobi, che tanta parte ha avuto nellavicenda speculativa della filosofia clas-sica tedesca.

Il merito dell’indiscutibile riuscitadi questo lavoro va sicuramente attri-buito al suo autore, Marco Ivaldo, chedimostra ancora una volta, dopo leinnumerevoli prove già offerte con isuoi studi sul pensiero fichtiano, eanche su quello jacobiano, le sue dotianalitiche e la sua puntualità sistemati-ca. Particolarmente illuminata è, a mioavviso, la scelta di leggere Jacobi a par-tire da Jacobi. Seguendo la linea inter-pretativa di V. Verra, Ivaldo evita congrande stile il pericolo che sempreincombe quando ci si confronta con

Jacobi: ridurre il filosofo di Düsseldorfa semplice polemista, e dunque fare diJacobi il filosofo che ha discusso conMendelssohn sullo spinozismo, che hapolemizzato con Fichte sul nichilismo oche ha duramente criticato Schellingsulla questione delle cose divine.Questo comunque non significa esclu-dere il ruolo fondamentale di tali con-troversie nella definizione del pensierojacobiano, ma piuttosto inserirlo corret-tamente all’interno di quel progetto difilosofia dialogica, di filosofia in dialo-go con la propria contemporaneità, chesegna così profondamente la riflessionedi Jacobi.

A partire da quest’esplicita sceltaermeneutica si modella anche la struttu-ra mediante la quale Ivaldo articola laricostruzione del percorso jacobiano.Ad un primo capitolo, nel quale se nepresenta la figura intellettuale eviden-ziando la compenetrazione tra vita efilosofia, che la innerva dal profondo(«anzi la filosofia deve, per Jacobi, farsicomprensione della esistenza vivente»:p. 5), segue una trattazione della produ-zione letteraria jacobiana. Al centro diquesta trattazione si trovano ovviamen-te i due romanzi filosofici scritti dalnostro, Allwill e Woldemar, che vengo-

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schede bibliografiche

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no interpretati come il silenzioso sfondoestetico-letterario-morale sul quale dicontinuo si proiettano, e si trasfigurano,i contenuti di una riflessione filosoficaliberata da ogni tecnicismo («“Proced-ere rappresentando”: questo è il roman-zo»: p. 27).

Dopo aver messo a fuoco la strettacorrelazione tra la dimensione esisten-ziale, declinata tanto in senso personalequanto in senso letterario, e la filosofia,Ivaldo procede alla delineazione deitratti speculativi distintivi della filosofiajacobiana. Innanzitutto la libertà. Essasi trova al centro, lungo tutto il corsodegli anni ’80, del confronto con lo spi-nozismo e il suo fatalismo. All’idea spi-noziana di un Dio sostanziale, causasui, Jacobi contrappone quella di un Diopersonale e vivente, non vincolato alleastratte leggi di una logica fondativa. Ladecisione a favore di una concezionepersonalistica di Dio è la decisione delteismo jacobiano, con tutte le implica-zioni che da ciò discendono in relazionea questioni quali il finalismo, le causaefinales, lo stesso rapporto con la divini-tà, il senso e il valore, anche ontologico,della realtà.

Proprio la sua posizione realisticaporta Jacobi a scontrarsi prima con ilcriticismo kantiano e poi con il suocompimento idealistico, che viene com-preso dal nostro come nichilismo. Afondamento di tale identificazione, epiù in generale di tutta la critica jaco-biana al movimento idealista, c’è l’as-sunto dell’irriducibilità della realtà allacostruzione razionale: «L’esistenza ècome tale “inspiegabile”, nel senso cheeccede il livello conoscitivo raggiungi-bile con la spiegazione» (p. 75). La real-tà non è in quanto tale una costruzionedell’io, ma una rivelazione, un presen-

tarsi dell’alterità. Per porsi in relazionea tale alterità, per cogliere questa rivela-zione è necessario innanzitutto averefede: una fede intesa nell’accezione piùampia che tale termine può possedere alivello gnoseologico («Fede è il senti-mento dotato di certezza della presenzadi un oggetto all’io, sentimento che nonviene prodotto ad arbitrio, ma che siimpone»: p. 77).

Oltre ad avere un uso estensivo,che li porta a svolgere un ruolo fonda-mentale nella teoria della conoscenza, iconcetti di rivelazione e fede hannoanche un uso intensivo, vale a dire pro-priamente religioso. La rivelazione nonè infatti solamente la rivelazione delreale, ma anche la rivelazione di ciò chetrascende il reale. Per la trascendenzal’uomo ha una specifica capacità: laragione. È la ragione la capacità spiri-tuale in grado di cogliere in manieraintuitiva il trascendente e di elevareverso di esso l’essere umano. In questorapporto non conoscitivo, ma immedia-to e intuitivo, risiede la vera scienza, ilvero sapere dell’uomo: «La vera scien-za è (soltanto) “presentimento” di Dio»(p. 124); un semplice presentimentoconoscitivo che ha tuttavia il valoredella più grande certezza esistenziale.

S. PATRIARCA

A.P. MARTINICH - D. SOSA (a cura di), ACompanion to Analytic Philosophy[Blackwell Companions toPhilosophy], Blackwell, Oxford2001, pp. 497.

Tra i possibili modi di introdurrealla filosofia analitica, i curatori di que-sto volume ne hanno scelto uno che è

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particolarmente adeguato: l’esposizionedella filosofia dei principali autori ana-litici. Poiché la filosofia analitica non èun sistema ben definito, in cui ci sianodelle tesi accettate da tutti, non è possi-bile esporre una dottrina comune. Cisono sicuramente somiglianze formali,conseguenza dell’appartenenza ad unastessa tradizione, ma, allo stesso tempo,sono diverse le risposte che si dannoalle questioni che la filosofia analiticaconsidera fondamentali.

I curatori dell’opera, entrambi pro-fessori nell’University of Texas atAustin, sono ben conosciuti per i lorolavori nell’ambito dell’analitica. Essihanno scelto i 39 autori, particolarmenteimportanti, che sono quelli consideratinel libro. La scelta era certamenterischiosa, e difficilmente troverà un con-senso pieno tra gli specialisti: alcuni cre-deranno che mancano autori di spicco,altri invece penseranno che qualcuno deipresenti non è sufficientemente origina-le. Di fatto, gli stessi curatori riconosco-no che nessuno dei due è pienamentesoddisfatto della scelta, e che è risultatodi un compromesso fra entrambi.

In ogni caso, tra i filosofi studiatisi trovano sicuramente quelli fonda-mentali, dai padri dell’analitica (Frege,Russell, Moore, Wittgenstein) ad altriautori più recenti, in fase ancora produt-tiva (Putnam, Rorty, Kripke, Lewis).

Un altro pregio dell’opera è chegli autori delle collaborazioni sono deibuoni conoscitori dei filosofi studiati.Alcuni di loro sono sufficientementenoti per meritare, a loro volta, una vocepropria: è il caso di Michael Dummett(che fa la voce “Frege”) e John R.Searle (che scrive su Austin).

M. PÉREZ DE LABORDA

Maria Antonietta PRANTEDA, Il legnostorto. I significati del male in Kant,Leo S. Olschki, Firenze 2002, pp.377.

Il saggio in questione, moltoapprofondito e densamente analitico,descrive e tenta di ricostruire l’evolu-zione del pensiero di Kant sull’arduoproblema del male morale attraversol’attenta disamina di alcune sue operespecifiche, che tematizzano o riprendo-no il problema.

Si capisce che le soluzioni adottate,anche le ultime in ordine di tempo, nonriescono a risolvere la questione in modocoerente con l’intera dottrina di Kant,risultando sempre delle coperte troppocorte. Il cerchio non si chiude e si evin-ce, anzi, l’insoddisfazione del grandefilosofo di fronte ai tentativi esperiti perrisolvere il problema. Dopo aver a lungoindugiato sul male come defectus boni ecome causa deficiens, arriva infine adefinirlo come opposizione positivareale al bene, idea che aveva a suo tempoanalizzata da un altro punto di vista, mapoi scartato, e che riprende infine connuovo slancio e su nuove basi.

Se nella Critica della RagionPura, Kant risolve brillantemente ilproblema di come la conoscenza possaamalgamarsi tra sensibilità e idee puredi per sé incommensurabili, attraversolo schematismo trascendentale, la suadottrina etica sul male, che per coerenzainterna deve rifiutarsi di attribuire ilmale alla natura umana e tanto più allaragione, non riesce a trovare un equili-brio accettabile. Infatti, l’ultimo pensie-ro di Kant sembra rinvenire nella facol-tà atemporale del libero arbitrio (ovverodella libertà di fronte al bivio pratico traaccettare di seguire soggettivamente la

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massima oggettiva della ragione o quel-la soggettiva dell’amor di sé) quellaistanza di compensazione che possamediare tra natura e cultura e che con-sentirebbe di descrivere il male comeopposizione reale e causa delle azionicontrarie all’ordine della ragione.

L’autrice del saggio spiega moltobene l’inadeguatezza anche di questoultimo tentativo di dar coerenza al siste-ma da parte di Kant, sottolineando chela coesistenza tra principio del male eprincipio del bene nel libero arbitriocomporta una sproporzione. Sebbeneinfatti Kant attribuisca ad entrambi iprincipi una realtà positiva (obbedienzaalla legge della ragione versus amor disé come massima soggettiva che le sioppone), resta il fatto che dal punto divista logico il bene è rappresentabile, ilmale no. In secondo luogo, non si è piùin grado di stabilire a chi e in che termi-ni il male sia imputabile, visto che essonon dipende né dalla natura, né dallaragione umana. Perché si usi male dellalibertà bisognerà pure infatti che vi siauna qualche inclinazione a farlo: e ciòda che cosa dipende?

Per di più, lo stesso concetto di“amor proprio” presuppone la materia ela temporalità: solo in questa dimensio-ne infatti sorgono i desideri e le inclina-zioni egoistiche ed edonistiche che pos-sono spingere a sovvertire la massimaoggettiva della ragione, subordinandolaal benessere dell’io empirico, a scapitodell’identificazione con l’io trascenden-tale. L’amor di sé non può dunque esse-re rappresentato razionalmente a livellodella libertà atemporale. Esso può pro-venire solo a posteriori, e quindi nonpuò essere incluso a priori nel liberoarbitrio che si accinga alla scelta sog-gettiva buona o cattiva.

Queste e molte altre penetranti eacute osservazioni sono raccolte in que-sto prezioso saggio che si addice ad unpubblico formato, non di neofiti. Sta difatto, che Kant rimane sempre interes-sante nel panorama dell’illuminismoper alcune peculiarità tutte sue: la rinun-cia ad appoggiarsi alla prova ontologicanell’ambito del razionalismo (di solitocompatto nel difenderla) e la rinuncia astoricizzare la tematica del peccato ori-ginale per abolirne il riferimento biblico(come in Rousseau). In fondo, Kant silimita a constatare la presenza del maleed infine, nonostante tutti i tentativiesperiti, si rifiuta di darvi una causainteramente comprensibile all’uomo. Eciò conferma, paradossalmente, la defi-nizione teologica del male come myste-rium iniquitatis.

G. FARO

Carlo SCALABRIN, Bibliografia filosofi-ca italiana 1999, Leo S. Olschki,Firenze 2001, pp. 246.

Il volume curato da CarloScalabrin costituisce un’accurata ricer-ca bibliografica riguardante le principa-li pubblicazioni di argomento filosoficoeffettuate tra il 1998 e il 1999: essomenziona le ultime edizioni di enciclo-pedie e dizionari, gli atti di congressi,convegni ed incontri concernenti tema-tiche filosofiche, ed un dettagliato elen-co degli studi generali e degli approfon-dimenti monografici riguardanti sia lastoria della filosofia che i rapporti tra lafilosofia stessa e le scienze umane. Laricerca bibliografica è stata eseguita conestrema attenzione e rigore scientifico:

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sono stati, infatti, consultati i principaliperiodici, atti accademici, e repertoribibliografici di argomento filosofico,pubblicati in Italia.

L’approfondimento bibliograficonell’ambito della storiografia filosoficaè costituito dalle seguenti tematiche:filosofie orientali, riflessione filosoficagreca ed ellenistica, filosofia romana, ilprimo pensiero cristiano e la Patristica,filosofia araba, filosofia ebraica, filoso-fia medioevale (latina), filosofia bizan-tina e siriaca, umanesimo, rinascimento,riforma e controriforma, seconda scola-stica, pensiero moderno, l’Ottocento, ilNovecento filosofico in Italia e all’este-ro.

La ricerca bibliografica nell’ambi-to della filosofia e delle scienze umaneviene effettuata nei seguenti ambitidisciplinari: logica, fenomenologia, lin-guistica, semiotica, filosofia del lin-guaggio, filosofia della scienza ed epi-stemologia, filosofia della natura e dellavita, filosofia della conoscenza, metafi-sica, ontologia e teologia razionale, psi-cologia filosofica ed antropologia, filo-sofia morale, estetica, filosofia del dirit-

to e della religione, filosofia della poli-tica e dell’economia, filosofia della sto-ria, della cultura e della civiltà, antropo-logia culturale ed etnologia, sociologia,pedagogia, psicologia scientifica e psi-coanalisi, parapsicologia e teosofia.

A conclusione del volume è statoinserito un utile indice dei nomi degliautori e dei soggetti presenti nel reper-torio bibliografico.

Il volume contiene, inoltre, l’elen-co delle pubblicazioni promosse dal“Centro di Studi Filosofici di Gallarate”dal 1951 al 1998, comprendenti leseguenti collane: “Classici dellaFilosofia Cristiana” (Sansoni), “FilosofiAntichi” (Loffredo), “FilosofiModerni” (Zanichelli), “FilosofiContemporanei” (Fratelli Fabbri),“Saggi e ricerche” (Pàtron). È, infine,presentata, l’edizione italiana delleopere di Romano Guardini curata dal“Centro di Studi Filosofici diGallarate”, e l’elenco delle opere per lequali è stato assegnato il premio in filo-sofia “Provincia di Varese”.

T. VALENTINI

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B. BENVENUTO, Della Villa dei Misteri odei riti della psicoanalisi, Liguori,Napoli 2003.

J.M. BURGOS, Antropología: una guíapara la existencia, Palabra, Madrid2003.

P. CARLOTTI (a cura di), Quale filosofia inteologia morale? Problemi, prospetti-ve e proposte, Las, Roma 2003.

C. DANANI, L’amicizia degli antichi.Gadamer in dialogo con Platone eAristotele, Vita e Pensiero, Milano2003.

C. GOÑI ZUBIETA, Recuerda que eres hom-bre, Rialp, Madrid 2003.

R. IMBACH, Dante, la filosofia e i laici,Edizione italiana a cura di P. Porro,Marietti, Genova 2003.

E. LÓPEZ-ESCOBAR – P. LOZANO, EduardoOrtiz de Landázuri. El médico amigo,Rialp, Madrid 2003.

T. MELENDO, San Josemaría Escrivá y lafamilia, Rialp, Madrid 2003.

A. MILLÁN–PUELLES, La lógica de losconceptos metafísicos. Tomo II: Laarticulación de los conceptos extraca-tegoriales, Rialp, Madrid 2003.

J.J. MUÑOZ GARCÍA, Cine y misteriohumano, Rialp, Madrid 2003.

P.P. OTTONELLO (a cura di), Sciacca e ilpensiero francese, Atti dell’ottavocorso della «Cattedra Sciacca»,Genova 25-26 settembre 2002, Leo S.Olschki, Firenze 2003.

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A. VÁZQUEZ DE PRADA, El Fundador delOpus Dei, vol. III: Los caminos divi-nos de la tierra, Rialp, Madrid 2003.

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Pubblicazioni ricevute