i disturbi psicologici in eta’ evolutiva
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fondazione Centro orientamento Alessandria 1
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fondazione Centro orientamento Alessandria 2
INDICE PARTE PRIMA
1. IL CONCETTO DI “ DISTURBO” IN ETÀ EVOLUTIVA
2. ORIGINE DEI DISTURBI EVOLUTIVI : CONTRAPPOSIZIONE TRA NATURE E NURTURE
3. FATTORI SOCIALI IMPLICATI NELLA NASCITA DEI DISTURBI PSICOLOGICI DELLO SVILUPPO
4. I PRINCIPALI DISTURBI EVOLUTIVI
4.1. Il ritardo mentale
4.2. I disturbi specifici dell’apprendimento
La dislessia
4.3. I disturbi della comunicazione
Chi tartaglia pensa troppo in fretta
Le afasie
4.4. Il disturbo della coordinazione motoria
4.5. I disturbi generalizzati dello sviluppo
4.6. Il disturbo da deficit di attenzione/iperattività
4.7. Il disturbo della condotta
Hikikomori: un curioso fenomeno di ritiro sociale
4.8. Il disturbo oppositivo provocatorio
4.9. I disturbi della nutrizione
4.10. I disturbi da tic
La sindrome di Tourette
4.11. I disturbi dell’evacuazione
4.12. L’ansia da separazione
4.13. Il mutismo selettivo
4.14. Il disturbo reattivo dell’attaccamento
5. I PRINCIPALI APPROCCI TERAPEUTICI
5.1. Psicoanalisi e psicoterapia personale
5.2. Psicoterapia cognitivo-comportamentale
5.3. Farmacoterapia
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PARTE SECONDA
1. MALESSERE IN ETÀ SCOLARE : POSSIBILI CAUSE
2. I DISTURBI D ’ANSIA
2.1. Disturbo da ansia generalizzato
2.2. Disturbo da attacchi di panico
Come reagire durante un attacco di panico
2.3. Fobie specifiche
2.4. Fobie sociali
Un particolare caso di fobia sociale: la fobia per la scuola
2.5. Disturbo post-traumatico da stress (PTSD)
2.6. Disturbo ossessivo-compulsivo
3. Condividere l’ansia: primo passo per superarla
Scala Zeng per l’autovalutazione dell’ansia
4. LO STRESS
Quando la scuola diventa fonte di stress
5. IL DISTURBO DA DEFICIT ATTENTIVO CON IPERATTIVITÀ (ADHD)
6. RICHIAMO DI FARMACOTERAPIA
La pillola dell’intelligenza
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1. IL CONCETTO DI “DISTURBO” IN ETÀ EVOLUTIVA
Durante il processo di crescita, ogni bambino manifesta specifiche problematiche psicologiche. Molte di
queste tendono a scomparire con l’età, senza bisogno di alcun intervento particolare, ma altre possono
permanere nel tempo o lasciare strascichi nella vita di adolescente e adulto del soggetto. Nel corso di questa
trattazione ci soffermeremo appunto su quest’ultima categoria.
Prima di esaminare le problematiche evolutive più significative, può risultare utile spendere alcune
parole sul concetto di “disturbo psicologico”.
A differenza delle malattie fisiche, come un raffreddore o la distorsione di un arto, i problemi di natura
psicologica non seguono un principio di continuità. In altri termini, mentre una malattia come il morbillo c’è
o non c’è, lo stesso discorso non vale per i disturbi psicologici, dal momento che la presenza di
problematiche caratteristiche di una certa età non costituisce di per sé elemento psicopatologico, a meno che
l’intensità e la frequenza della loro comparsa non risultino eccessive.
Quando, in un bambino di una certa età, si ravvisa un comportamento apparentemente inadeguato o
problematico, bisogna quindi tener presente che non si può effettuare un confronto con ragazzi più grandi,
ma solo con soggetti appartenenti alla stessa “popolazione” del bambino oggetto d’esame, intendendo con
ciò che essi dovranno avere stessa età, sesso, appartenenza geografica, cultura, e così via. Nella tabella
sottostante vengono riportati i tipici problemi che possono comparire nei soggetti alle varie età.
TAB.1 PROBLEMATICHE PSICOLOGICHE TIPICHE RISPETTO ALLE DIVERSE FASCE D’ETÀ
ETÀ DEI SOGGETTI PROBLEMI COMPORTAMENTALI
1 ½ - 2 ANNI Sfuriate d’umore, rifiuto di fare cose quando richieste, richiesta costante di attenzione, iperattività, timori specifici, disattenzione
3-5 ANNI
Sfuriate d’umore, rifiuto di fare le cose quando richieste, richiesta costante di attenzione, iperattività, paure specifiche, ipersensibilità, falsità, negativismo.
6-10 ANNI Sfuriate d’umore, iperattività, paure specifiche, ipersensibilità, falsità, problemi scolastici, eccessiva riservatezza,
11-14 ANNI Sfuriate d’umore, ipersensibilità, gelosia, problemi scolastici, eccessiva riservatezza, malinconia.
15-18 ANNIJ Problemi scolastici, assenze a scuola, imbrogli agli esami, abuso di droghe, taccheggio, ed altre minori violazioni della legge.
Ad esempio, un bambino di 7 anni che mostri elementi comportamentali propri del tratto di “iperattività”,
non necessariamente dovrà destare preoccupazione. Un’ampia percentuale di bambini della stessa età
presenta, infatti, questa caratteristica. Ciò, tuttavia, non esclude l’eventualità che l’iperattività possa
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assumere un grado tale da non poter essere più tollerabile o controllabile, divenendo di fatto un vero e
proprio disturbo psicologico.
Non esistendo soluzione di continuità tra normalità e disturbo, la definizione della soglia oltre cui si può
parlare di psicopatologia risulta, entro certi limiti, arbitraria. Di norma, essa (o cut-off) viene stabilita in base
alla probabilità che il disturbo ha di permanere nel tempo con la stessa intensità e di comportare problemi più
gravi per lo sviluppo della personalità. Ad esempio, la paura di un bambino di sette anni di aprire il
frigorifero è di per sé piuttosto rara, ma non per questo patologica, a meno che non si presenti associata ad
altri indici problematici.
Si parla in questo caso di “sindromi”, per evidenziare il fatto che un singolo elemento, anche se
infrequente, non deve costituire fonte di preoccupazione, mentre una serie di elementi, compresenti in
maniera non casuale, possono giustificare una severa diagnosi clinica. I sistemi diagnostici più accreditati
seguono questa regola, ossia, per l’effettuazione di una determinata diagnosi, richiedono la compresenza di
vari elementi caratteristici di un dato disturbo.
2. ORIGINI DEI DISTURBI EVOLUTIVI: CONTRAPPOSIZIONE TRA NATURE E NURTURE
Esistono diverse teorie sull’origine dei disturbi psicologici, ed ognuna di esse tende ad attribuire maggior
influenza a certi fattori rispetto ad altri.
Una classica contrapposizione riguarda la valutazione del ruolo rivestito rispettivamente dai fattori
biologici (nature) e da quelli esperienziali (nurture). In altri termini, di fronte ad un disturbo psicologico
manifestato da un bambino, ci si può chiedere in che misura esso sia dovuto alle caratteristiche con cui il
soggetto è nato, e in che misura invece sia l’esito delle esperienze maturate dopo la nascita.
La maggior parte dei clinici è propensa ad attribuire importanza ad entrambi gli ordini di fattori, pur
presentando infinite sfumature nella definizione dei modi e dei pesi. In particolare, uno studioso a forte
caratterizzazione biologica potrebbe sostenere che ogni bambino nasce con una particolare dotazione
genetica che contiene già la sua potenziale storia, su cui, da un punto di vista psicologico, le contingenze
della vita potranno influire solo minimamente. Per contro, uno studioso di forte impostazione ambientalista,
pur ammettendo che un bambino possiede certe caratteristiche sin dalla nascita, affermerà che queste
formano solo il terreno su cui l’ambiente andrà ad agire, producendo determinate conseguenze.
L’approccio biologico trova il suo riscontro più evidente in quelle malattie psicologiche in cui il fattore
genetico è chiaramente determinate, e produce una condizione dicotomica di presenza o assenza della
patologia che, come abbiamo visto, non è molto comune nel mondo psicologico. La trisomia del cromosoma
21, associata alla sindrome di Down, né è un chiaro esempio: essa produce, un profilo psichico e fisico
inequivocabile. Va notato, comunque, che anche all’interno di questi profili ben definiti, sussistono elementi
di variabilità. Ad esempio, il bambino con sindrome di Down, al di la degli aspetti comuni agli altri soggetti
affetti dalla stessa malattia, presenta anche elementi somatici e di personalità suoi propri, come se
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l’alterazione genetica avesse fornito un elemento di comunanza ad individui che per tutti gli altri aspetti
manifestano lo stesso grado di differenziazione che caratterizza l’intera popolazione.
Inoltre, va aggiunto che per molti altri disturbi psicologici, pur potendo rintracciare una certa
predisposizione, la pregnanza genetica non è affatto provata. Le modalità con cui generalmente si indaga
questa predisposizione sono lo studio della “familiarità” e quello dei “gemelli monozigoti”.
Il termine familiarità si riferisce al fatto che un disturbo psicologico ha maggiore probabilità comparire
in un bambino appartenente ad una famiglia (genitori, fratelli, cugini o antenati) al cui interno siano stati
individuati uno o più casi analoghi. Un disturbo che presenta un alto grado di familiarità è, ad esempio, la
dislessia. Chiaramente, si potrebbe sostenere che un bambino ha sviluppato questo disturbo per l’ambiente
familiare sfavorevole. Tuttavia, visto che nelle famiglie con caratteristiche simili, ma senza antecedenti di
dislessia, il disturbo ha meno probabilità di comparire, tale obiezione risulta piuttosto debole.
Le indagini sui gemelli monozigoti confermano che gemelli con lo stesso bagaglio genetico hanno più
probabilità di presentare lo stesso disturbo rispetto a gemelli che condividono solo metà del patrimonio
(gemelli dizigoti).
L’approccio psicobiologico, comunque, non si riduce alla sola ricerca genetica, ma si muove in varie
altre direzioni. In quest’ambito, si possono individuare due fondamentali settori di ricerca che si occupano
rispettivamente del sistema nervoso centrale (neuropsicologia) e degli altri aspetti del corpo
(psicofisiologia): entrambi settori che hanno fornito importanti contributi per lo studio dei disturbi evolutivi
di natura psicologica.
La neuropsicologia, in particolare, si è mostrata capace di stabilire evidenti connessioni tra
funzionamento psicologico (soprattutto sul piano cognitivo) e funzionamento del sistema nervoso. Alcuni
disturbi psichici sono stati così posti in relazione con disfunzionalità del sistema nervoso centrale e con
alcuni disturbi neurologici, studiandone di volta in volta le implicazioni o le conseguenze a livello
psicologico.
Quanto detto sinora non significa che in certi casi non possa essere considerata più appropriata
un’impostazione ambientalista, che da maggior risalto ai fattori esperienziali. Tra gli orientamenti che si
muovono in tale direzione, quelli più significativi sono quelli di ispirazione 1) sociologica; 2)
comportamentista; 3) psicodinamica.
Un indubbio vantaggio di questi orientamenti è che essi sono caratterizzati da una maggiore fiducia nella
possibilità del cambiamento e dell’intervento psicologico rispetto a posizioni psicobiologiche, più propense a
sostenere che, se il disturbo è di natura biologica, si possa indurre un cambiamento solo attraverso un
trattamento biologico o farmacologico.
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3. FATTORI SOCIALI IMPLICATI NELLA NASCITA DEI DIST URBI PSICOLOGICI DELLO
SVILUPPO
Si è detto che gli orientamenti sociologici attribuiscono grande peso ai fattori esperienziali e relazionali.
Gli studi relativi al rischio psicosociale sono volti a provare come un’insieme di fattori sociali possa dar
luogo ad un valore di rischio crescente che, oltre una certa soglia (cut-off), produrrà un disturbo. Tra i
principali fattori di rischio troviamo: la famiglia, lo svantaggio socio-culturale, l’appartenenza a gruppi di
minoranza, gli atti di violenza contro il bambino.
La famiglia rappresenta l’ambiente di vita fondamentale per il bambino, e come tale può agire più o
meno favorevolmente sul suo sviluppo psicologico. Più specificatamente, fattori di ordine storico,
geografico, culturale, religioso, sociale, economico, ecc., influiscono sull’assetto del nucleo familiare e
questo, a sua volta, influenza il percorso di crescita e maturazione del bambino, che di quel particolare
nucleo è parte.
Lo svantaggio socioculturale è una condizione capace di amplificare le conseguenze negative di ogni
altra situazione, di per sé, a rischio o disagiata. Le situazioni di svantaggio sociale e culturale hanno
molteplici risvolti. In primo luogo, c’è una condizione d’indigenza materiale della famiglia che non consente
al bambino di avere tutte le sicurezze e le opportunità di cui possono beneficiare i suoi coetanei. In secondo
luogo, i genitori mancano delle risorse intellettuali e culturali necessarie per garantire al bambino stimoli
adeguati. Infine, la famiglia che versa in queste condizioni può essere soggetta a isolamento.
L’emarginazione può presentarsi in diverse forme e con diverse gradazioni, arrivando talvolta a situazioni
estreme, che interessano l’intero nucleo familiare o addirittura l’intero gruppo di appartenenza, come nel
caso dei gruppi minoritari.
I bambini appartenenti a gruppi di minoranza affrontano generalmente gravi disagi, primo tra tutti
quello di conoscere poco o nulla la lingua del paese in cui si trovano e quindi di avere ulteriori difficoltà
tanto nella vita di tutti i giorni, quanto nella scuola. Si pensi, ad esempio, ai bambini delle comunità zingare,
o provenienti dall’Albania, dal nord-africa, ecc., spesso abbandonati per le strade, avviati all’accattonaggio o
a intraprendere attività criminose. Mancanza di mezzi economici, discriminazione ed emarginazione sono
condizioni che, unitamente allo stress e alla scarsa accettazione del ruolo genitoriale, aumentano
notevolmente il rischio di abusi sui bambini da parte degli adulti. Una delle forme più comuni di abuso è
rappresentato dalla violenza fisica, la cui frequenza e intensità variano sensibilmente a seconda dei modelli e
valori che caratterizzano il contesto culturale di provenienza. In alcuni contesti socio-culturali la violenza
fisica viene, infatti, ritenuta un mezzo educativo, e in quanto tale tollerata entro certi limiti. In altri, al
contrario, non viene assolutamente legittimata, risultando teoricamente o fattivamente assente. Altra forma di
abuso, che pur non dando luogo a lesioni fisiche, può produrre conseguenze non meno gravi per il bambino è
la violenza psicologica, che si ha quando il soggetto viene trascurato, ignorato, rimproverato, ridicolizzato o
umiliato. Per finire, una forma particolarmente grave di abuso riguarda la sfera sessuale. Questo fenomeno
appare purtroppo molto consistente. Le persone che abusano del bambino sono spesso adulti che hanno
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rapporti di parentela o vicinato con la vittima: ciò ha notevoli implicazioni emotive per il bambino, ma
implica anche il fatto che l’adulto non ricorre alla forza, che il bambino non riferisce l’accaduto, e che tra
bambino e adulto si stabilisce una relazione distorta che può mantenersi a lungo nel tempo. Non è facile
fornire un quadro unitario delle conseguenze che può produrre un abuso, sia perché esso può assumere varie
forme, sia perché il bambino può reagire in modi diversi. In alcuni casi l’abuso sessuale può arrecare ingenti
danni alla sfera sessuale, relazionale o produrre psicopatologie profonde, pervasive e quasi irreversibili.
Maltrattamenti gravi possono provocare danni alla personalità, così come alla crescita intellettiva o, in fase
adolescenziale, indurre a disturbi aggressivi e distruttivi. Inoltre, si è ipotizzato che il fatto di aver
sperimentato da bambini rapporti di maltrattamento o abuso, possa indurre, da adulti, a riprodurre gli stessi
comportamenti su soggetti più deboli, incapaci di reagire o difendersi adeguatamente.
4. PRINCIPALI DISTURBI EVOLUTIVI
Prendendo quale base di riferimento il “Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali” o “DSM-
IV”, è possibile individuare quattordici categorie di disturbo evolutivo tipico.
44..11 II ll rr ii ttaarr ddoo mmeennttaallee -- II ll rrii ttaarrddoo mmeennttaallee si caratterizza per la pervasività delle difficoltà cognitive che
si estendono a quasi tutti gli aspetti del funzionamento mentale e dell’apprendimento, provocando gravi
problemi di adattamento alla vita sociale. La diagnosi di handicap mentale si fonda, in effetti, sulla
compresenza di un deficit intellettivo e di un problema di adattamento. Il primo viene rilevato mediante l’uso
di test d’intelligenza, che pur con i loro limiti misurativi, consentono di riconoscere con una certa sicurezza i
livelli intellettivi più bassi. Solitamente viene utilizzata una stima del QI (quoziente intellettivo), misura che
- per una diagnosi di ritardo mentale - deve risultare inferiore a 70. Il problema di adattamento, invece, viene
valutato in relazione alla capacità del bambino di affrontare contesti e situazioni di vita quotidiana
(es.:comunicazione, cura personale, vita in casa e nella comunità, autogestione, salute e sicurezza, abilità
scolastiche funzionali, tempo libero, ecc ).
TTAABB.. 22 FFAASSCCEE DDII RRIITTAARRDDOO MMEENNTTAALLEE
GRADO DEL DISTURBO VALORE DI QI L IVELLO TIPICO DI SVILUPPO
Lieve 55-69 Al massimo può raggiungere, in tarda ado-lescenza, le competenze scolastiche paragonabili a quelle di un bambino di 10-11 anni.
Moderata 40-54 Può raggiungere al massimo il livello intellettivo di un bam-bino di 9 anni.
Severa 25-39
Può parlare e apprendere a comunicare; si parla di addestra-mento, più che di vera e propria educazione, perché si può lavorare solo su abilità basilari di autonomia personale, ma non su apprendimenti di tipo scolastico.
Profonda <25 Il bambino presenta un certo sviluppo motorio, ma non riesce ad apprendere abilità di autonomia e ha bisogno di assistenza quasi totale.
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4.2 I disturbi specifici dell’apprendimento - I soggetti affetti da un ddiissttuurrbboo ssppeeccii ff iiccoo ddeell ll ’’ aapppprreennddiimmeennttoo
((DDSSAA)) a scuola presentano difficoltà gravi e durature nel tempo, non imputabili ad un chiaro fattore esterno
(demotivazione, ambiente sociale, cattivo insegnamento, handicap), ma ad un problema di natura intrinseca.
In altri termini, disturbi specifici di lettura (dislessia evolutiva), scrittura (disgrafia e disortografia), calcolo
(discalculie), ecc., non sono riferibili al fatto che il bambino si sia trovato in condizioni che hanno
pregiudicato questi apprendimenti, ma ad una difficoltà intrinseca, e talvolta altamente specifica, di acquisire
quel particolare apprendimento.
I DISTURBI DELL ’APPRENDIMENTO : LA DISLESSIA
Le difficoltà di apprendimento in età evolutiva si dividono in Disturbi Specifici dell’Apprendimento (DSA) e
Disturbi Non Specifici dell’Apprendimento (DNSA)
I DNSA si riferiscono ad “una disabilità ad acquisire nuove conoscenze e competenze, non limitata a uno o più
settori specifici delle competenze scolastiche, ma estesa a più settori”come ad esempio nei casi di ritardo
mentale, di livello cognitivo borderline, di ADHD (vedi cap. 2), nei disturbi d’ansia o nella depressione.
Si può porre una diagnosi di DSA quando, a test standardizzati di lettura, scrittura, e calcolo, il livello di una o
più di queste tre competenze risulta di almeno due deviazioni standard inferiore ai risultati medi prevedibili,
oppure quando l’età di lettura e/o di scrittura e/o di calcolo è inferiore di almeno due anni in rapporto all’età
cronologica del soggetto, e/o all’età mentale, misurata con test psicometrici standardizzati, nonostante
un’adeguata scolarizzazione. Le stime di prevalenza variano, nei diversi studi, tra il 2 e il 10%. Questa
variabilità dipende sia dalle diverse definizioni di caso ma anche dalle caratteristiche culturali delle popolazioni
studiate. La dislessia rappresenta il 70% dei DSA.
L’apprendimento dalla lettura.
La lettura è un processo organizzato in senso gerarchico, che coinvolge più operazioni cognitive e più sistemi
neuronali; presuppone quindi un riconoscimento visivo, una mappatura dei simboli, il riconoscimento dei
fonemi, il lessico, la memoria, il vocabolario ecc.
Quando noi pronunciamo o impariamo a dire la parola “gatto” i singoli fonemi (g-a-t-t-o) vengono sovrapposti e
fusi (co-articolati), perché il parlare è una funzione automatica e inconscia svolta da un modello fonologico del
cervello biologicamente determinato.
Questo meccanismo, nascondendo la natura segmentaria delle sequenze fonetiche, ne permette però la
produzione rapida. Quando parliamo o impariamo a parlare, non abbiamo bisogno di soffermarci a riconoscere i
singoli fonemi, questa capacità interviene successivamente e più precisamente tra i 4 e i 6 anni.
La lettura invece deve essere appresa, e il modello che gli adulti sembrano utilizzare e quello definito come
“teoria delle due vie”. Esiste, cioè, una via fonologica, attraverso cui i singoli grafemi vengono convertiti in
fonemi, questa è una via che ha il limite di essere molto lenta. Esiste poi una via lessicale che permette un
accesso diretto al lessico ortografico per cui riconosciamo e leggiamo l’intera parola, questa è una via rapida ma
limitata alle parole conosciute. Il lettore esperto le usa ambedue. Noi, quindi, leggiamo sia attraverso un
processo di conversione sistematica di grafemi in unità fonologiche sia attraverso un processo di
memorizzazione di unità lessicali (singole parole) e sub-lessicali (sillabe).
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La corrispondenza tra come una parola viene pronunciata ed i relativi fonemi e grafemi varia nelle diverse
lingue; da questo punto di visto l’italiano è una lingua relativamente facile tanto da entrare insieme al greco tra
le lingue “trasparenti”, le lingue non trasparenti sono invece ad esempio l’inglese ed il francese dove i singoli
grafemi possono essere letti in modi diversi in parole diverse.
Questa profonda differenza spiega la diversa prevalenza del disturbo nei vali paesi. Le difficoltà dei bambini
con problemi di linguaggio si collocano ai due livelli della “teoria delle due vie” infatti hanno difficoltà sia nel
riconoscimento fonologico delle singole parole sia nella via lessicale, che è rapida ma presuppone la conoscenza
della parola, e spesso questi bambini per evitare di pronunciare quelle parole che non riescono a dire
impoveriscono il loro livello di accesso lessicale. Purtroppo non esistono indicatori abbastanza sicuri da
permetterci di individuare bambini con problemi di linguaggio che andranno incontro ad un problema di
apprendimento.
Nonostante la dislessia possa avere manifestazioni cliniche diverse da un individuo all’altro e soprattutto in
contesti culturali diversi, oggi è riconosciuta come un disturbo su base biologica. I soggetti dislessici, a
prescindere dalle cultura di appartenenza presentano un quadro alla PET (Tomografia a Emissione di Positroni)
uniforme: una ridotta attività dell’emisfero sinistro, è inoltre altamente probabile che questo disturbo possa
essere ereditario dato che il 40% dei figli maschi ed il 18% delle figlie femmine di un genitore affetto presentano
questo quadro, inoltre la probabilità di essere dislessico è direttamente proporzionale al grado di parentela ed alla
gravità del disturbo del familiare.
Nonostante sia prematuro fare diagnosi di dislessia prima della terza elementare, è possibile, già dalla prima o
seconda classe, porre il forte sospetto di DSA (vedi tabella 3). Nella lingua italiana gli errori di lettura e nella
scrittura in genere rientrano, mentre permane il problema della velocità di lettura: su soggetto normale la
velocità di lettura è di 5 sillabe al secondo, mentre questi bambini in terza media ne leggono 2,6.
Il 30/50% della popolazione nei penitenziari è composta da dislessici: il disturbo della condotta è dunque una
componente della dislessia come della ADHD.
L’atteso di quadri depressivi nella popolazione giovanile statunitense è del 6% mentre nella popolazione con
dislessia sale al 17/32%.
Per la diagnosi è necessario escludere:
• patologie organiche (anemia, sideropenia, deficit visivi e uditivi, problemi neurologici maggiori) che
possano mimarne i sintomi.
• Problematiche ambientali come frequenza scolastica discontinua , trascuratezza o abusi
La valutazione deve essere globale e comprendere una visita da un neuropsicologo infantile, un test di livello QI,
test specifici e test psico-affettivi qualora fossero presenti problemi comportamentali.
Il tipo di danno neurologico che provoca la dislessia è sempre lo stesso qualunque sia la lingua parlata, ma
l’entità del disturbo è diversa in funzione della struttura fonologica (la dislessia è più disturbante in una lingua a
fonologia complessa come l’inglese), in funzione della frequenza delle letture nella vita sociale, ed in funzione
delle richiesta specifiche della società
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4.3 I disturbi della comunicazione - Per quanto riguarda i ddiissttuurrbbii ddeell llaa ccoommuunniiccaazziioonnee ((DDSSLL)), possono
essere individuate svariate categorie distinte, a seconda che il problema riguardi maggiormente la sfera
ricettiva, quella espressiva o una delle dimensioni del linguaggio (fonologica, morfologico-sintattica,
lessicale, testuale, pragmatica). Generalmente, un disturbo del linguaggio presente in età prescolare può
sfociare successivamente in un disturbo dell’apprendimento. In effetti, le diagnosi di DSL tendono a
diminuire tanto più si procede con l’età e sembrano costituire spesso delle rilevazioni di difficoltà di sviluppo
cognitivo. Se non sono compresenti condizioni di handicap è raro che venga diagnosticato un DSL ad un
soggetto in età scolare, perché le richieste che il contesto gli pone da un punto di vista strettamente
linguistico sono piuttosto abbordabili, mentre eventuali problemi cognitivi sottostanti potranno portare a
difficoltà negli apprendimenti complessi che la scuola richiede. Un caso particolare di disturbo del
linguaggio è rappresentato dalla bbaallbbuuzziiee.
Se è vero che ogni bambino, nel corso dello sviluppo linguistico, può presentare lievi forme di balbettio,
in certi casi una difficoltà a produrre discorsi fluenti perdura nel tempo, dando luogo a blocchi intermittenti,
ripetizioni e prolungamenti di suoni, sillabe, parole o frasi. Tale disturbo provoca in chi ne soffre, così come
nei suoi interlocutori, un disagio emotivo e comunicativo anche di elevata entità. Ciò non significa che
questo disagio ne sia la causa, al contrario, è assai più probabile che sia un fattore capace di agire sul suo
CHI TARTAGLIA PENSA TROPPO IN FRETTA
Per anni si è attribuito il disturbo della balbuzie alla timidezza e a possibili problemi psicologici. Da qualche
anno questa interpretazione ha perso gran parte della sua attrattiva: se è vero che le persone balbuzienti hanno
difficoltà a rapportarsi con il prossimo, ciò può benissimo essere la conseguenza anziché la causa del loro
handicap.
Anche in questo campo, è lo sviluppo delle tecniche di neuroimmagine che ha fornito la spiegazione su base
anatomica di una “malattia del linguaggio” piuttosto comune.
Due studiosi della università di Toronto hanno dimostrato, grazie alla tomografia ad emissione di positroni,
che se si chiede ad una persona balbuziente e ad una non balbuziente di leggere tre se e se un testo si attivano
le stesse aree del cervello, ma nel balbuziente l’attività è molto più intensa, Se la lettura avviene ad alta voce,
oltre alle aree più specificatamente linguistiche necessarie alla lettura silenziosa si risveglia anche la corteccia
motoria primaria, e anche in questo caso c’è un eccesso di attività nei balbuzienti.
Il neuroscienziato e premio nobel della Columbia University di New York Erik Kandel così spiega il
fenomeno: “Quando un balbuziente inizia a pensare a una parola e a pronunciarla, il suo cervello lo fa in modo
incongruo ed eccessivamente veloce: tanto veloce da non consentire un buon coordinamento tra pensiero e
movimento” Per dimostrare ulteriormente questa tesi Kandel ha verificato gli effetti della riabilitazione sul
cervello delle persone affette dalla balbuzie: dopo un buon training di recupero la PET segnala una
diminuzione dell’attività delle aree motorie, tale da consentire al pensiero di trasformarsi facilmente in parola.
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mantenimento. Tra i fattori critici che la ricerca ha individuato, sembra particolarmente importante quello
biologico. Esso risulterebbe particolarmente influente in concomitanza con fattori di apprendimento. Questi
ultimi possono essere presenti non solo nel senso che il bambino ha incontrato difficoltà a modulare
correttamente il linguaggio, ma anche nel senso che egli ha acquistato delle cattive abitudini di eloquio.
AFASIE
La scoperta dei substrati cerebrali del linguaggio non è recente e segna di fatto la nascita delle neuroscienze
moderne, il neurologo ed anatomista francese Paul Broca nel 1861 riuscì ad associare una lesione del lobo
frontale sinistro, individuata durante un’autopsia, alle difficoltà di parola che il paziente stesso presentava in
vita: questi infatti era incapace di parlare in modo corretto pur essendo in grado di comprendere gli altri. Broca
ottenne la prima conferma dell’esistenza di una relazione stretta tra aree cerebrali ben delimitate e funzioni
cognitive. La funzione individuata, la produzione di linguaggio parlato era strettamente correlata ad un’area del
lobo frontale sinistro chiamata successivamente proprio area di Broca e il suo deficit fu definito afasia, qualche
anno più tardi lo scienziato polacco di formazione tedesca Carl Wernicke individuò l’area complementare:
quella che permette di recepire e comprendere il linguaggio prodotto da altri. Tuttavia la variabilità dei disturbi
del linguaggio che l’uomo manifesta a seguito di malattie o lesioni cerebrali, e la complessità dei meccanismi
che gli consentono di leggere, scrivere, imparare una o più lingue, giocare col significato delle parole sembrano
spiegabili, anche grazie all’uso di tecniche di neuroimmagine, come frutto della collaborazione in rete (nel senso
della rete di computer) di diverse parti dell’encefalo e le aree classiche sarebbero solo quelle in cui più spesso si
incrociano i prolungamenti delle cellule cerebrali deputate all’attività linguistica. Il motivo per cui il maggior
numero di pazienti afasici presenta lesioni nelle aree classiche dipende dalla distribuzione anatomica dei vasi del
sistema circolatorio cerebrale che sono i primi bersagli delle patologie ischemiche.
Nell’essere umano è l’emisfero sinistro ad essere deputato alle funzioni linguistiche, mentre il destro, in genere,
governa i compiti di tipo visuo/spaziale e meno che non si abbia a che fare con dei soggetti mancini nei quali le
funzioni cerebrali possono essere più o meno profondamente invertite.
Sottoponendo soggetti sani a tomografia ad emissione di positroni si è potuto osservare che la comprensione di
frasi metaforiche o con componenti emotive o visuo/spaziale richiede l’attivazione di entrambi gli emisferi e che
ciò non accade con le frasi generiche.
Per semplificare la diagnosi i neurologi hanno individuato i tre elementi fondamentali che compongono l’attività
linguistica : produrre linguaggio, comprenderlo e ripetere quello prodotto dagli altri, su questa base sono state
classificate le afasie:
1. Afasia di Broca – il paziente parla poco (o non parla affatto nelle forma più gravi) se lo fa non usa la
grammatica ma accosta una all’altra le singole parole. Ha difficoltà a trovare le parole (le ha sempre
“sulla punta della lingua” ma è frustrato perché non riesce a pronunciarle), ripete però correttamente le
frasi pronunciate da altri, la lettura e la scrittura sono in genere compromessi.
2. Afasia di Wernicke: la persona parla in modo fluente, spesso più velocemente del normale; usa
frequentemente parafrasi (giri di parole come “lo strumento per tagliare” per dire coltello), fa errori di
pronuncia (camallo per cavallo). La comprensione del linguaggio parlato e scritto è compromessa, così
come la ripetizione. Il malato è spesso inconsapevole del proprio deficit.
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4.4 il disturbo della coordinazione motoria - Un altro disturbo evolutivo tipico è rappresentato dal
ddiissttuurrbboo ddeell llaa ccoooorrddiinnaazziioonnee mmoottoorriiaa,, o disprassia, che si configura come una difficoltà a sviluppare abilità
di movimento e coordinazione del corpo. Il soggetto affetto da tale disturbo può presentare ritardi nelle prime
fasi dello sviluppo neuromotorio, ma soprattutto può risultare goffo ed impacciato nell’esecuzione di azioni
coordinate e finalizzate, come ad esempio il vestirsi, l’allacciarsi le stringhe, ecc. Benché tali difficoltà
possano avere una valenza specifica e non sembrino legate all’apprendimento generale, si è osservato che
specifici aspetti dell’apprendimento possono risultare con qualche difficoltà. In effetti, una particolare
categoria di disturbi dell’apprendimento, definita di volta in volta con nomi quali disturbo non verbale,
dell’emisfero destro, ecc., che si caratterizza per difficoltà nell’area della matematica e del pensiero spaziale,
si presenta spesso associata a problemi di coordinazione motoria.
4.5 I disturbi generalizzati dello sviluppo - Contrariamente a quanto ci si potrebbe aspetterebbe, quando si
parla di ddiissttuurrbbii ggeenneerraall iizzzzaattii ddeell lloo ssvvii lluuppppoo, non ci si riferisce ad un insieme eterogeneo di disturbi
evolutivi, ma ad un gruppo definito di problematiche, di cui l’autismo rappresenta quella più nota e
significativa.
3. Afasia globale: in modo semplicistico può essere descritta come la somma delle due forme precedenti,
con la perdita completa di tutte le funzioni linguistiche, in genere questi pazienti recuperano, nel giro
di settimane o mesi, la comprensione e permane solo un’afasia tipo Broca.
4. Afasia di conduzione: è una sindrome poco comune (rappresenta meno del 10% di tutte le afasie) ma è
importante per le sue implicazioni teoriche. Si manifesta con un deficit della capacità di ripetere e una
relativa integrità delle altre componenti del linguaggio. Secondo l’interpretazione classiche dovrebbe
dipendere da un’interruzione del collegamento tra le aree di Broca e Wernicke, altri studiosi ritengono
dipenda dalla perdita della capacità di memoria immediata, in pratica il soggetto dimentica
immediatamente ciò che ha sentito.
5. Afasia anomica: compromette la capacità di dare un nome agli oggetti ed alle parsone (come se il
soggetto avesse perso il dizionario interno). Il linguaggio è fluente, ma con frequenti pause per cercare
le parole giuste, la ripetizione rimane intatta così come la lettura e la scrittura (tranne che per la
difficoltà di trovare i termini giusti).
6. Afasia motoria transcorticale: può essere considerata una variante dell’afasia del Broca con una
perseveranza nella ripetizione, il paziente parla poco, ma ripete bene le frasi pronunciate dagli altri,
spesso anche più volte di seguito, in genere sia la comprensione, sia la lettura restano buone. La
difficoltà maggiore, per questi soggetti, consiste nell’iniziare l’atto del parlare.
7. Afasia sensoriale transcorticale: è simile all’afasia del Wernicke ma in questo caso la ripetizione è
conservata, il linguaggio è fluente anche se pieno di parafrasi, mentre comprensione e lettura sono
molto compromesse, può comparire anche nei malati di Alzheimer
8. Afasia transcorticale mista: è la somma delle due precedenti, la sola funzione linguistica rimasta
disponibile è la ripetizione, talvolta eccessiva (ecolalia) e frequente negli stadi avanzato della malattia
di Alzheimer.
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Si tratta di gravi deficit che determinano una compromissione generalizzata di svariate aree dello sviluppo,
fra cui quella di interagire e comunicare con gli altri, con la presenza di comportamenti stereotipati.
Allo stato attuale, i criteri utilizzati per diagnosticare l’autismo rientrano in tre categorie di problematiche
relative all’interazione sociale, alla comunicazione e alla presenza di modelli comportamentali restrittivi,
ripetitivi e stereotipati.
Va sottolineato che tali criteri non fanno alcun riferimento al funzionamento intellettivo generale, per cui
possono essere diagnosticati come autistici anche bambini con eccellenti capacità intellettuali. L’autismo è
un disturbo poco diffuso nella popolazione mondiale: si stima che colpisca all’incirca 5 bambini ogni 10.000.
Da sempre, tuttavia, vista la sua particolare fisionomia, la frequente compresenza nel soggetto che ne è
affetto di tratti affascinanti ed il mistero che aleggia attorno alle sue origini, è oggetto di grande interesse.
Sulle origini dell’autismo sono state avanzate numerose ipotesi, talvolta molto diverse tra loro. Sino a non
molto tempo fa, nel nostro Paese, la posizione più accreditata era quella dello psicanalista americano
Bettelheim (1967).
Secondo quest’autore l’insorgenza dell’autismo sarebbe stata prevalentemente dovuta all’atteggiamento
freddo e privo d’amore dei genitori. In altre parole, per l’autore, i bambini autistici avrebbero avuto genitori
capaci di soddisfare i loro bisogni fisici, ma non quelli emotivi; tale stato di cose avrebbe indotto questi
soggetti a considerare il mondo come frustante e distruttivo e quindi a ritirarsi da esso e dalla gente,
rifugiandosi in se stessi.
Oggi, nonostante l’indubbio fascino di questa tesi, la scarsità di prove empiriche addotte a suo favore, ha
spinto i nostri studiosi a focalizzare l’attenzione su fattori di tipo organico e neuropsicologico.
4.6 Il disturbo da deficit di attenzione/iperattività - I soggetti con un ddiissttuurrbboo ddaa ddeeff iiccii tt ddii
aatttteennzziioonnee//iippeerraattttiivvii ttàà, ((AADDHHDD)), hanno difficoltà a mantenere l’attenzione e a controllare il grado della
propria attività. In genere, si distinguono al loro interno i disturbi di sola attenzione, quelli di sola iperattività,
e quelli che presentano entrambi i profili. Nella tabella qui di seguito vengono riportati i 18 sintomi che il
DSM-IV propone per la diagnosi dei casi di ADHD. Questi sintomi sono stati organizzati in vari paesi del
mondo, tra cui l’Italia, in modo da formare una vera e propria scala di misura, conosciuta nel nostro paese
con il nome di SDAI
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TAB. 4 ITEM INDICATI DAL DSM-IV PER LA DIAGNOSI
DEL ADHD
4.7 Il disturbo della condotta - Quando si parla di ddiissttuurrbboo ddeell llaa ccoonnddoottttaa ((DDCC)) ci si riferisce a
comportamenti poco controllati che violano il diritto degli altri e, nei casi più gravi, le norme sociali.
Generalmente, nel disturbo che si presenta solo nell’adolescenza, vi sono elementi legati al contesto sociale
che, una volta venuti meno, fanno scomparire anche i comportamenti associati. L’antisocialità di tali
comportamenti risulterebbe enfatizzata dal delicato momento di transizione attraversato dal ragazzo sia sul
piano fisico che sociale. Vi sarebbe, in sintesi, uno “scarto di maturità” per cui il ragazzo, pur diventato
fisicamente un adulto, sul piano psicologico e delle opportunità sociali sarebbe in piena maturazione.
Raggiunta la maturità anche da questo punto di vista, i problemi connessi a questo “scarto” verrebbero
meno. In altri casi, invece, il profilo DC è già intuibile nel comportamento precoce del bambino (prima dei 10
anni di età) e tende a mantenersi nel tempo. Qui di seguito vengono riportati i criteri diagnostici indicati dal
DSM-IV .
TAB. 5 SINTOMI DEL DISTURBO DELLA CONDOTTA
1. Difficoltà di attenzione nei dettagli
2. Agita mani e piedi quando è seduto
3. Difficoltà a mantenere l’attenzione
4. Non riesce a stare seduto
5. Quando gli si parla sembra non ascoltare
6. E’irrequieto e corre ovunque
7. Non segue le istruzioni ricevute
8. Difficoltà in attività tranquille
9. Difficoltà a organizzare il lavoro
10. E’ in continuo movimento
11. Non si impegna in attività prolungate
12. Parla eccessivamente
13. Perde oggetti necessari per le attività
14. Risponde precipitosamente
15. Distratto da stimoli esterni
16. Difficoltà ad aspettare il proprio turno
17. Dimentica di fare le cose
18. E’invadente con le altre persone
CCRRII TTEERRII DDII AAGGNNOOSSTTII CC II PPEERR II LL DDCC
1. AGGRESSIONE A PERSONE O ANIMALI
2. DISTRUZIONE DI PROPIETÀ
3. IMBROGLIO O FURTO
4. SERIA VIOLAZIONE DELLE REGOLE
Gli item dispari rappresentano i sintomi che
caratterizzano i bambini con disturbi di
attenzione; gli item pari quelli che
caratterizzano i bambini con disturbi di
iperattività. In ultimo, i 18 stimoli
caratterizzano i soggetti che presentano
entrambi i problemi. Per una trattazione più
approfondita di questi disturbi, che stanno
riscuotendo un crescente interesse tra medici
e psicologi, si rimanda al prossimo capitolo.
Il disturbo della condotta implica un quadro
ripetitivo e persistente di comportamenti in
cui i diritti degli altri (persone o animali) o le
regole sociali vengono violati. Per
diagnosticare un DC devono essere stati
rilevati almeno 3 degli aspetti elencati negli
ultimi 12 mesi, di cui per lo meno 1 negli
ultimi 6 mesi.
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HIKIKOMORI: UN CURIOSO FENOMENO DI RITIRO SOCIALE
L’hikikomori (letteralmente “rannicchiarsi in se stesso”, “isolarsi”, “appartarsi”) è una forma di ritiro
sociale che colpisce preferibilmente i giovani che decidono di rinchiudersi nella loro stanza rifiutando il
contatto con il mondo esterno anche per anni. Si tratta di un fenomeno che s è sviluppato in Giappone in
tempi recenti (se ne parla da circa cinque anni).
Non si tratta di una semplice crisi esistenziale (nel resto del mondo gli adolescenti in crisi sviluppano ansia
e agorafobia) bensì di una patologia socialmente invalidante che spinge un numero cospicuo di giovani (si
parla di un milione di adolescenti) a segregarsi nella loro stanza negando l’accesso a chiunque eccezion fatta
per la madre per l’introduzione delle vivande. Questi ragazzi vivono “al contrario” dormono di giorno e
passano la notte guardando la tv collegandosi ad internet ascoltando musica o giocando alla play station.
Insomma l’adolescente trasforma la sua stanza in una sorta di rifugio della mente per difendersi da un
mondo esterno che vive come terrificante… la realtà del suo paese, il Giappone in cui domina la cultura
dell’efficienza a tutti i costi… vittima di un sistema normativo. I genitori pretendono dai figli l’eccellenza
fin da quando sono piccolissimi, le scuole migliori e più dure, poi il lavoro, la vita… una continua ricerca di
performance.
Nella lunga fase di fuga dal mondo l’adolescente erige una barriera solida ed impenetrabile nei confronti del
mondo esterno negando ogni forma di dialogo e confronto, abbandona ogni forma di relazione reale per
abbracciare quelle virtuali e il cyberspazio prende il posto della vita. Chi è colpito da hikikomori non vuole
perdere il suo privato: rinuncia al benessere sociale, che sublima nel benessere virtuale. Tuttavia questi
ragazzi vivono male la loro condizione, non sono nient’affatto sereni, sono ossessionati da quello che
accade fuori, dal pensiero dei loro coetanei che, al contrario di loro, si stanno realizzando e stanno
conducendo un’esistenza normale.
Com’è ovvio i genitori vivono questa situazione con un profondo senso di disperazione: sentono la presenza
del figlio, ma a volte passano mesi o addirittura per anni prima che esca dalla sua camera, divenuta luogo
della sua prigionia volontaria.
Quali rimedi? Basterebbe che in famiglia si parlasse di più, che il figlio potesse esprimere le proprie
difficoltà e condividere le proprie paure. Che il padre diventasse una presenza vera e che, soprattutto in
materia di educazione dei figli, non delegasse quasi tutto alla moglie. Che la madre fosse più affettuosa e
meno ossessionata dalle performances del figlio. Ma è proprio questo il punto dolente, col distratto consenso
del marito, ma soprattutto con l’incoraggiamento della società, la mamma giapponese è una presenza
continua e zelante, che accompagna ossessivamente il figlio in tutte le sue attività: una sorta di sergente di
ferro che si preoccupa di organizzargli minuziosamente la giornata, riempiendo le ore libere dalla scuola
con lezioni di arti marziali, di musica, di inglese e quant’altro possa suggerirle la fantasia. Diventa scontato
che il ragazzo debba ricompensare tanta dedizione con l’agognato successo. Ma i figli ad un certo punto
possono anche dire di no… e rinchiudersi nella loro stanza.
Come abbiamo detto l’hikikomori è un fenomeno tipicamente giapponese, anche perché il Giappone è un
paese tecnologicamente all’avanguardia e riconosce pari dignità al mondo virtuale e reale, il paese dove è
nato ed ha avuto larghissima diffusione il cucciolo virtuale che se non viene accudito muore sul display, in
società meno avanzate, o meno ossessionate dalla tecnologia, il rifiuto si esprime in altri modi: con la droga
prima di tutto e poi con la violenza o con altri vari tipi di comportamento antisociale
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4.8 Il disturbo oppositivo-provocatorio - Il ddiissttuurrbboo ooppppoossii ttiivvoo--pprroovvooccaattoorriioo ((DDOOPP)), presenta molti
elementi di somiglianza con la precedente problematica. Entrambi i disturbi si riferiscono a una dimensione
di scarso autocontrollo con implicazioni sociali. Tuttavia, il DOP è rivolto principalmente alle altre persone,
rispetto a cui il bambino si mette in opposizione, senza conseguenze antisociali particolarmente gravi e senza
infrangere la legge, mentre il DC presenta solitamente un profilo più grave. Gli otto sintomi che secondo il
DSM-IV caratterizzano i bambini affetti da DOP sono riportati qui di seguito.
TAB. 6 INDICI DIAGNOSTICI DEL DOP
4.9 I disturbi della nutrizione Un’altra tipologia di disturbi presenti nell’infanzia e nell’adolescenza è
quella relativa al rapporto con il cibo. Tali disturbi risultano tra loro molto diversificati.
Da un lato troviamo i ddiissttuurr bbii ddeell llaa nnuutt rr iizziioonnee della prima infanzia e della fanciullezza, che consistono
nell’ingestione di sostanze non commestibili (pica), nel ripetuto rigurgito e rimasticamento del cibo (disturbo
di ruminazione), o nell’incapacità di consumare un adeguata quantità di cibo e quindi di crescere.
Dall’altro abbiamo i ddiissttuurr bbii ddeell ll ’’ aall iimmeennttaazziioonnee, caratterizzati dall’ingestione di cibo eccessivamente
scarsa (anoressia nervosa) o eccessivamente abbondante (bulimia nervosa); tali disturbi sono presenti a
ogni età ed in entrambe i sessi, anche se compaiono con particolare frequenza nelle ragazze tra i 14 e 18
anni.
Per quanto riguarda l’anoressia, manifestazioni essenziali sono: a) il totale rifiuto di mantenere il peso al
di sopra del peso minimo calcolato in termini di età e statura b) l’amenorrea, ossia l’assenza di almeno tre
cicli mestruali consecutivi c) un’intensa paura di acquisire peso e diventare “grassi” d) distorsioni relative
tanto alla percezione quanto al valore attribuito all’aspetto fisico e al proprio peso. Nel caso della bulimia ,
invece, manifestazioni caratteristiche sono: a) la presenza di frequenti “abbuffate”, ossia l’ingestione di
smodate quantità di cibo in tempi relativamente brevi con successivo senso di colpa e sentimenti di
insoddisfazione b) la conseguente adozione di misure compensatorie finalizzate a porre rimedio alle
SINTOMI UTILIZZATI PER LA DIAGNOSI DEL
DOP
1. ANDARE SPESSO IN COLLERA
2. POLEMIZZARE SPESSO CON GLI ADULTI
3. SFIDARE SPESSO LE REGOLE O RIFIUTARE DI VENIRE
INCONTRO ALLE ESIGENZE DEGLI ADULTI
4. DISTURBARE SPESSO LA GENTE INTENZIONALMENTE
5. RIMPROVERARE SPESSO GLI ALTRI PER ERRORI CATTIVI
COMPORTAMENTI
6. ESSERE IPERSENSIBILI
7. ESSERE SPESSO ARRABBIATI E RISENTITI
8. ESSERE SPESSO DISPETTOSI E VENDICATIVI
I vari aspetti del DOP implicano indubbiamente
difficoltà di interazione sociale, ma non sono in
se stessi di grossa gravità e possono trovare, se
non troppo accentuati, una loro integrazione in
un contesto sociale flessibile.
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“abbuffate”, tra cui principalmente l’autoinduzione del vomito, il digiuno nei giorni successivi e l’esercizio
fisico eccessivo.
4.10 I disturbi da tic Il ddiissttuurrbboo ddaa ttiicc, soprattutto se lieve, è molto frequente tra i bambini. La parola Tic
sembra derivare dal tedesco ticket che significa toccare leggermente o da un termine della medicina
veterinaria che già nel seicento definiva ticq e ticquet un fenomeno per cui alcuni cavalli subivano un
improvviso arresto del respiro seguito da un rumore: una sorta di forte singhiozzo.
Il termine si estese ad una serie di manifestazioni che hanno in comune la rapidità, la ripetitività, la scarsa
controllabilità ed il peggioramento in presenza di stress.
I tic si dividono in Motori e Vocali, Semplici e Complessi:
• Tic motori brevi
o Clonici brevi: sbattere gli occhi o scuotere la testa
o Distonici più lunghi: bruxismo (digrignamento dei denti) o rotazione delle spalle
o Tonici ancor più prolungati: stiramenti
• Tic motori complessi: possono essere movimenti più o meno finalizzati che determinano l’impulso
di toccare o spingere persone o cose
• Tic vocali semplici: caratterizzati da colpi di tosse, finti starnuti o emissioni gutturali
• Tic vocali complessi: gli stessi sintomi diventano l’espressione di frasi spesso oscene (copro-porno-
lalia) o di ripetizione di frasi appena ascoltate
Farmaci ed esercizio della volontà possono attenuare la frequenza dei tic… ma chi riesce a trattenersi per
qualche ora tende comunque a “rifarsi” appena libero di esprimersi con una sorta di esplosione di tutti i tic
temporaneamente repressi.
Si stima che il 18% dei bambini alle elementari manifestino qualche tic nervoso ma che solo nell’uno per
cento dei casi tale disturba permarrà, in forma più o meno invalidante, nell’età adulta.
Un caso particolarmente significativo è rappresentato dal disturbo di Tourette, così chiamato dal nome
dello studioso che, nel 1885, per primo lo descrisse.
Esso si diagnostica quando compaiono con elevata frequenza sia tic motori, sia almeno un tic legato
all’uso della voce: il tic è così frequente repentino ed inopportuno da creare, a chi ne soffre, serie difficoltà
sociali. Per ulteriori approfondimenti sull’argomento si rimanda al box riportato di seguito.
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SINDROME DI TOURETTE
La malattia fu inquadrata e descritta per la prima volta da Gilles de Tourette nel 1885 si sa poco della
eziologia e della patogenesi della sindrome, si sospetta che all’origine ci sia un danno a livello dei gangli
basali nel sistema nervoso centrale e che abbia una componente genetica. Non ci sono marker biologici in
grado di svelarla e la diagnosi si basa esclusivamente su criteri clinici e sulla prolungata osservazione di
disturbi e sintomi che cominciano a manifestarsi nell’infanzia. Si tratta di bambini affetti da tic multipli:
irrequieti, che strizzano gli occhi o ripetono le frasi appena pronunciate o tirano su col naso o ruttano, dicono
parolacce o emettono rumori senza potersi controllare. Sono perlopiù maschi con un rapporto di quattro
maschi per ogni femmina e vengono considerati ragazzini insopportabili, è difficile distinguerli da quelli
realmente maleducati o antipatici. Prima della diagnosi i ragazzini tourettici subiscono molte incomprensioni
e punizioni ingiuste. Spesso prima di giungere ad una diagnosi neurologico/psichiatrica, che prevede
comunque la difficile accettazione dell’idea della “malattia mentale”, si passa attraverso la valutazione
otorinolaringoiatria se il ragazzino presenta il tic della tosse intermittente o continua; quella oculistica se
sbatte gli occhi o quella ortopedica se mostra movimenti clonici del collo o della testa.
La sindrome di Tourette è una malattia rara anche se si stima che in Italia riguardi circa 30.000 persone e la
scarsa conoscenza su origini e decorso della patologia è causa della mancanza di terapie specifiche e ci si
appoggia a psicofarmaci studiati su altre patologie cercando di ottimizzarne i vantaggi.
Controllare le manifestazioni tourettiche può essere una necessità
• Sociale: soprattutto quando ai tic è associata la copro-porno-lalia
• Medica: quando ai tic si associano patologie ossessivo-compulsive o ADHD o quando i movimenti
della testa portano a disturbi della colonna vertebrale
I neurolettici classici (pimozide, sulpiride, aloperidolo) hanno una discreta efficacia nella riduzione dei tic ma
notevoli effetti collaterali a carico del sistema extrapiramidale (rischiano di indurre parkinsonismi), i
neurolettici atipici (clozapidina, risperidone, olanzepina e quietapina) sono preferiti, valutandone però
attentamente la tollerabilità.
Vengono impiegati anche farmaci che inibiscono la ricaptazione della serotonina (un neurotrasmettitore)
come il metilfenidato (usato anche nei pazienti ADHD).
SVILUPPI ATTUALI L’i potesi più recente ed inattesa sull’origine della sindrome di Tourette viene dal mondo delle malattie infettive. Il prof. Francesco Cardona del Dipartimento di scienze neurologiche e psichiatriche dell’età evolutiva della università La Sapienza di Roma propone di annoverarla tra le Pediatric Autoimmune Neuropsichiatric Disorders Associated with Streptococcal infection. Cioè tic ed altri disturbi neuromotori che potrebbero dipendere da una reazione autoimmune secondaria a infezione da streptococco. Un batterio molto frequente negli ambienti frequentati dai bambini. Ipotesi interessante che, se dimostrata, potrebbe stabilire una correlazione tra disturbo neuropsichiatrico e batterio.
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4.11 I disturbi dell’evacuazione - I ddiissttuurrbbii ddeell ll ’’ eevvaaccuuaazziioonnee si riferiscono all’impossibilità di controllare
l’eliminazione dell’orina (enuresi) e delle feci (encopresi). Ovviamente, il bambino piccolo deve acquisire
questa capacità e, talvolta, può incontrare difficoltà, anche se non gravi, per cui il sintomo viene ritenuto
rilevante solo se compare con elevata frequenza e dopo i 5 anni e non è la conseguenza di particolari
condizioni fisiologiche legate a malattie o all’uso di medicine. Anche dopo i 5 anni, tale problema può essere
abbastanza comune, ma esso dovrebbe progressivamente risolversi, per cui a 12 anni la permanenza o la
ricomparsa prolungata del problema richiedono un’attenta considerazione.
4.12 L’ansia da separazione - Un altro disturbo legato allo sviluppo è rappresentato dall’ansia da
separazione. Il bambino ha paura di essere separato dalla persona che si prende cura di lui, generalmente la
mamma. Esso rappresenta apparentemente la permanenza nel tempo di una forma di comportamento che
caratterizza ogni bambino avente dai 6 agli 8 mesi, che ha paura di essere separato dalla madre, che vuole
averla in vista, essere nella stessa stanza, e che reagisce male all’estraneo. Si ipotizza che se non ci sono state
le condizioni per un buon attaccamento e la separazione non è stata gestita in maniera ottimale, nel bambino
permanga l’ansia di essere separato dalla persona che si occupa di lui, anche quando è molto più grande, con
conseguenze per il suo profilo emotivo anche da adolescente e da adulto. Il bambino che soffre di questo
disturbo diventa teso quando viene a sapere che sarà separato da casa o dalle persone cui è legato, o
semplicemente teme che la cosa possa accadere, per cui ha paura di andare a dormire da solo, di lasciare la
propria casa, di trovarsi in ambienti estranei, di perdersi, ecc.
4.13 Il mutismo selettivo - Il mmuuttiissmmoo sseelleettttiivvoo,, consiste nella persistente incapacità del bambino di parlare
in particolari situazioni sociali, ad esempio a scuola, benché in altre situazioni sia in grado di farlo senza
alcun problema.
4.14 Il disturbo reattivo dell’attaccamento - Per finire, il ddiissttuurrbboo rreeaattttiivvoo ddeell ll ’’ aattttaaccccaammeennttoo consiste in
una modalità di reazione sociale altamente disturbata ed inadeguata rispetto al livello di sviluppo del
soggetto. Essa si manifesta in quasi tutti i contesti, ha quasi sempre inizio prima dei 5 anni ed è associata ad
un accudimento grossolanamente patogeno da parte dei genitori o di altre persone che si occupano del
bambino.
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5. PRINCIPALI APPROCCI TERAPEUTICI
La prima considerazione da fare è che esiste uno specialista, il pediatra di base, al quale il disturbo viene
presentato per primo e dalla cui sensibilità ed esperienza dipende molto spesso la diagnosi e l’approccio
terapeutico dei disturbi dell’età evolutiva: sarà infatti quasi sempre il pediatra di base a verificare le allarmate
segnalazioni proposte a seconda del caso dalla famiglia o dalle istituzioni scolastiche ed a decidere se è il
caso o no di approfondire l’indagine. In caso positivo altri specialisti di riferimento possono essere la
Psichiatra, il Neurologo e lo Psicologo.
Gli orientamenti terapeutici prevalenti sono attualmente tre: la psicoanalisi/psicoterapia personale, la
psicoterapia cognitivo-comportamentale e la farmacoterapia.
5.1 La psicoanalisi/psicoterapia personale - Nel ricorrere alla psicoanalisi o alla psicoterapia personale
bisogna chiedersi: il focus della terapia è la persona o la relazione? Il disturbo psicopatologico di cui ci si
occupa è un disturbo strutturato all’interno della persona, interiorizzato? O è soltanto un disturbo della
relazione?
Nel primo caso l’obiettivo dell’intervento sarà la persona (il soggetto in età evolutiva), se invece si tratta
essenzialmente di un disturbo di relazione l’obiettivo dell’intervento sarà la relazione ed in questo caso il
genitore, la famiglia.
Nella psicopatologia infantile accanto a fattori psicodinamici sono da considerare primariamente fattori
biologici, familiari, sociali che si intrecciano fra di loro.
La storia della psicoterapia infantile nasce con un intervento rivolto ad un bambino attraverso l’aiuto del
suo genitore (Freud Analisi di un caso di fobia in un bambino di 4 anni). Freud non trattò il bambino
direttamente, ma attraverso il padre, che in qualche modo ne era il co-terapeuta.
In un altro caso famoso Analisi di un bambino di Melanie Klein il contesto ed i genitori vengono
volutamente trascurati, ponendo il focus esclusivamente sul bambino.
Negli ultimi anni si è verificata una profonda evoluzione della materia ed oggi si ritiene pressoché
impossibile poter trattare un bambino separatamente dai suoi genitori. Se prima si manteneva la famiglia al
di fuori per evitare che interferisse nel procedimento terapeutico, ostacolando il lavoro dell’analista, ora si
riconoscono voci multiple dell’intervento: il bambino ma anche i genitori e la famiglia, ma anche il contesto
generale, la scuola, e anche altri ambiti. L’approccio è abbastanza flessibile e si preferisce parlare di un
orientamento non rigido, in cui si intrecciano interventi sulla persona e sulla rete di relazioni, anzi oggi si sta
verificando la convergenza di orientamenti originariamente distanti, riconoscendo la dimensione psicologica
del disturbo, ma anche il suo complesso contesto e il substrato biologico (con esso la possibilità di una
terapia farmacologica).
La tecnica psicoterapeutica con il bambino fino alla tarda fanciullezza è il gioco, in esso il bambino
esprime e drammatizza i suoi conflitti interni. Mentre nell’adulto e nell’adolescente la relazione si basa sullo
fondazione Centro orientamento Alessandria 22
scambio verbale, sulla narrazione, sulla dimensione linguistica, nel bambino questa narrazione avviene
attraverso il gioco. Il gioco è il grande specchio del mondo psichico del bambino. Lavorando con il bambino
nell’ambito del gioco, è possibile aiutarlo a diventare consapevole delle sue difficoltà, dar voce alla sua
ansia. Questo è un punto abbastanza centrale della psicoterapia infantile, tenendo presente che, a differenza
dell’adulto il bambino vive i suoi disturbi in termini egosintonici: mentre l’adulto che ha una fobia vive il
suo disturbo come qualcosa di estraneo alla sua persona, il bambino lo vive come cosa propria, anche se lo fa
soffrire. Nell’ambito della psicoterapia il bambino impara a riconoscere queste sue difficoltà e a dare loro un
senso.
La psicoterapia dell’adolescente è abbastanza diversa, uno degli aspetti fondamentali è lo scambio, la
relazione personale, il tema di fondo è il disturbo dell’identità. L’adolescente attraversa una crisi di identità,
non sa riconoscersi, si affatica nello sforzo di raggiungere l’identità adulta. Compito del terapeuta è aiutarlo
ad uscire da questa difficoltà, quando gli provoca troppo dolore.
La psicoterapia di tipo analitico riconosce alcuni fattori terapeutici che si dimostrano particolarmente
efficaci nella terapia, uno di questi consiste nell’aiutare il ragazzo a riconoscere come le sue difficoltà si
possano collegare alle varie fasi dello sviluppo (aiutare il ragazzo a sviluppare un io consapevole dall’es
inconsapevole); il secondo fattore importante è la capacità del terapeuta di riconoscere quali siano le sue
motivazioni, i suoi scopi, le sue intenzioni, i suoi problemi, le sue difficoltà, le sue emozioni. Questa
funzione, sia nel bambino che nel ragazzo che nell’adolescente, è importante per sviluppare nel soggetto una
migliore integrazione di se stesso; terzo aspetto è la funzione di base sicura: il terapeuta deve rappresentare
per il bambino una base sicura, questo concetto si rifà a Bowlby, che affermava come il bambino per
regolare la propria sicurezza dovesse trovare nei genitori una base sicura. In terapia la figura del terapeuta
può aiutare il bambino a rendere più sicura la sua base, a regolare le proprie emozioni e a sviluppare la
propria sicurezza.
Il trattamento deve essere modellato sull’età e sul tipo di disturbo, si possono configurare tre situazioni
diverse.
La prima riguarda difficoltà di tipo evolutivo, relative alle diverse fasi dello sviluppo: un disturbo che
non si è strutturato e non riguarda tutti gli ambiti funzionali, in questa situazione non è giustificato lavorare
con il bambino mentre è più utile lavorare con i genitori.
La seconda riguarda turbe evolutive , un turbamento (disturbance) già organizzato ma non ancora un
disturbo (disorder), in questa fase, accanto al counseling per i genitori si può incontrare il bambino,
conoscerlo, farsene un’idea e lavorare anche con lui.
La terza situazione riguarda il disturbo vero e proprio (disorder), non ci sono solo dinamiche
interfamiliari da correggere ma anche una sofferenza strutturata del bambino che spesso interessa più
funzioni. Nel caso di disturbi alimentari, questi si considerano strutturati quando non si verificano in
presenza di una sola persona o in un solo ambiente, anche in casa d’altri o a scuola o con amici. In questo
caso l’indicazione è quella di un intervento rivolto sia ai genitori che al bambino ma l’intervento
psicoterapeutico si svolge su piani diversi.
fondazione Centro orientamento Alessandria 23
Sarebbe molto importante riuscire ad intercettare il disturbo prima che si organizzi: in età evolutiva la
personalità si va strutturando poco a poco e con essa si strutturano i circuiti cerebrali, intervenire su circuiti
in via di formazione è evidentemente più semplice che intervenire su circuiti che abbiano assunto solidità
fino alla rigidezza, per lo più nei bambini non succede e si raggiunge il successo con più facilità che
nell’adulto.
5.2 La psicoterapia cognitivo-comportamentale - In questi ultimi decenni la terapia cognitivo-
comportamentale ha avuto una notevole diffusione in ambito psicoterapeutico dopo che per diversi anni le
due prospettive avevano costituito metodiche distinte. I sistemi di intervento dell’approccio cognitivo-
comportamentale possono essere considerate distribuite lungo un continuum che va da un’estremità dove si
collocano le procedure radicalmente cognitiviste all’altra estremità dove si collocano quelle radicalmente
comportamentiste ma la maggior parte di queste metodiche si posiziona nella parte centrale del continuum
spostandosi ora da un versante ora dall’altro a seconda del problema affrontato e del tipo di paziente.
Il ruolo del terapeuta cognitivo-comportamentale che lavori con bambini e adolescenti può essere
descritto considerando tre importanti funzioni che si trova ad assolvere: quella di consulente , di diagnosta e
di educatore.
Nella sua funzione di consulente il terapeuta aiuta il soggetto nel trovare modi efficaci per affrontare
situazioni problematiche, non tutte le risposte a qualsiasi problema, ma propone alcune idee che il giovane
paziente può prendere in considerazione se possono essergli d’aiuto. Può creare semplici esperimenti per
mettere alla prova alcune convinzioni disfunzionali del giovane soggetto: il bambino o l’adolescente prova
qualcosa e ricava significato dall’esperienza e ciò risulta più efficace che dirgli apertamente cosa deve fare.
In questa funzione il terapeuta si impegna per aiutare il bambino a sviluppare determinate capacità, quali
il saper individuare i propri modi di pensare negativi e saper pensare in modo costruttivo di fronte a
situazioni problematiche. Il bambino ed il terapeuta interagiscono in modi collaborativi, con un
atteggiamento di problem-solving, ad esempio se il paziente chiede “Che devo fare?” il terapeuta risponde
“Cosa vorresti ottenere?” e poi ”Quali possibilità hai?” e ancora “C’è qualcos’altro che dovresti
considerare?”. In questo modo il terapeuta fornisce un adeguato modello di problem-solving che il soggetto
gradatamente potrà interiorizzare.
Il terapeuta nella sua funzione di diagnosta decodifica e interpreta le esperienze, uno dei suoi compiti e
quello di raccogliere dati e, in base alle proprie conoscenze sullo sviluppo e la psicopatologia del soggetto,
trarre delle conclusioni significative e prendere decisioni. Questo spesso implica andare oltre la descrizione
immediata fornita dal genitore, così ad esempio il fatto che il genitore racconti le eccessive paure del
bambino costituisce un’utile informazione ma non un motivo sufficiente per iniziare un trattamento
terapeutico, oppure se un insegnante descrive un bambino come “insicuro” è bene valutare varie ipotesi
prima di concludere che il bambino ha problemi di ansia, potrebbe trattarsi di un bambino con
comportamento normale, mentre eccessivo potrebbe essere il livello di prestazioni richiesto dall’insegnante,
o troppo alte le aspettative dei genitori. In altre situazioni il problema può risultare di tipo diverso rispetto a
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quello che si sarebbe potuto prospettare dalla sola descrizione fornita dall’adulto, per cui al terapeuta
potrebbe essere segnalato un problema di ansia ma in realtà l’agitazione e il nervosismo del bambino
potrebbero dipendere da un deficit di attenzione. Altre volte accade che il problema evidenziato dal soggetto
ad esempio la paura sia la risultante di modelli di interazione familiare disfunzionali, per cui lo stile
educativo dei genitori diventa il punto focale dell’intervento terapeutico.
In conclusione il terapeuta cognitivo-comportamentale svolge le sue funzioni di diagnosta prendendo in
considerazione varie fonti di informazione, e dopo aver esaminato tali dati rapportandoli a strutture
concettuali di riferimento, trae le sue conclusioni sulla natura del problema, con l’intento di scegliere la
strategia ottimale per il trattamento.
Il terapeuta nella sua funzione di didatta assolve il compito di comunicare al soggetto metodi efficaci
per raggiungere il controllo sul proprio comportamento e sulle proprie emozioni, Egli lo stimolerà affinché
possa apprendere modi di pensare più efficaci, lo aiuterà a massimizzare i suoi punti di forza ed a superare
gli ostacoli, accettando la sua particolare unicità. Presterà attenzione al modo in cui il suo giovane allievo
pensa in particolari momenti, consapevole di come il comportamento del bambino è influenzato dal suo
dialogo interiore.
Un intervento terapeutico qualitativamente valido è quello che riesce a trasformare costruttivamente il
modo in cui il bambino trae significato dall’esperienza e il modo in cui egli si comporterà in futuro.
Nell’ambito della terapia cognitivo-comportamentale l’accertamento diagnostico è un processo dinamico
che si articola per tutto il corso del trattamento, e che si sviluppa parallelamente alla costruzione di una
relazione terapeutica. La valutazione inizia con un colloquio clinico coi genitori (ed eventualmente con gli
altri membri della famiglia), procede con un colloquio clinico col bambino o l’adolescente, facendo
eventualmente ricorso a vari strumenti di indagine e raccolta dati (questionari, scale, check-list, schede di
monitoraggio).
Varie ricerche hanno dimostrato che, integrando tecniche comportamentali con procedure cognitive è
possibile ottenere sostanziali modifiche nel modo di reagire di bambini e adolescenti, queste metodiche
possono essere considerate come abilità di fronteggiamento (coping skill) e vengono trasmesse al soggetto
nel corso del trattamento.
Le principali di queste abilità sono: correzione di modalità di pensiero disfunzionale, problem-solving,
tecniche immaginative, modeling, tecniche di modificazione del comportamento.
Un modo di pensare disfunzionale porta a emozioni e comportamenti disturbati, dopo aver identificato
questi errori cognitivi, il modo di pensare può essere trasformato, aiutando l’individuo a provare emozioni
più funzionali e a manifestare comportamenti più adeguati. Per preparare bambini ed adolescenti alla messa
in discussione di pensieri disfunzionali, si rende necessario insegnare formalmente i concetti di “funzionale”
e “disfunzionale” ciò fatto si potrà procedere insegnando ai soggetti ad “attaccare” i pensieri disfunzionali
attraverso la procedura della messa in discussione: porsi delle domande per convincersi della falsità e
dell’inconsistenza di questi pensieri.
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Nel corso del trattamento è importante aiutare il soggetto a considerare possibili soluzioni per
fronteggiare le difficoltà collegate a condizioni emotive spiacevoli: quando una situazione ansiogena viene
affrontata come un problema che può essere risolto, essa tende a perdere quella connotazione di evento
terribile che gli viene attribuito. Assumere un atteggiamento di problem-solving significa individuare le
varie opzioni disponibili per riuscire a gestire l’interferenza di stati d’animo negativi in determinate
situazioni.
La maggior parte dei soggetti in età evolutiva mostra di possedere un’immaginazione molto fertile per
cui può risultare vantaggioso far ricorso a tecniche immaginative per fini terapeutici.
L’immaginazione può essere utilizzata per favorire uno stato di rilassamento, per contrastare l’insorgere
di ansia e per favorire l’apprendimento di nuove modalità di interpretazione e valutazione degli eventi.
Un’efficace procedura immaginativa messa a punto da Lazarus per il trattamento dei bambini fobici è la
visualizzazione emotiva: il metodo si basa sul controcondizionamento e consiste nell’associare ripetutamente
l’immaginazione dello stimolo fobico all’immaginazione di uno stimolo altamente gratificante per il
bambino. In seguito a questa associazione ripetuta lo stimolo fobico perde gradualmente la sua connotazione
ansiogena, consentendo un avvicinamento graduale ad esso nella situazione reale.
La teoria dell’apprendimento sociale ha avuto un notevole impatto sulla psicologia e sulla psicoterapia: si
basa sulla constatazione che il comportamento può essere acquisito, facilitato, ridotto o eliminato attraverso
l’osservazione del comportamento degli altri e delle conseguenze che tale comportamento produce. Il
processo di modeling occupa una posizione centrale nelle teorie dell’apprendimento sociale: quando il
terapeuta viene percepito come una persona comprensiva, simpatica, esperta ed è fonte di rinforzo, può
diventare un’efficace modello per l’apprendimento di un modo di comportarsi e di sentirsi che sia più
funzionale al conseguimento di scopi costruttivi.
Le procedure di modificazione del comportamento implicano l’utilizzo di varie tecniche derivate dalla
teoria del condizionamento operante di Skinner. Il ricorso alla somministrazione di gratificazioni come
sistema per incrementare la probabilità di comparsa di determinati comportamenti è un elemento importante
della terapia cognitivo-comportamentale, le principali di queste tecniche sono il rinforzo, lo shaping, il
fading e l’estinzione.
Se ad esempio si applica il rinforzo positivo ai problemi d’ansia, si potranno somministrare alcune
ricompense conseguentemente al comportamento di avvicinamento alla situazione temuta, la ricompensa
aumenterà la tendenza a ripetere tale comportamento di avvicinamento. Il rinforzo si è rivelato
particolarmente efficace nel trattamento della fobia scolastica, delle paure notturne, dell’isolamento sociale e
dell’ansia da separazione.
Lo shaping si attua somministrando una ricompensa per ogni successiva approssimazione al
comportamento desiderato, la procedure è indicata quando l’obiettivo comportamentale è piuttosto difficile
ed impegnativo, si è rivelato efficace nel trattamento di paure caratterizzate da una forte tendenza
all’evitamento.
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Il fading è una tecnica che può essere usata quando, ad esempio nel trattamento dell’aggressività, il
bambino è in grado di agire senza collera in determinate circostanze e non in altre, il metodo consiste nel
modificare gradualmente le caratteristiche di una situazione in cui il bambino prova poca collera,
introducendo un poco alla volta elementi che trasformano tale situazione rendendola più a rischio di reazioni
colleriche da parte del bambino, facendo costante ricorso a rinforzi positivi.
L’estizione è una procedura che si basa sulla constatazione che il comportamento disfunzionale è spesso
rinforzato dalle particolari attenzioni che il bambino riceve dall’adulto, eliminando ogni fonte di rinforzo è
possibile ottenere una diminuzione delle reazioni disadattive.
5.3 Farmacoterapia - Nel valutare l’approccio Farmacologico bisogna tenere conto che molti ritengono il
bambino/adolescente con disturbo neuropsichiatrico una entità a parte, per le sue caratteristiche di
vulnerabilità rispetto ai farmaci e per la presenza di situazioni si contesto (familiare e sociale) che
prevalgono rispetto ai fattori biologici. I farmaci psicoattivi, nella stragrande maggioranza dei casi, non
hanno quindi una specifica e riconosciuta indicazione per un uso pediatrico, con poche eccezioni. L’utilizzo
che viene fatto nella pratica formalmente è off-label (cioè fuori dai termini della licenza), tuttavia il problema
dei farmaci off-label coinvolge dal 30 al 60% delle prescrizioni pediatriche, a seconda dei diversi contesti. I
problemi psichiatrici da trattare con farmaci devono corrispondere a diagnosi per le quali ci siano evidenze
certe e consolidate che il beneficio del trattamento è superiore ai rischi indotti dal farmaco.
I farmaci maggiormente utilizzate in età evolutiva appartengono alle classi delle benzodiazepine (BDZ),
degli antidepressivi triciclico (ADT), degli inibitori del reuptake della serotonina (SSRI) e degli
psicostimolanti.
I disturbi nei quali la terapia farmacologica si impiega con maggiore successo sono:
• I disturbi d’ansia e fobia sociale
• Il disturbo oppositivo compulsivo
• La depressione
• L’ ADHD
Maggiori dettagli sulle molecole impiegate verranno proposti alla fine del secondo capitolo.
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PARTE SECONDA
1. MALESSERE IN ETA` SCOLARE: POSSIBILI CAUSE
Un eccesso di responsabilità e di cambiamenti porta facilmente ad un sovraccarico emotivo,
provocando ansia e stress negli adolescenti e nei bambini anche in tenerissima età, con conseguenze
che possono protrarsi sin nell’età adulta.
Spesso, tuttavia, il mito dell’infanzia felice e spensierata rende piuttosto difficile ai “grandi”
cogliere i segni di questo disagio e, di conseguenza, intervenire in maniera appropriata.
Tra le principali cause di ansia e di stress in età evolutiva, possono esservi i litigi familiari:
quando i genitori discutono frequentemente tra loro in maniera violenta, i figli pur non parlandone
apertamente, possono provare un angoscia crescente. Eccessivamente ansiosi e stressati possono
essere anche i bambini che non giocano, che conducono una vita sedentaria, isolata, inadatta alla
loro età, o i cui genitori hanno delle aspettative, per le loro performance in ambito scolastico e
sportivo, decisamente al di sopra delle loro possibilità e della loro resistenza psicologica. Alcuni
bambini e adolescenti hanno spiccate doti in alcuni ambiti e tuttavia una pressione eccessiva degli
adulti, una competitività esagerata, una tabella di marcia incalzante possono non soltanto stressarli,
ma anche indurli a rinnegare il proprio talento, di cui si sentono espropriati. Il sovraccarico può
essere provocato anche da separazioni di qualunque tipo: il divorzio dei genitori, la morte di
una persona cara, la partenza di una babysitter, un genitore che si allontana per lavoro, ecc.
Separarsi rientra nel normale processo di crescita e se a nessun bambino può essere risparmiato il
dolore di una separazione, troppe possono tuttavia produrre i classici sintomi dell’ansia e dello
stress: dal pianto all’enuresi, dai disturbi di stomaco al mal di testa, dal rifiuto di giocare alla
difficoltà a concentrarsi. Stress e ansie troppo frequenti possono poi indebolire il sistema
immunitario, rallentare la crescita, produrre uno stato di affaticamento cronico, facilitare infezioni
alle vie respiratorie. Per quanto riguarda gli adolescenti, poi, va ricordato che essi vivono una fase
di profonda insicurezza dovuta ai cambiamenti che avvengono in loro stessi e, all’esterno, nei
rapporti con la società, la scuola, gli amici, la famiglia. Di fronte a tanti cambiamenti si sentono
goffi, inadeguati, impreparati fisicamente e culturalmente, in perenne ricerca di un identità. Aiutarli
in modo efficace diviene, dunque, importantissimo per assicurare loro una crescita adeguata, ed un
primo passo in questo senso risulta quello di conoscere meglio alcune delle problematiche che
possono dover affrontare.
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2. I DISTURBI D’ANSIA
Prima di esaminare più nel dettaglio i disturbi d’ansia è indispensabile premettere che questa
condizione emotiva non costituisce, in se stessa, un fenomeno patologico. Al contrario, essa
rappresenta un’utile meccanismo adattivo, poiché consente di riconoscere rapidamente una
situazione di pericolo, e quindi di attivare le risorse necessarie per fronteggiare efficacemente il
problema. Questo potenziamento delle risorse individuali comporta la presenza delle spiacevoli
sensazioni legate all’ansia. Tali sensazioni si presentano sia sul piano fisico che sul piano psichico
con manifestazioni molto varie. A livello cognitivo i sintomi caratteristici di questo stato emotivo
sono: nervosismo; difficoltà di concentrazione o “vuoti di memoria”; incapacità di rilassarsi;
difficoltà ad addormentarsi; irritabilità; atteggiamento apprensivo; paura di morire; paura di
perdere il controllo; paura di non riuscire ad affrontare le situazioni. Per quanto riguarda, invece, i
sintomi somatici, quelli che appaiono con più frequenza sono: dispnea e sensazione di
soffocamento; palpitazioni; sudorazione eccessiva o mani fredde e bagnate; bocca asciutta;
vertigini; nausea; diarrea o altri disturbi intestinali; vampate di calore o brividi; sensazione di
avere un “nodo alla gola”; tensione muscolare; tremori e contrazioni muscolari; facile
affaticabilità; irrequietezza.
Quando si parla di disturbo d’ansia non ci si riferisce, dunque, alla presenza di questo stato
emotivo in quanto tale, ma ad una sua eccessiva persistenza al di fuori di un realistico contesto di
allarme e di minaccia.
I disturbi d’ansia, pur essendo accomunati dalla presenza di un forte stato di tensione, possono
assumere molteplici forme, tanto che il riconoscimento di una loro matrice comune è
un’acquisizione relativamente recente.
Questo disturbo può manifestarsi con improvvisi attacchi di panico, o sotto forma di fobia
semplice, nella quale la minaccia viene percepita come se arrivasse da uno stimolo specifico, o
ancora come sociofobia, in cui gli schemi cognitivi mal calibrati dell’individuo vedono potenziali
pericoli nelle situazioni sociali più comuni. Per non parlare del disturbo ossessivo-compulsivo, in
cui la costante intrusione di pensieri spiacevoli spinge l’individuo a cercare di esorcizzarli mediante
rituali tanto ripetitivi quanto sfiancanti. Vi è poi il disturbo da ansia generalizzato, in cui le
preoccupazioni giungono ad interessare un’enorme quantità di eventi e attività, elaborate come
potenzialmente pericolose.
2.1 Il disturbo da ansia generalizzato (GAD) - Per i soggetti affetti da questo disturbo, ogni
problema diventa uno spunto per prefigurarsi situazioni catastrofiche, tanto che spesso risulta
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difficile individuare uno stimolo scatenante vero e proprio. L’ansia, in questi soggetti, si manifesta
in maniera costante, disturbandoli durante tutta la giornata. L’individuo che soffre di GAD si rende
conto della sproporzione tra la situazione in cui realmente si trova e il livello d’ansia provata, ma
questa coscienza razionale non è sufficiente a dissolvere le paure che continuano a ripresentarsi alla
sua mente. L’incapacità di rilassarsi si ripercuote tanto sulla capacità di concentrazione, disturbata
dalla costante intrusione di sentimenti d’ansia, quanto sulla possibilità di dormire in modo regolare.
A differenza di chi è affetto da altre forme d’ansia, chi soffre di GAD non evita situazioni
specifiche e, se il disturbo non assume una forma acuta, difficilmente interferisce con la capacità di
integrarsi nei contesti sociali e lavorativi. Per questa ragione, l’importanza del GAD è stata a lungo
sottovalutata. Oggi, tuttavia, questo disturbo suscita maggiore interesse, sia perché si presenta
spesso in associazione a forme di depressione gravi, sia perché, nelle sue manifestazioni più intense,
rende gravoso svolgere anche le attività quotidiane più banali.
2.2 Disturbo da attacchi di panico (DAP) - L’attacco di panico consiste in una manifestazione
d’ansia estremamente intensa, breve e transitoria. Questo stato ansioso si presenta come una crisi
acuta di forte apprensione, paura o terrore, durante cui sono avvertiti almeno quattro dei seguenti
sintomi:
1. palpitazioni o tachicardia;
2. sudorazione;
3. tremori;
4. dispnea o sensazione di soffocamento;
5. sensazioni di asfissia;
6. dolore al petto;
7. nausea o disturbi addominali;
8. sensazioni di sbandamento;
9. derealizzazione o depersonalizzazione;
10. paura di perdere il controllo o di impazzire;
11. sensazioni di torpore o formicolio;
12. brividi o vampate di calore.
Quando si parla di attacchi di panico è necessario distinguere tra attacchi provocati da una
situazione ben definita e quelli non collegati ad alcun avvenimento particolare. I primi si presentano
o durante l’esposizione o durante l’attesa di uno stimolo temuto: ad esempio, una persona con un
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disturbo da stress post-traumatico conseguente ad un terremoto, che venga a trovarsi in una
situazione simile o collegata a tale evento; una persona con una fobia specifica per i topi che venga
a trovarsi a contatto ravvicinato con questi roditori entrando in uno scantinato, ecc. In questi casi, lo
schema stimolo-risposta è chiaro: il senso di paura inizia e finisce in concomitanza con
l’esposizione alla situazione temuta. Molto meno intuitivo è il caso degli attacchi di panico non
provocati. L’attacco (definito come spontaneo) colpisce la persona improvvisamente, senza segnali
premonitori. Esso, almeno le prime volte, compare in modo del tutto inatteso e raggiunge l’apice nel
giro di una decina di minuti. L’esperienza soggettiva più comunemente descritta è quella di “aver
pensato di stare per morire”. In genere, la persona suppone di avere un infarto o un ictus, o un’altra
malattia che richieda un soccorso repentino; altre esperienze che vengono frequentemente riferite
riguardano la sensazione di “stare per impazzire” o “di perdere il controllo”. Il più delle volte gli
attacchi rimangono episodi isolati, che non lasciano strascichi, ma altre volte essi si ripetono e
danno luogo a gravi reazioni, accompagnate da sensazioni di disagio e sofferenza che possono
acuirsi sino a diventare un vero e proprio disturbo. Il disturbo da panico è dato, appunto, dalla
comparsa di attacchi di panico inattesi e ripetuti, cui seguono, per un lasso di tempo non inferiore ad
un mese, costanti preoccupazioni circa la possibilità di avere nuovi attacchi, innescando in tal modo
una spirale di sensazioni e comportamenti che aggravano la situazione. Da un lato, infatti, non
potendo prevedere quando comparirà l’attacco, il soggetto sviluppa una crescente ansia relativa a
quando e dove potrebbe avvenire. Dall’altro, tenderà ad evitare i luoghi o le situazioni in cui sono
già stati sperimentati gli attacchi.
CCOOMM EE RREEAAGGII RREE DDUURRAANNTTEE UUNN AATTTTAACCCCOO DDII PPAANNII CCOO Dal momento che un attacco di panico acuto può durare anche per decine di minuti o lasciare strascichi nelle ore successive alla sua comparsa, risulta fondamentale saperlo gestire correttamente, acquisendo alcuni comportamenti che ne limitino la durata e gli effetti negativi.
1. Dato che l’attacco di panico consiste in uno stato d’allarme non giustificato da una situazione reale di pericolo, uno degli elementi chiave nella sua gestione è il blocco della risposta dell’organismo a tale “falso” allarme. Subito dopo il verificarsi dell’attacco può perciò essere utile controllare la respirazione, respirando in maniera lenta e profonda (ad esempio, immaginando di seguire il ritmo di un metronomo o di un pendolo) oppure respirando in un sacchetto di carta, manovra che permetterà di evitare l’alcalosi respiratoria (responsabile delle sensazioni fisiche negative quali tremori, formicolii, tachicardia, ecc.) anche in presenza di una respirazione frequente e superficiale perché farà sì che la persona respiri sempre la sua stessa aria.
2. Un’ulteriore raccomandazione è di evitare l’assunzione di tranquillanti benzodiazepinici nella fase iniziale dell’attacco: questi farmaci ansiolitici iniziano a funzionare 15-20 minuti dopo l’assunzione, quando, nella maggior parte dei casi, l’attacco è già cessato da solo. Tale tipologia di farmaci è utile solo se l’attacco si protrae a lungo (almeno 45 minuti) e le manovre respiratorie appena descritte non hanno prodotto risultati soddisfacenti.
3. Infine, dal momento che l’attacco di panico rappresenta un “falso allarme”, ossia non è sintomatico di alcun rischio effettivo, conoscere la natura di questo disturbo può aiutare a evitare l’innesco della paura di avere qualche malattia grave (ictus, infarto, ecc.) capace di amplificare l’attacco stesso.
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2.3 Fobie specifiche - Le fobie specifiche, o semplici, consistono in paure marcate, persistenti,
irragionevoli o eccessive relative a stimoli precisi o situazioni circoscritte. Esempi comuni possono
essere la paura per certi animali (cani, gatti, topi, pipistrelli, ecc.), per determinati ambienti
(ascensore, aereo, ecc.), per particolari situazioni. Perché tali fobie si possano considerare
clinicamente significative è comunque necessario che l’interessato sia conscio dell’irrazionalità
della sua paura, e che nonostante ciò, non riesca a dominarla; inoltre, che ricavi da tale fobia
importanti compromissioni nella propria vita sociale, lavorativa o familiare. Moltissime persone, ad
esempio, hanno paura di volare in aereo, ma ciò non comporta che qualche restrizione nelle loro
possibilità di spostamento. In questi casi non si può parlare di fobia vera e propria; sarebbe, invece,
corretto farlo se riguardasse un pilota, inducendolo a compromettere o abbandonare la sua carriera.
2.4 Fobie sociali - La fobia sociale si caratterizza come una marcata e persistente paura
relativa a una o più situazioni “sociali” o “prestazionali” (cioè situazioni dove è richiesta una
performance che possa implicare una valutazione o una critica da parte altrui). Il soggetto teme di
non sapersi comportare adeguatamente davanti a persone non familiari, di provare sentimenti di
vergogna o imbarazzo, di essere criticato o giudicato negativamente. Ne consegue che le situazioni
sociali e prestazionali temute vengono evitate o, nei casi meno gravi, vengono sopportate con
notevole sofferenza. Ad esempio, le persone con questo disturbo possono evitare di mangiare, bere,
o scrivere in pubblico per paura che gli altri notino il tremore alle mani. Le persone interessate da
questo disturbo possono presentare forti reazioni a carico del sistema nervoso autonomo nelle
situazioni sociali temute: possono provare violente manifestazioni di rossore, di sudorazione, di
malessere gastrointestinale, di diarrea. Oltre all’ansia provata durante l’esposizione alla situazione
sociale temuta, può verificarsi una marcata ansia anticipatoria:ad esempio, la persona comincia a
preoccuparsi varie settimane, giorni, ore prima dell’evento sociale o prestazionale difficilmente
evitabile (matrimonio di un fratello, esame universitario, colloquio di lavoro, ecc.). Può, inoltre,
crearsi un circolo vizioso: ansia anticipatoria che determina un atteggiamento di apprensione e
sintomi d’ansia, che determinano una prestazione effettivamente scadente o imbarazzante, che
determina successivamente una maggior ansia anticipatoria relativa a quell’evento. Anche in questo
caso, perché tali fobie possano ritenersi clinicamente significative è necessario che l’interessato sia
conscio dell’irrazionalità delle sue paure, e che ciò nonostante, non sia in grado di dominarle;
inoltre, che tali fobie risultino invalidanti sul piano dei rapporti con gli altri, interferendo con le
normali attività lavorative, scolastiche o con la capacità di fare e mantenere rapporti amicali. Ad
esempio, moltissimi studenti provano una forte paura prima di una verifica, ma riescono comunque
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a tollerarla; diverso è il caso di quegli studenti che non riuscendo a sopportare la tensione
antecedente agli esami si vedono costretti ad abbandonare gli studi.
UUNN PPAARRTTII CCOOLL AARREE CCAASSOO DDII FFOOBBII AA SSOOCCII AALL EE:: LL AA FFOOBBII AA PPEERR LL AA SSCCUUOOLL AA La fobia per la scuola rappresenta una condizione diffusa tra bambini e ragazzi di tutte le età: la sua intensità
può variare dalla manifestazione di disturbi somatici fino al totale abbandono della scuola. In ogni caso il
rendimento scolastico ne risulta profondamente compromesso, a prescindere dalle abilità cognitive possedute.
Il soggetto che viene classificato con l’espressione di “fobico per la scuola”, presenta notevoli alterazioni
all’interno di tre universi di risposte: cognitive, motorie e somatiche. I disturbi somatici più segnalati sono
inappetenza, nausea, vomito, diarrea, cefalee, vertigini, dolori addominali, ecc. che si manifestano nel periodo
precedente l’inizio della giornata scolastica o durante la permanenza in classe del soggetto. A tali disturbi
somatici si associa sempre una forte resistenza a recarsi a scuola (disturbi motori ), che talvolta può assumere
forme di vera e propria ribellione, costringendo i genitori - non educati al trattamento di questo disturbo - ad
adottare maniere brusche. I disturbi cognitivi , infine, riguardano prevalentemente pensieri legati alla possibile
perdita dei genitori, specialmente durante il periodo iniziale, e ricorrenti timori che eventi negativi si possano
verificare all’interno del contesto scolastico.
Sembra che tale disturbo sorga prevalentemente all’interno di tre diversi segmenti d’età: 5-6 anni, 11-12
anni, e 13-14 anni e che non vi siano sostanziali differenze tra maschi e femmine. Attualmente, si è soliti
distinguere quattro diverse forme di fobia per la scuola (Yule et al., 1980). La prima, nota come ansia da
separazione, colpisce prevalentemente gli allievi che frequentano la prima classe della scuola materna o della
scuola elementare. La seconda tende a colpire bambini vulnerabili a seguito di un cambiamento, piuttosto
rilevante, che si verifica nella loro routine scolastica. Generalmente, il problema viene accentuato dall’ansia che
si propaga in tutto il sistema familiare, che dimostra difficoltà a confrontarsi serenamente con questo tipo di
situazioni. La terza forma di fobia si manifesta per la prima volta in preadolescenti e adolescenti (9-10 anni), ed
è quella più preoccupante, potendo essere un segnale di un successivo stato di depressione o, tal volta, addirittura
di schizofrenia. In ultimo, vi è una quarta forma , erroneamente associata alla fobia, che va sotto il nome di
rifiuto per la scuola e che consiste in un’assenza prolungata per un periodo di tempo inferiore alle due settimane.
In genere, questo problema è facilmente governabile e non costituisce segnale di problemi più seri.
Tra le terapie psicoterapeutiche dimostratesi efficaci nel trattamento delle fobie scolastiche, si ritiene che
quelle comportamentali (in particolare il paradigma del condizionamento operante) siano preferibili, oltre che
per la loro rapidità ed efficacia, anche perché facili da gestire da genitori e insegnati. Le strategie che si fondano
su questo paradigma mirano a modificare le contingenze di rinforzo, che influenzano il comportamento del
soggetto. Ciò, da un lato, implica massimizzare gli incentivi quando il soggetto si reca a scuola, rimanendovi per
periodi via via più lunghi; dall’altro, ridurli quando decide, invece, di rimanere a casa. Alcune delle istruzioni
solitamente impartite ai genitori sono: a) non parlare in famiglia o col bambino dell’andare a scuola; b) non
dare rilevanza ai disturbi fisici del bambino; c) non chiedergli come si sente, perché sta male o perché non
vuole andare a scuola; d) non spingerlo ad andare a scuola minacciando punizioni; e) la mattina svegliarlo e
chiedergli solo se vuole andare a scuola o no: nel primo caso preparalo, nel secondo caso non insistere; f) ogni
volta che il bambino accetta di andare a scuola, in qualunque momento e per qualunque durata di tempo,
complimentarsi con lui concedendogli qualcosa a lui molto gradita e che difficilmente può ottenere.
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2.5 Disturbo post-traumatico da stress (PTSD) - Eventi estremamente traumatici, quali gravi
incidenti automobilistici, terremoti, naufragi, incendi, guerre, violenze, torture, abusi, ecc.,
provocano una fortissima reazione d’ansia (definita come “stress estremo”) nel soggetto. Durante o
dopo l’esposizione a questi stimoli traumatici possono presentarsi stimoli dissociativi, quali:
sensazione soggettiva di instabilità, depersonalizzazione, derealizzazione, assenza di
reattività emozionale, distacco,stordimento e diminuzione della consapevolezza dell’ambiente
circostante, amnesia dissociativa. Uno sintomo caratteristico è il continuo rivivere l’evento
stressante. Il soggetto ha ricordi dell’evento ricorrenti e intrusivi, che includono immagini, pensieri,
percezioni e sogni durante i quali si ripete l’accaduto. Più raramente la persona giunge a vivere stati
dissociativi, che durano da pochi secondi a ore o giorni, durante cui vengono rivissute parti
dell’evento e il soggetto agisce e si sente come se la situazione traumatica si stesse
effettivamente ripetendo, o avverte sensazioni di rivivere l’accaduto (allucinazioni uditive e/o
visive, illusioni, episodi dissociativi di “flash back”, ecc.). Generalmente, il soggetto sperimenta
disagio psicologico e reattività fisiologica all’esposizione di stimoli che rassomigliano, per qualche
aspetto, a quello traumatico. Di regola, vengono evitati in maniera sistematica tutti gli stimoli
connessi al trauma, come luoghi, persone, situazioni, pensieri, sensazioni, ecc. La persona, inoltre,
presenta stimoli persistenti di ansia o aumento dell’arousal (attivazione): difficoltà di addormentarsi
e mantenere il sonno, incubi durante cui viene rivissuto l’evento traumatico, risposte di allarme
esagerate, ipervigilanza, irritabilità e scoppi d’ira, difficoltà a concentrarsi e ad eseguire compiti.
Solitamente dopo l’evento traumatizzante si ha una diminuzione di reattività verso l’esterno,
definita tecnicamente paralisi psichica o amnesia emozionale, consistente nella diminuzione di
interesse per attività prima gradite, in sentimenti di distacco verso gli altri, nella riduzione della
capacità di provare emozioni, in un indebolimento delle prospettive future. In alcuni casi, con il
giusto sostegno e aiuto, tale sintomatologia può risolversi favorevolmente in un tempo piuttosto
breve (circa un mese). In altri casi, invece, la sintomatologia può interferire con la capacità
dell’individuo di attivare le sue difese personali, di riferire l’accaduto ai familiari, di cercare e
ottenere il necessario aiuto e sostegno, e di eseguire compiti fondamentali, causando un disagio
clinicamente significativo: si parla in questi casi di disturbo acuto da stress nelle quattro settimane
successive al trauma e di disturbo post traumatico da stress quando i sintomi persistono oltre il
mese.
2.6 Disturbo ossessivo-compulsivo (DOC) - Resta infine da considerare il disturbo ossessivo-
compulsivo, che ha caratteristiche a se stanti e che s’inquadra a fatica tra gli altri disturbi ansiosi. Le
ossessioni sono, infatti, un fenomeno specifico che non va confuso con le preoccupazioni che
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possono spesso accompagnare i fenomeni d’ansia. Le ossessioni sono pensieri, impulsi o immagini
mentali persistenti, che provocano ansia o disagio e che sono vissuti dal soggetto come
inappropriati e intrusivi. La persona interessata cerca di allontanare tali pensieri o, alla meno
peggio, di “neutralizzarli” attraverso altri pensieri o immagini. Nel caso delle ossessioni, il soggetto
è perfettamente conscio che tali pensieri sono frutto della sua fantasia, percependone il senso di
estraneità, e proprio per questo fa di tutto per allontanarli dalla sua mente. Le ossessioni sono quindi
“ego-distoniche”, intendendo con ciò che sono generalmente contrarie alle convinzioni più radicate
della persona che ne soffre: ad esempio, pensieri aggressivi verso una persona per cui si prova
amore, o ancora pensieri blasfemi fatti da una persona profondamente credente, ecc. Il termine
compulsione associato alle ossessioni, sta ad indicare che la persona per ridurre il disagio che
accompagna un’ossessione o qualche evento temuto, mette in atto dei “comportamenti ritualistici”
immotivati, detti appunto compulsivi. Almeno da ragazzi, quasi tutti hanno sperimentato un periodo
in cui hanno coltivato qualche piccolo rituale che aiutasse ad attenuare qualche stato d’ansia. E non
sono poche le persone che prima di uscire di casa controllano più volte il gas. In genere, finisce
tutto qui. Per chi soffre di DOC, invece, queste attività possono letteralmente occupare tutta la
giornata, rendendo stressante anche l’attività più banale. La persona si rende conto
dell’irragionevolezza di tali comportamenti e si sforza di limitarli, ma senza successo. Le
compulsioni più comuni sono quelle relative alla pulizia e decontaminazione (ad esempio, lavarsi
ripetutamente le mani) e quelle connesse al controllo e ricontrollo (ad esempio, allineare e
riordinare; controllare ripetutamente la manopola del gas, ecc.). Perché le ossessioni e compulsioni
siano diagnosticabili come clinicamente significative devono provocare un marcato disagio,
occupando per lo meno un’ora al giorno, oltre che interferire con le normali abitudini e attività del
soggetto, con il funzionamento scolastico o lavorativo, e con le relazioni sociali dell’interessato.
3. CONDIVIDERE L’ANSIA: IL PRIMO PASSO PER SUPERARLA
Quale che sia la forma che l’ansia assume, essa è spesso accompagnata da una sensazione che,
in genere, non fa parte del disturbo in se stesso, ma ne è una conseguenza. Si tratta di un senso di
isolamento che dopo un po’ accompagna l’ansioso, sia che si ritiri in casa per evitare tutte le
possibili fonti di stress, sia che cerchi di condurre una vita apparentemente normale. Il
percepirsi come un caso “anomalo”, è un’esperienza comune a coloro che soffrono di questi
disturbi. Alla base di tale disagio possono esservi, senza dubbio, i preconcetti ancora diffusi verso
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tutto quello che riguarda il disturbo psichico, ma talvolta anche la difficoltà di far comprendere, agli
stessi familiari e amici, i propri problemi.
Una difficoltà questa, che può creare a sua volta altri problemi di tipo relazionale: per fare un
esempio apparentemente banale, come può una persona che soffre di attacchi di panico con
agorafobia spiegare che se si rifiuta sistematicamente di andare a cena o al cinema, non è per
antipatia o per cattivo carattere?
Un utile strumento per superare questa situazione di isolamento sono i gruppi auto-aiuto, ossia
gruppi auto-gestiti di persone, che soffrendo dello stesso disturbo, hanno scoperto che per guarire è
indispensabile condividere le proprie sensazioni. Ispirandosi al modello originariamente creato
dall’anonima alcolisti (A. A), tali gruppi prevedono la frequenza a riunioni dove chi lo desidera
può raccontare agli altri partecipanti come sta affrontando il suo problema. Queste forme di contatto
non possono ovviamente sostituire lo specialista, ma la frequentazione di altre persone che vivano
lo stesso disagio risulta già, di per sé, un efficace forma di aiuto, e questo sia perché rompe
l’isolamento facendo sentire che si può comunicare i problemi vissuti, sia perché permette di
apprendere le strategie di sopravvivenza di chi ha precedentemente vissuto lo stesso calvario. Nel
box qui di seguito viene riportata la Scala di William Zung , un utile test per l’auto valutazione
dell’ansia.
SCALA “Z UNG” PER L’AUTOVALUTAZIONE DELL ’ANSIA In che misura ciascuna delle frasi sotto riportate descrive come ci si è sentiti nel corso dell’ultima settimana? Segnare un punto se la risposta è MAI, due se è TALVOLTA, tre per SPESSO, quattro per SEMPRE. Il punteggio va invertito per gli item 5, 9, 17, 19.
MAI TALVOLTA SPESSO SEMPRE
1. Mi sento più nervoso e ansioso del solito
2. Mi sento impaurito senza alcun motivo apparente
3. Mi spavento facilmente o sono preso dal panico 4. Mi sento a pezzi e mi sembra di stare per crollare 5. Mi sembra che tutto vada bene e che non capiterà nulla di male
6. Mi tremano braccia e gambe 7. Sono tormentato da dolori alla testa, collo e schiena 8. Mi sento debole e mi stanco facilmente 9. Mi sento calmo e posso stare seduto facilmente 10. Sento che il mio cuore batte veloce 11. Soffro di vertigini 12. Mi sembra di stare per svenire 13. Respiro con difficoltà 14. Ho sensazioni di intorpidimento e formicolio a mani e piedi
15. Soffro di mal di stomaco o di indigestione 16. Faccio spesso pipi 17. Le mie mani in genere sono asciutte e calde 18. La mia faccia diventa facilmente calda e arrossata 19. Mi addormento facilmente e mi sveglio riposato 20. Ho degli incubi
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4. LO STRESS
Tutti conoscono, o almeno pensano di conoscere, il significato del termine"stress". Nel
linguaggio comune assume il senso di tensione, ansia, preoccupazione, senso di malessere diffuso
associato a conseguenze negative per l'organismo e per lo stato emotivo e mentale dell'individuo.
In generale, lo stress viene definito come:
• stimolo nocivo, fastidioso, comunque negativo per il soggetto che lo avverte;
• risposta fisiologica e/o psicologica specifica;
• specifico tipo di rapporto tra soggetto e ambiente.
In effetti, con il termine “stress” si indica la "risposta biologica aspecifica dell’organismo" a
qualsiasi richiesta ambientale, mentre con l’espressione “stressori” ci si riferisce ai vari tipi di
stimoli (o fattori) che suscitano tale reazione. Gli stressori possono essere fattori gravi (ad esempio,
la morte di un familiare), fattori minori (ad esempio, il doversi spostare nel traffico urbano), o
fattori acuti (ad esempio, un ambiente di lavoro ostile).
La risposta biologica aspecifica, detta anche sindrome generale di adattamento, si compone di
tre diverse fasi:
• Fase di allarme, durante cui si mobilitano le energie difensive (innalzamento della
frequenza, della pressione cardiaca, della tensione muscolare, diminuzione delle secrezione
salivare, aumentata liberazione di cortisolo, ecc.).
• Fase di resistenza. In questa fase, invece, l'organismo tenta di adattarsi alla situazione
stressante e gli indici fisiologici tendono a normalizzarsi anche se lo sforzo per raggiungere
l'equilibrio è intenso.
GRIGLIA DI CORREZIONE
ü Se si sono totalizzati 20 punti, siamo decisamente poco ansiosi.
ü Se si sono totalizzati tra i 21 e i 40 punti il nostro grado d’ansia risulta ottimale.
ü Se si sono ottenuti tra i 41 e i 60 punti il nostro livello di ansia risulta moderato, ma sarebbe comunque
consigliabile ridurlo.
ü Se il risultato ottenuto oscilla tra i 61 e gli 80 punti, il problema merita attenzione clinica, per cui
sarebbe opportuno rivolgersi a gruppi di sostegno e ad uno specialista.
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• Fase di esaurimento. Se la condizione stressante continua, oppure risulta troppo intensa, si
entra in quest’ultima fase, in cui l'organismo non riesce più a difendersi e la naturale
capacità di adattarsi viene a mancare. In questa fase si assisterà alla comparsa di "malattie
dall'adattamento" rappresentate per esempio, dal diabete o dell'ipertensione arteriosa.
Come l’ansia, anche lo stress ha un carattere fondamentalmente positivo. Tale meccanismo,
infatti, consente all’organismo di far fronte a nuove e più impegnative sollecitazioni ambientali.
Questa condizione, entro certi limiti, costituisce, dunque, una parte inevitabile e talora necessaria
della vita di qualunque individuo.
QUANDO LA SCUOLA DIVENTA FONTE DI STRESS
Lo stress scolastico risulta caratterizzato, per quanto riguarda le sue fonti, da tutti gli eventi che si possono
verificare nell’ambito della scuola, siano essi connessi alle attività di apprendimento che al sistema di rapporti
interpersonali.
Tale delimitazione delle fonti di stress, non implica che le manifestazioni di disagio negli studenti dipendano
unicamente da variabili connesse al contesto scolastico.
Fattori addizionali, estranei al contesto di classe, possono infatti incrementare i livelli negativi di risposta nei
confronti della scuola e delle sue molteplici attività. Le reazioni allo stress scolastico, d’altro canto, non sono poi
molto differenti rispetto a quelle che accompagnano ogni esperienza stressante (manifestazioni emozionali,
fisiologiche e comportamentali). Gli eventi scolastici che lo studente percepisce come minacciosi per la propria
sicurezza, autostima o stile di vita, attivano dei processi di riadattamento regolati dai seguenti fattori (Phillips,
1978):
a) Grado di minaccia attribuito all’evento,
b) Stima delle risorse personali disponibili,
c) Condizioni legate al contesto.
Questo concorre a determinare modificazioni a livello psicologico e fisiologico. Le possibili alterazioni del
funzionamento individuale a carico dell’adattamento scolastico inducono lo studente, secondo un modello di
circolarità causale, a sviluppare particolari atteggiamenti nei confronti delle future situazioni, e queste
tenderanno facilmente ad acquisire un significato stressante.
Come anticipato, giocano un ruolo sfavorevole per l’adattamento e il rendimento scolastico, anche fattori
esterni alla scuola. Il sistema familiare, ad esempio, in funzione di alcune sue caratteristiche strutturali (quali
rigidità, confusione di ruoli, ecc.) può rispondere male alle pressioni che gravano sui singoli dall’esterno,
accentuando o vanificando i loro sforzi nel resistervi.
Alcuni fattori connessi al funzionamento della famiglia (scarsa comunicazione, scarsa coesione,
disorganizzazione, ecc.), sono piuttosto connessi allo stress scolastico dei ragazzi. Infine, tra le variabili
personali connesse alla percezione della scuola e dell’adattamento scolastico, un posto di rilievo tocca al
concetto che lo studente ha di se stesso.
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Di fronte ad un qualsiasi stimolo percepito come minaccioso o, comunque, emozionante, il
cervello invia un segnale alle ghiandole surrenali, che immediatamente mettono in circolazione le
catecolamine, cioè adrenalina e noradrenalina, e cortisolo. Queste sostanze provocano una serie di
effetti biologici che aiutano la persona ad affrontare in maniera appropriata la situazione. Lo
schema generale, nei primi istanti, è quello della risposta a uno spavento ed a uno stato di allerta:
occhi sgranati, cuore che batte forte per pompare più sangue, mal di pancia (per i muscoli viscerali
che si contraggono), fiatone per l’aumento del consumo di energia e ossigeno.
Una prolungata persistenza di questo stato emotivo, tuttavia, fa perdere a tale meccanismo la sua
valenza adattiva (eustress) e lo rende un vero e proprio ostacolo per l’individuo (distress). Infatti,
dopo tre mesi di pressione da parte di qualcuno o qualcosa che cambia il nostro quadro di
riferimento, l’eustress viene sopraffatto dal distress e dopo un altro po’ ci si può anche ammalare
gravemente; l’aumento di cortisolo in circolazione (prodotto dalle ghiandole surrenali insieme alle
catecolamine), si trasforma in una minaccia per il funzionamento del sistema nervoso e di quello
immunitario. L’eccesso di stimoli sul battito del cuore e sulla circolazione del sangue si
cronicizzano, e l’intero organismo tende a soccombere e a stare male.
In base a quanto detto sinora, risulta chiaro che lo stress, anche quando i suoi livelli siano
eccessivamente elevati, non va eliminato, ma ridotto o, per meglio dire, “gestito”.
Eliminare lo stress risulta, infatti, un obbiettivo irrealistico: le presone vivono in situazioni
concrete e sono in grado di modificare queste situazioni solo entro certi limiti (ad esempio, morte di
un familiare, divorzio, malattie gravi, licenziamento dal lavoro, ecc.); inoltre, una totale assenza di
stress può essere a sua volta estremamente dannosa, portando l’individuo all’inefficacia e all’inerzia
mentale.
ECCITAZIONE POSITIVA DA “ STRESS”
O EUSTRESS
BASSO GRADO DI STRESS
ALTO GRADO DI STRESS
O DISTRESS
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Per riuscire a gestire lo stress, esistono fondamentalmente due categorie di soluzioni possibili: in
alcuni casi, sono necessari dei cambiamenti esterni, ossia relativi all’ambiente; in altri casi bisogna
invece effettuare dei cambiamenti interni, ossia dobbiamo cambiare qualche aspetto di noi stessi.
Quando si rendono necessari cambiamenti esterni e modificazioni ambientali, può essere
necessario prendere decisioni importanti, allontanarsi da situazioni divenute troppo stressanti e fare
i passi appropriati a questo fine. Alcuni esempi si possono trovare nella vita familiare e affettiva: la
decisione di un figlio di andare ad abitare da solo, una relazione affettiva che si deve chiudere, ecc.
Altri esempi possono poi riguardare la sfera lavorativa e la rete sociale: la decisione di licenziarsi e
trovarsi un nuovo lavoro, la decisione di lasciare un ambiente sociale compromesso, abbandonando
la propria abitazione o addirittura il proprio paese, ecc. Più banalmente, si può essere scivolati in
abitudini e carichi di lavoro eccessivi senza accorgersene e bisogna rimettere in discussione le
priorità di valore delle proprie attività e della propria gestione del tempo. In questo caso i sintomi
di stress che avvertiamo assolvono il loro compito, avvertendoci che qualcosa non va nel nostro
equilibrio di vita, prima che la situazione deteriori. Lo psicologo in questi casi interviene
generalmente con un lavoro di approfondimento psicodiagnostico e di successivo counseling.
Quando servono cambiamenti interni, invece, non bisogna agire tanto su fattori ambientali ed
abitudini, quanto sul modo di vedere le cose ed il modo di rispondere emotivamente a fattori ed
eventi stressanti. Gli psicologi clinici parlano a questo proposito di ristrutturazione cognitiva ,
denominazione che abbraccia molti approcci terapeutici aventi come comune denominatore l’idea
che i sistema di convinzioni della persona sia fondamentale per il cambiamento e che la persona
possa essere aiutata a riconoscere e modificare eventuali aspetti irrazionali o disfunzionali del
proprio modo di pensare abituale. Altre tecniche di gestione dello stress sono poi volte alla
riduzione del livello di attivazione, mediante l’acquisizione, da parte del paziente, delle capacità di
ottenere volontariamente uno stato di rilassamento profondo. Tale tipo di rilassamento può essere
raggiunto con numerose e diverse tecniche. Quelle maggiormente impiegate dagli psicologi sono
sostanzialmente quattro.
• Il rilassamento muscolare progressivo (Jacobson, 1938), consistente in un insieme di
esercizi di contrazione e distensione di numerosissimi gruppi muscolari. Le sedute
necessarie per produrre risultati apprezzabili si aggira intorno alle 50 unità, anche se sono
disponibili varie “forme abbreviate”, che consentono lapprendimento del rilassamento
muscolare progressivo in 4-6 sedute.
• Il training autogeno, consta di esercizi che portano il soggetto a produrre sensazioni di
pesantezza e calore alle estremità, di calore alla regione addominale, di freschezza alla
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fronte e di regolazione dell’attività respiratoria e cardiaca. Nella sua applicazione standard,
il paziente viene incoraggiato ad assumere un atteggiamento mentale di concentrazione
passiva: mantenendo occhi chiusi, la persona si lascia guidare dal trainer lungo il percorso
dei sei diversi gruppi di esercizi, detti “inferiori”.
• L’ ipnosi viene metodicamente impiegata da oltre un secolo sia per l’induzione del
rilassamento che per certe terapie di natura psicofisiologia. Lo stato ipnotico comporta
importanti modificazioni neurofisiologiche simili ad alterazioni dello stato di coscienza.
Tale tecnica, in questo contesto, avrebbe lo scopo di operare una destrutturazione del
sistema di convinzioni dell’individuo, aprendo la strada ad un successivo processo di
ristrutturazione.
• Il biofeedback, infine, consiste nell’uso della moderna strumentazione psicofisiologia per
fornire all’individuo informazioni immediate ed estremamente precise su variazioni di
processi dell’organismo quali temperatura cutanea periferica, attività elettrica cerebrale,
frequenza cardiaca, pressione arteriosa, attività elettrodermica, attività mioelettrica. Tale
tecnica si fonda sul presupposto che il fornire al soggetto momento per momento
informazioni relative ai suoi indici fisiologici, possa aiutarlo a meglio controllare le
funzioni connesse all’indice in oggetto.
5. IL DISTURBO DA DEFICIT ATTENTIVO CON IPERATTIVITA` (ADHD)
Il disturbo da Deficit Attentivo con Iperattività (ADHD, acronimo per l’inglese Attentino
Deficit Hyperactivity Disorder – classificazione DSM IV) è una delle patologie psichiatriche più
importanti e frequenti, ad esordio in età evolutiva: in Nord America circa il 50% dei pazienti riferiti
alla psichiatria infantile ricevono questa diagnosi. In Europa, ed in particolare in Italia, l’utilizzo di
differenti classificazioni dei disturbi psichici de termina una sottostima del disturbo, tanto che
raramente viene diagnosticato e ancor più raramente trattato in maniera efficace.
Si tratta di un disturbo neuro-biologico, che interessa la corteccia frontale e quella dei nuclei
della base e che determina un’alterazione nell’elaborazione della risposta agli stimoli ambientali, la
cui eziologia è sconosciuta. Come abbiamo visto sono da valutare fattori biologici, ma anche
influenze genetiche, mentre fattori sociali, stile di vita, assunzione di alimenti possono essere
considerati concause e possono indurre un peggioramento della patologia.
Origina in età prescolare, può determinare una predisposizione ad altra patologia psichiatrica.
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Criteri diagnostici
a) Presenza di sei o più sintomi di inattenzione da più di sei mesi
b) Esordio prima dei 7 anni
c) Presenza del disturbo in più contesti
d) Compromissione significativa del funzionamento complessivo del soggetto
Il disturbo può evidenziarsi come prevalentemente:
• Inattentivo
• Iperattivo
• Misto
Il DSM IV prevede 9 sintomi di Inattenzione, 6 sintomi di Iperattività, e 3 sintomi di
Impulsività :
Possono essere associati altri disturbi psichiatrici, in particolare il Disturbo Oppositivo
Provocatorio e il Disturbo della Condotta. Tutti i bambini possono presentare alcuni dei suddetti
disturbi. I bambini ADHD li presentano in modo pervasivo e persistente in tutti i contesti.
Aspetti di cui si richiede agli insegnanti per arrivare, se essi sono presenti, ad una diagnosi di ADHD
1. Difficoltà di attenzione nei dettagli 2. Agita le mani e i piedi quando è seduto 3. Difficoltà a mantenere l’attenzione 4. Non riesce a stare seduto 5. Quando gli si parla sembra non ascoltare 6. E’ irrequieto e corre ovunque 7. Non segue le istruzioni ricevute 8. Difficoltà in attività tranquille 9. Difficoltà ad organizzare il lavoro 10. E’ in continuo movimento 11. Non si impegna in attività prolungate 12. Parla eccessivamente 13. Perde oggetti necessarie per le attività 14. Risponde precipitosamente 15. Distratto da stimoli esterni 16. Difficoltà ad aspettare il turno 17. Dimentica di fare le cose 18. E’ invadente con le altre persone
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Modificazioni cliniche età-correlate:
a) Infanzia
• Iperattività
• Aggressività
• Impulsività
• Distraibilità
b) Adulti
• Inattenzione
• Facile senso di noia
• Impazienza
Quando un bambino viene diagnosticato come ADHD, nel 60% dei casi il disturbo è ancora
presente nell’adolescente e nel 15-50% nell’adulto.
All’esordio, il soggetto risulta caratterizzato da bassa autostima e da disturbo oppositivo
provocatorio. Man mano che si avvicina all’adolescenza si aggiungono difficoltà nelle relazioni
sociali, difficoltà scolastiche, variabilità d’umore, comportamento sfidante, comportamento
antisociale, nell’età adulta il disturbo e predittivo di abuso di sostanze, ritiro scolastico, disturbi di
condotta.
Le cause possono riferirsi a:
• Alterazioni neuroanatomiche e nella trasmissione neuronali (neurotrasmettitori sistema
dopaminergico e noradrenergico)
• Vulnerabilità genetica (ereditarietà)
• Danni cerebrali (danno neurale minimo)
• Fattori di rischio ambientali
o Fattori sociali
o Stili di vita (sono da evitare le iperstimolazioni, diminuendo il tempo di attenzione del
bambino)
o Intolleranze alimentari (coloranti e additivi)
Neuropsicopatologia ADHD le compromissioni sono a livello delle:
• Funzioni esecutive nel loro insieme
• Livelli di attenzione
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• Risposte inibitorie
• Organizzazione e pianificazione delle attività
La diagnosi deve essere clinica specialistica e si basa su:
• Anamnesi accurata
• Osservazione del bambino in contesti diversi
Non esistono esami diagnostici. Esistono invece delle Rating Scale per valutare i livelli di
compromissione.
Protocollo diagnostico:
• Anamnesi e raccolta di informazioni da fonti multiple Genitori, Pediatra, Insegnanti,
Assistenti
• Assessment dello sviluppo psicomotorio, cognitivo, del linguaggio e dei diversi livelli di
funzionamento mentale
• Esame medico generale
• Valutazione neurologica (segni cerebrali minimi)
• Valutazione comorbilità associate
• Esami sieroematici e strumentali (solo sulla base di specifici sospetti diagnostici, sempre
prima di terapia farmacologica)
Patologie associate:
• Disturbi sensitivi
• Effetti indesiderati da farmaci
• Epilessia
• Patologia tiroidea
• Ascessi o neoplasie del lobo frontale
• Abuso di sostanze
Comorbilità psichiatriche:
• Disturbo oppositivo provocatorio 40%
• Disturbi dell’umore depressione 4%
• Disturbi di condotta 14%
• Ansia 34%
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• Tic, sindromi ticcose, disturbo di Tourette 11%
Diagnosi differenziale
• Vivacità fisiologica
• Problemi situazionali, ambientali
• Inadeguato supporto scolastico
• Alterato supporto ambientale, sociale, familiare (ambiente caotico)
• Divorzio, abbandono
Interventi terapeutici prevedono un Intervento combinato multidimensionale:
• Psicoeducativo
• Educativo comportamentale
• Modificazione ambiente
o Fisico
o Sociale
• Farmacologico, La terapia farmacologia si è servita di alcune classi di farmaci:
o Sedativi
o Neurolettici
o Antidepressivi
Allo stato attuale si usano soprattutto psicostimolanti, in particolare il metilfenidato, che induce
attivamente delle attività stimolanti del sistema dopaminergico e noradrenengico. Agisce a livello
delle sinapsi, inibendo selettivamente il reuptake della dopamina e della noradrenalina. In altre
parole, impedisce che questi neurotrasmettitori - rilasciati durante la trasmissione sinaptica -
vengano ricaptati all’interno dei neuroni e li fa permanere per un tempo ed in una
quantità maggiore nello spazio intersinaptico: una maggiore presenza di neurotrasmettitori favorisce
un’attività stimolante a livello della corteccia frontale. Agisce dopo un giorno, ed è efficace su una
buona parte dei pazienti, tuttavia ha, tra gli effetti collaterali, effetti di tipo anfetaminico (perdita di
appetito diminuzione di ore di sonno diminuzione dei tempi di reazione) per questo va usato sotto
controllo di un medico psichiatra.
Una nuova molecola l’atomoxetina, già registrata negli USA, è in fase avanzata di studio in
Italia. Essa deriva dalla modificazione di un antidepressivo triciclico e determina una modificazione
dei recettori di membrana del neurone, determinando una normalizzazione a livello
neurotrasmettitoriale. Gode di una efficacia pari al precedente, non ha effetti collaterali di
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anfetaminico, ma il suo effetto si realizza dopo quattro settimane di trattamento e permane per nove
mesi dopo la fine del trattamento.
La decisione di far ricorso alla terapia farmacologica dipende da:
• Severità dei sintomi
• Presenza di comorbilità psichiatrica
• Consenso dei genitori
• Risultati negativi di precedenti interventi psico-edicativi
Interessante uno studio effettuato sulla Memoria di Lavoro: si è osservato che i bambini ADHD
tendono ad avere un basso punteggio nei compiti di memoria se alle preposizioni da memorizzare
vengono aggiunte informazioni irrilevanti, mentre hanno punteggi normali se le preposizioni
contengono solo informazioni essenziali.
In un altro studio, compiuto negli USA sulla popolazione carceraria, si è osservato che oltre il
50% dei soggetti condannati per reati gravi presenta sintomi ADHD.
6. RICHIAMO DI FARMACOTERAPIA
Per quanto attiene il disturbo d’ansia e fobia sociale le esperienze prodotte in letteratura
scientifica su pazienti in età evolutiva con l’uso di farmaci, soprattutto per quanto riguarda le
benzodiazepine (BDZ) e gli antidepressivi (ADT) triciclico sono molto limitate, spesso non
controllate verso placebo, con breve follow-up e con dimensione esigua dei pazienti reclutati. Sia le
BDZ che le ADT non sembrano essere efficaci sul miglioramento dei sintomi di ansia generalizzata.
Gli inibitori del reuptake della serotonina (SRRI) come la sertalina, la fluvoxamina e la
fluoxetina godono invece di studi randomizzati e controllati e la fluvoxamina (la prima approvata
per un uso pediatrico) è risultata efficace alla dose massima di 300 mg in bambini ed adolescenti
affetti da fobia sociale, ansia da separazione e disturbo d’ansia generalizzato. Il farmaco è risultato
ben tollerato ed il maggior limite dello studio è la brevità del periodo di follow-up (otto settimane),
l’efficacia delle terapie andrebbe valutata sull’uso a lungo termine.
La sertralina è risultata efficace dalla quarta settimana di trattamento alla dose di 50 mg in un
piccolo gruppo di bambini ed adolescenti con disturbo d’ansia generalizzato. In un successivo
studio con la fluoxetina versus placebo su 74 pazienti si è osservato un miglioramento significativo
(61% vs 35%) dei sintomi dell’ansia generalizzata, ansia da separazione e fobia sociale, tuttavia un
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numero consistente di pazienti è rimasto sintomatico e le migliori risposte si sono ottenute su
ragazzi affetti da fobie sociali.
Come si vede dai brevi cenni su riportati e dal paragrafo sulla sindrome da deficit attintivi con
iperattività il ricorso ai farmaci psicoattivi in pazienti in età evolutiva viene valutato con estrema
attenzione ed è limitato ai casi in cui i benefici attesi dalla terapia sono molto superiori ai possibili
effetti collaterali di questa classe di farmaci.
Ad esempio quei pazienti che siano effettivamente diagnosticabili come pazienti ADHD il
vantaggio che possono trarre dal trattamento farmacologico con farmaci psicostimolanti è tale da
giustificare sicuramente il rischio di effetti collaterali. Un tale paziente se adeguatamente trattato
può sperare in uno sviluppo cognitivo normale ed altresì nella diminuzione delle pressioni
ambientali derivanti dai sintomi della sua patologia.
LA PILLOLA DELL ’ INTELLIGENZA
Già da molti anni i farmacologi di tutto il mondo sono alla ricerca di molecole in grado di
intervenire nella biochimica del cervello per aumentarne le capacità cognitive, le ricerche si
sono sviluppate in due direzioni principali: da un lato sono state sviluppati farmaci in grado di
migliorare le prestazioni di pazienti affetti da gravi deficit cognitivi dovuti ad eventi traumatici
e patologici, e in questo ambito sono state sviluppati alcuni preparati in grado di migliorare
significativamente le prestazioni di pazienti affetti da morbo di Alzheimer o da demenza senile
(Donepezil, Rivestigmina Fenserina e Galantamina) altri contro la narcolessia (Modafinil) altri
ancora contro i deficit di attenzione (Metilfenidato); dall’altro, in ambiente militare, sono stati
sperimentate invece sostanze in grado di migliorare lo stato di vigilanza sul personale militare
in stato di fatica (ad esempio piloti impegnati in operazioni di guerra) in questo ambito la
destroanfetamina è stata sperimentata con notevole successo per oltre mezzo secolo.
Come spesso avviene i farmaci sintetizzati ed autorizzati con una specifica indicazione sono
utilizzati off label (fuori indicazione) anche in altre patologie… questo è il caso di tutti i farmaci
sopra citati che sono stati in vari modi utilizzati per migliorare le funzioni intellettive, insomma
come vere e proprie “pillole dell’intelligenza”
Il meccanismo d’azione dei farmaci suddetti, con grandi differenze tra l’uno e l’altro, è sempre
legato alla modulazione dei neurotrasmettitori, che favoriscono e a volte permettono la
trasmissione degli impulsi nervosi tra una cellula nervosa e l’altra, e in soggetti portatori di un
deficit neuronale tendono a migliorare le prestazioni, ma in soggetti sani che risultato ci si può
aspettare?
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Alcuni anni fa venne effettuata una sperimentazione per verificare l’efficacia di uno di questi
farmaci il Modanafil: 50 militari volontari sani vennero mantenuti in stato di veglia per 54 ore
dopo 40 ore in modo randomizzato i soggetti ricevevano un placebo (sostanza inerte), 600
milligrammi di caffeina (dose corrispondente a circa sei tazze di caffè) o ancora 100, 200 o 400
milligrammi di Modanafil.
I soggetti sono poi stati sottoposti ad una serie di test per valutarne efficienza cognitiva ed
effetti collaterali. I risultati dimostrarono che la dose massima di Modanafil aveva eliminato lo
stato di fatica e riportato l’efficienza cognitiva e livelli normali esattamente come la caffeina
con effetti collaterali modesti in entrambi i casi. Insomma allo stato attuale le sperimentazioni
non sembrano confermare il miglioramento delle prestazioni intellettive nei soggetti trattati,
inoltre sono doverose alcune considerazioni come dicevo questi farmaci sono in grado di
modulare la produzione e l’attività dei neurotrasmettitori ma se intervenire in soggetti
gravemente ammalati rappresenta l’unica possibilità per migliorarne le prestazioni, in soggetti
sani potrebbe apportare squilibri non controllabili e assolutamente non giustificati, è
probabilmente per questo motivo che questi farmaci allo stato attuale non sono ancora stati
autorizzati per queste indicazioni.
Gli interessi e le aspettative in questo ambito sono però elevatissimi e molti sono gli studi su
nuove molecole, alcune sembrano in grado di potenziare le capacità di memoria e di eliminare
ricordi relativi a traumi, se dovessero avere successo potrebbe scatenarsi una vera e propria
caccia alla pillola miracolosa.
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